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Imprese che (non) resistono.

Prigionieri iracheni

Storie sulle quali varrebbe la pena riflettere: questa me l’hanno fatta vedere in un’aula di bancari settimana scorsa.

Impresa di autotrasporto, a base familiare, tanti camion in leasing, un solo vero valore all’attivo, ovvero, tanto per cambiare, un capannone. Il valore dell’attivo è di circa 400mila euro, se tutto va bene, quello del passivo si aggira sul doppio. Il patrimonio netto negativo è abbondantemente sotto zero, da molto tempo, causa continui prelievi. La famiglia imprenditoriale non ha mai navigato nell’oro, non esistono, nè sembra plausibile che esistano, auto di lusso, ville, palazzi, gioielli, vacanze esotiche. Solo duro lavoro, solo quanto serve, al minimo. Per ottenere un appartamento di proprietà, e poco più, è stato calpestato qualunque principio di realismo, di capacità di fare i conti con la testardaggine di una realtà che, da tempo, tentava di comunicare a queste persone che la loro impresa non stava in piedi. Queste imprese non resistono e sarebbe inutile tenerle in piedi. Ma quanti meno danni si sarebbero fatti e quanti morti e feriti si sarebbero evitati se qualcuno, dalle banche al commercialista, avesse detto loro che non ne valeva la pena? Anche se non è detto che avrebbero capito: i soci dell’azienda in questione chiedono, infatti, alla banca, altri soldi per andare avanti. Mentre, tecnicamente, sono falliti.

Di johnmaynard

Associate professor of economics of financial intermediaries and stock exchange markets in Urbino University, Faculty of Economics
twitter@profBerti

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