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Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

L’effetto spugna ed il capitale circolante netto operativo.

Taccuino Sanitati, Ubriachezza

Sollecitato da più parti, ma soprattutto dal Gruppo Giovani Imprenditori di Confbottiglia, ai cui blog rimando il lettore assetato, provo a spiegare, o a ri-spiegare, cosa sia il capitale circolante netto operativo e, soprattutto, perché si parli di “effetto spugna” con riferimento al medesimo.

Il circolante netto operativo, più semplicemente ccno, è formato da quelle voci dei conti aziendali che rappresentano:

  1. ricavi non incassati=i crediti verso i clienti;
  2. costi sospesi, ovvero che ancora non hanno prodotto ricavi=le rimanenze di magazzino;
  3. costi non pagati=i debiti verso fornitori.

Ne deriva che se il circolante è alto, la spugna beve liquidità, perché crescono i ricavi non incassati, ovvero i clienti, il magazzino non gira e quindi aumentano i costi sospesi, cioè che non sono ancora serviti a nulla, si riducono -o poco contano- i debiti verso fornitori, ovvero i costi non pagati.

Spugna il Nostromo

Per quanto detto, le conseguenze operative per l’imprenditore sono abbastanza chiare: per evitare che la spugna del ccno si beva la liquidità e costringa ad andare in banca, facendosi anticipare fatture e pagando interessi, occorre vendere rapidamente ed incassare il più in fretta possibile.

Non si tratta, ad evidenza, di essere faciloni o di ignorare le difficoltà che gli imprenditori incontrano tutti i giorni nella loro attività: ma di conoscere attentamente le conseguenze di quello che si fa e delle scelte del giorno per giorno. Se le conseguenze della spugna sono queste, è bene sapere che, grossolanamente, si dice che il ccno sia pesante se il suo valore sulle vendite supera il 30%: ogni volta che un imprenditore, a fine anno, nei bilanci rileva che la somma di clienti + scorte – fornitori è pari o superiore al 30% di quello che vende, deve preoccuparsi e stare attento. Perché rischia di fare utili di carta, cioè solo scritti, che non si tramutano in denari. E i denari servono per l’attività di ogni giorno, per pagare le bollette, per fare fronte alle scadenze, per andare avanti.

Brueghel il Vecchio, Il paese della cuccagna

C’è solo un sistema per annullare gli effetti del circolante, ed è avere margini robustissimi, su posizioni di mercato solide, in nicchie che consentono di respingere la concorrenza. Se questo non è possibile, occorre anzitutto cominciare a selezionare la clientela: vendere a cattivi pagatori è come non vendere, perché quelle vendite non porteranno a nulla. E se per evitare di fare sconti si tiene la merce in magazzino, la stessa non crescerà di valore, ma danneggerà la liquidità, e basta. Un magazzino che non gira è un magazzino che appesantisce la gestione: guardare alla propria merce con sguardo innamorato è il peggiore degli errori, perché si tratterà di amore non ricambiato. Meglio uno sconto cassa, anche elevato, che fare conteggi di carta, lasciando la liquidità nella spugna.

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Borsa Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Mariella Burani

Quotarsi un po’…(2)

L’ottimo Fabio Pavesi, sempre sul supplemento Plus 24 di sabato scorso, offre qualche buon consiglio a chi voglia investire in azioni di società neo-quotate. Consigli dettati dal buon senso e sostenuti da evidenze empiriche, che avrebbero meritato più spazio. Ma è noto che quando si vogliono inforcare gli occhiali rosa, poi si finisce per farsi male.

