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L’impatto dello scudo sulla struttura finanziaria delle imprese e sui loro rapporti con le banche.

I dati sull’esito positivo dell’operazione “scudo fiscale” diffusi dal Ministro per l’economia, Giulio Tremonti, sono indubbiamente interessanti, soprattutto per l’ammontare contabilizzato, circa 95 miliardi di euro. Poiché la chiusura, con successo, della prima fase dell’operazione cade in un momento di ampio dibattito sul tema dei rapporti banca-impresa e sulla problematica della sottocapitalizzazione, vale la pena approfondire l’argomento con qualche dato alla mano. Non più tardi di due giorni fa i contributi di Gaetano Miccichè, di Banca Intesa, e del prof.Onado, nell’ambito di un’inchiesta del Sole 24 Ore sull’aumento del peso delle banche nell’impresa -l’articolo è a firma di Laura Galvagni e Marigia Mangano- evidenziavano sia il crescente interventismo degli Istituti di credito, costretti obtorto collo a trasformare crediti in azioni, sia il cronico basso livello di capitalizzazione delle imprese.

In particolare, Galvagni e Mangano spiegano che nel 2009 le banche hanno rilevato azioni per circa 2 miliardi, con riferimento a sette società quotate, fra cui Risanamento. Da qui, anche attraverso dichiarazioni del prof.Dallocchio, una nemmeno troppo velata sponsorizzazione dell’interventismo bancario, sul quale forse varrebbe la pena riflettere.

Ma torniamo allo scudo. Cosa rappresentano, effettivamente, quei 95 miliardi? A cosa li si dovrebbe paragonare?

Attraverso i dati resi pubblici dalla Banca d’Italia sul suo sito, è possibile consultare il Bollettino Statistico, il cui aggiornamento è datato all’indietro di circa 6 mesi ma è comunque significativo. Alla data del 30 giugno il totale del credito per cassa accordato nell’economia italiana, con esclusione della Pubblica Amministrazione, delle imprese finanziarie e delle famiglie produttrici e consumatrici, ammontava a circa 1232 miliardi. Paragonato a tale ammontare l’importo degli interventi effettuati sulle società quotate appare irrisorio (0,16%), così come è irrisorio se paragonato all’ammontare del credito effettivamente utilizzato, pari a 1137 miliardi di euro, per un incidenza percentuale pari allo 0,24%. Dunque non sembra che l’enfasi con la quale sono stati pubblicati le cifre di cui sopra, pur consapevoli che si tratta del solo mercato azionario, possano rappresentare una significativa inversione di tendenza della formula di intermediazione delle nostre banche, protese verso la hausbank di teutonica memoria.

Ben più significativo è il dato dei capitali rientrati in Italia grazie allo “scudo”: naturalmente resta da verificare la praticabilità dell’ipotesi che di questi denari ben il 98% rimanga effettivamente in Italia, ma ipotizziamolo pure, per comodità.

I capitali scudati, in effetti, rappresentano il 7,71% del totale dei fidi accordati per cassa, sempre ai soggetti descritti sopra, l’11,59% del totale utilizzato, ben il 71,08% del totale dei finanziamenti utilizzati per cassa a breve termine. Tale ultimo dato pare particolarmente interessante, perché è riferito agli affidamenti che effettivamente potrebbero essere interessati ad una riduzione, grazie ai capitali dello scudo, ossia quelli a breve termine per cassa, in quanto mediamente più costosi, più volatili ed erogati per fabbisogni che in questo momento mostrano fortissime tensioni (il capitale circolante netto operativo). Sarà interessante capire quanta parte di questi denari -in grado, almeno potenzialmente, di modificare per oltre 2/3 la struttura finanziaria delle imprese italiane- sarà effettivamente utilizzata per ridurre l’indebitamento a breve verso banche o, complici anche i commercialisti, si preferirà continuare nel ricorso disinvolto alla leva finanziaria. Magari dimenticando che non solo un’impresa che riduce il proprio indebitamento è percepita come meno rischiosa dai finanziatori -che la sostengono più a buon mercato, anche applicando i “vecchi” rating di Basilea 2- ma anche che si verificherebbe una riduzione della componente più redditizia degli impieghi bancari, quelli economici verso le imprese. Costringendo le nostre banche, la cui formula di intermediazione si basa ancora prevalentemente sul margine di interesse, a rifare i conti per non ritrovarsi con le sgradite sorprese provocate da un concorrente inatteso, il capitale di rischio.

Di johnmaynard

Associate professor of economics of financial intermediaries and stock exchange markets in Urbino University, Faculty of Economics
twitter@profBerti

3 risposte su “L’impatto dello scudo sulla struttura finanziaria delle imprese e sui loro rapporti con le banche.”

Buon Anno sig.Storr…nel post non era in discussione la moralità dello scudo, ma le sue conseguenze sulla gestione delle imprese e del rapporto con le banche. A presto.

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