In un intervista a Giampio Bracchi, a firma Mo.D., comparsa oggi sul Sole 24 Ore, si afferma che “Per le Pmi italiane il private equity (è) pronto con 4 miliardi”.
L’intervista è degna di nota, sia per l’autorevolezza dell’intervistato, che è presidente di AIFI, ovvero dell’associazione italiana investitori in private equity e in venture capital, sia per l’argomento trattato, che invita a ripensare, in chiave italiana, all’esperienza dell’omologa d’Oltralpe Cassa Depositi e Prestiti -la Caisse des Dépots– che nell’arco di dieci anni ha realizzato investimenti per 8,8 miliardi in 4mila imprese. Bracchi invita il governo a ripensare al funzionamento del fondo di patrimonializzazione per le Pmi, pur necessario, ma che va ripensato in chiave di “fondo di fondi”, ovvero in termini di partnership pubblico-privato. La proposta di Bracchi, a nome di AIFI, prosegue interessando e coinvolgendo anche le banche, che potrebbero finanziare l’impresa meritevole di intervento, impegnandosi contemporaneamente a finanziare le operazione di LBO da parte dell’imprenditore supportato dall’investitore istituzionale.
Fin qui tutto bene. Tuttavia la chiamata alle armi dei fondi pubblici non convince pienamente, perché Bracchi afferma che il fondo pubblico “arriva in un momento in cui è difficile per l’industria dei fondi di private equity tornare sul mercato per nuova raccolta.” Quindi? E’ meglio non rischiare da soli? Oppure le asimmetrie informative che l’investitore istituzionale in capitale di rischio -in Italia in verità mai troppo impegnato nella primissima fase del ciclo di vita dell’impresa- incontra normalmente, si affrontano meglio in compagnia del partner pubblico? Se 8 miliardi hanno prodotto buoni frutti in Francia, paese storicamente più avanzato del nostro per quanto riguarda il private equity, perchè 4 non dovrebbero, per intanto, bastare?