Aggiungerei qualche notazione a quanto scritto nell’articolo, sulla scorta di quanto emerso qualche anno fa in un convegno organizzato a Jesi dal dottorato delle tre università marchigiane alle quali aderisce anche la mia facoltà. In quel convegno, al quale partecipavano amministratori delegati e/o direttori finanziari delle società marchigiane quotate, venne affermato che quasi sempre le motivazioni per le quali si va in Borsa sono, banalmente, quelle di consentire ai soci senior di fare cassa, offrendo altresì ai medesimi la possibilità di smobilizzare, in seguito, i propri pacchetti azionari. In definitiva, il mercato secondario sembrerebbe servire più ai soci senior che ai nuovi investitori.

D’altra parte, se è vero ciò che dice Pavesi circa la necessità di indagare sulle motivazioni per le quali ci si quota, nella realtà nessuno è in grado di sapere, ex-ante, quello che accadrà ex-post: ovvero se i fondi raccolti serviranno per ripagare i debiti bancari (è accaduto nel caso di Mediaset ed è stata una storia molto positiva, per l’azienda e per i risparmiatori) oppure per fare nuovi investimenti, crescere (ma contemporaneamente fare cassa, ripianare, almeno temporaneamente, vecchi debiti, ricchi premi et cotillons) e poi fallire, come nel caso di Mariella Burani. Il vero problema è che i soldi, come dice Pavesi, dovrebbero essere investiti quando servono alle necessità dell’azienda, e non ai vecchi proprietari. Solo che nessuno è in grado di farlo prima e il mercato, spesso e volentieri, non se ne accorge.

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Banche Borsa Cultura finanziaria Educazione Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese IPO Rischi Risparmio e investimenti

Quotarsi un po’…

Il supplemento di sabato del Sole 24 Ore, Plus 24, si sofferma sulle IPO a venire, definendo il 2010 l’anno delle quotazioni. Marco Liera, nel titolare che di 569 imprese quotate ne sono rimaste 272, sottolinea anzitutto le aspettative di venditori e compratori, “molteplici ed a volte in conflitto”. In particolare chi colloca dovrebbe non soltanto puntare a massimizzare l’incasso, ma anche a “individuare un prezzo equo che lasci spazio per un’ulteriore remunerazione ai soci (…).” Al contrario, chi acquista o è mosso da puro intento speculativo oppure è un cassettista. Pur comprendendo le necessità della scrittura giornalistica, è difficile sottrarsi al dubbio dell’eccesso semplicistico acuito, purtroppo, da una lunga esperienza accademica e di studi. Le Initial Public Offering (IPO) rammentano i luccichii ed i brillantini, lo strass e la moltiplicazione dei riflessi utilizzati per attrarre. Quasi che l’interesse -o la ragion d’essere di un mercato mobiliare- si esaurisse nel consentire nuove quotazioni. I giornali, economici e non, in questi casi fanno sempre titoli che riflettono, si ritiene erroneamente, una concezione per la quale ci si stanca subito di qualunque cosa. La Borsa è interessante solo se i ballerini e le danze cambiano, la novità muove i risparmi, i fondamentali sembrano perdere di valore. La borsa, in buona soatanza, è un punto SNAI (o B-win), dove si scommette.

A parte le considerazioni circa l’educazione finanziaria dei risparmiatori, le affermazioni di Liera sembrano un po’ ingenue: i collocatori mirerebbero, tutti indistintamente, a massimizzare gli incassi, ma fra di essi gli interessi delle banche d’affari e dei soci senior sono notoriamente in contrasto. Le une vorrebbero un prezzo che consenta di fare il pieno di adesioni, gli altri vogliono massimizzare i flussi in entrata, subito. E ancora: i compratori, anche i più sprovveduti, sono a conoscenza del noto fenomeno dell’undepricing, in forza del quale chi ottiene le azioni in fase di IPO nella quasi totalità dei casi otterrà lauti guadagni rivendendo subito dopo, dal momento che il prezzo iniziale di quotazione risulta essere sempre inferiore a quello di mercato, perlomeno per un certo lasso di tempo iniziale. Poi, come insegna la ricca letteratura citata da Liera, i prezzi vanno giù, ma nel frattempo chi ha ottenuto le azioni in fase di IPO fa, o avrebbe dovuto fare, cassa (se non l’ha fatto, come insegna la saggezza popolare romagnola, “dormiva nella paglia”).

L’editoriale è interessante, sia ben chiaro: ed andrebbe letto con attenzione dai miei studenti e non solo. Inoltre, e di questo vale la pena occuparsi a parte, l’articolista richiama l’importanza per l’investitore di seguire nel tempo le vicende delle società di cui si è azionisti, valutandone i fondamentali, le scelte strategiche, i mutamenti negli assetti proprietari. Un lavoro meno semplice di quanto sembri: e, soprattutto, per il quale sono richieste competenze e capacità specifiche, e non solo. Sempre più quello che manca è l’educazione finanziaria.

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Bolla immobiliare Crisi finanziaria

Mattonate.

Carlo Cimbri e Carlo Salvatori, rispettivamente neo amministratore delegato, l’uno, a.d.uscente l’altro, venerdì a mercati chiusi hanno comunicato che “in linea con le indicazioni dei regolatori (la Vigilanza di Banca d’Italia: ndr) al fine di migliorare i ratio patrimoniali” il gruppo Ugf (Unipol) chiederà ai propri azionisti la modica cifra di 500 milioni.

Stefano Elli, sul Sole 24 Ore di sabato ricostruisce gli affidamenti finiti sotto la lente di Via Nazionale ed ai quali, fra gli altri, è da ascrivere un ammontare di 19,5 milioni di sofferenze, 154,7 di incagli e 32,2 milioni di perdite stimate e partite anomale pari, al 30 giugno 2009, al 28% dell’erogato. Bene, si tratta di aziende riconducibili alla Immobiliare Aedes (Via Larga srl, Via Calzoni srl, Via Stalingrado srl e Turati Properties srl). Dunque i danni della sbornia post bolla immobiliare proseguono, estendendosi alla finanza rossa e democratica. Sull’apodittica affermazione che gli immobili si rivalutano sempre  sarebbe forse ora di stendere un pietoso velo di silenzio.

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Crisi finanziaria

Chi doveva fermare le cicale greche?

Romano Prodi

Alberto Alesina e Roberto Perotti, in un articolo di durezza inusitata sul Sole 24 Ore, nel sottolineare la dissipatezza greca, non mancano di dare sostegno alle ragioni di Angela Merkel, che chiede serietà -finalmente- alla Grecia stessa, per salvare la quale saranno chiesti molti denari del contribuente tedesco. L’articolo, per la sua sintesi e la sua lucidità merita un’approfondita lettura, e ad esso vale la pena rimandare il lettore. Ma resta difficile non ricordare chi fosse a capo della Commissione Europea, quando i conti della Grecia vennero approvati senza colpo ferire, passando sotto silenzio che, per ammissione degli stessi greci, il disavanzo era superiore di “soli” 8 punti di Pil a quanto aveva dichiarato. Siamo proprio certi che sia stato fatto tutto il possibile per verificare bene i conti? In Italia ci stracciamo le vesti per i pensionati-baby, in Grecia si va tuttora in pensione a 50 anni. Il Prof.Prodi non ha nulla da dire?

Quanto alla speculazione, sulla quale si abbattono le ire dei greci e che viene spesso incolpata delle peggio cose, non è colpevole del dissesto del simpatico Paese mediterraneo. La speculazione si limita ad evidenziare problemi che non ha creato, ma che chi governa quel Paese -ed anche chi a suo tempo lo ha accolto nell’area Euro- doveva ben sapere: non si possono spendere i denari che non si possiedono.

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Banche Unicredit

Banchieri democratici.

Alessandro Profumo, A.D.di Unicredit

Le notizie che riempiono i quotidiani economici e le pagine di finanza dei principali quotidiani, Corriere della Sera in testa, se appassionano molto i giornalisti -e probabilmente anche molti lettori- si riflettono sull’economia reale in misura molto meno intrigante degli sviluppi delle lotte per il potere. Di Cesare Geronzi, appena designato alla presidenza di Generali, banchiere democristiano devoto ad Antonio Fazio, si ricordano i magistrali finanziamenti fatti, alla testa di Capitalia, alla famiglia Sensi per le necessità della A.S.Roma Calcio: finanziamenti talmente oculati che Unicredit, che li ha rilevati, ha messo la famiglia a rientro (ed incaglio) per circa 300 milioni di euro.

Cesare Geronzi

Quanto ad Alessandro Profumo, banchiere democratico e progressista, Paola Picca sempre sul Corriere, parla di “Scene private di una superbanca”, con riferimento alle preoccupazioni dei manager di Unicredit, timorosi di perdere il già -a quanto pare- modesto di cui godono. Profumo, in effetti, amministratore delegato di una banca internazionale, riveste di fatto -e impropriamente- anche la carica di direttore generale- con evidenti allungamenti della catena di comando. Difficile stare vicini al cliente ed al territorio con una struttura così accentrata. Ma se qualcuno dentro Unicredit pensa ancora che sia sufficiente cambiare vestito per modificare il modo di fare banca, dovrebbe riflettere sui danni al territorio apportati dall’assorbimento delle tante banche locali pre-esistenti ad Unicredit. E chiedersi se ne valeva la pena.

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Crisi finanziaria Disoccupazione Economisti Felicità Imprese Indebitamento delle imprese Lavoro PMI

La persona è il fondamento dell’economia.

Caspar Friedrich, Il naufragio della speranza.

Giulio Sapelli, in un bell’articolo apparso sul Corriere di oggi -e che in ossequio alla nuova politica editoriale  che vede i contenuti on-line del giornale ridotti o a pagamento non possiamo evidenziare né rimandare con alcun link– parla nuovamente della tragedia degli imprenditori suicidi veneti, sulla quale già sono state fatte riflessioni in questa sede.

Sapelli parla delle PMI come luoghi dove “si pensa e si fatica e si soffre e si gioisce e si vive nel lavoro gomito a gomito, faccia a faccia, famiglia a famiglia, strada per strada del paesino o della cittadina.” E dell’impresa che “dopo anni di lavoro diventa una proprietà condivisa moralmente prima che giuridicamente.” Il venir meno della possibilità di condivisione fa al contempo venir meno, secondo Sapelli, il patto morale sottoscritto e questo fatto diventa un peso insopportabile, fino al punto di compiere il gesto estremo. Così, nonostante i “codici etici e la Corporate Social Responsability, l’imprenditore è solo. Sapelli non arriva a giudicare del senso di questa solitudine, e questo è probabilmente il limite del suo, peraltro bellissimo, articolo. Ma arriva a definire con nettezza e lucidità che cosa sia l’economia, con buona pace degli economisti, della regina Elisabetta e di tutti quelli che ragionano per teoremi e per modelli. “L’economia è frutto del comportamento umano, è frutto dell’azione e della cultura delle persone. Nel bene e nel male. Sempre.”

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Banche Imprese Indebitamento delle imprese PMI Strumenti finanziari

Bagni di mare e bagni di sangue.

Marina di Pietrasanta

La storia riportata da Plus24 – Il Sole 24Ore di sabato 20 marzo è edificante ed istruttiva per molti motivi.

In breve, l’azienda “Bagno Roma Fiumetto” che gestisce uno stabilimento balneare a Marina di Pietrasanta, in provincia di Lucca, stipula con la Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno (Gruppo Banco Popolare) un contratto di copertura sul rischio di tasso, un normale derivato del tipo plain vanilla. Con il contratto, un IRS (interest rate swap) stipulato nel maggio 2008, per la durata di 5 anni, l’impresa toscana intendeva tutelarsi dal rischio di aumento dei tassi, pagando rate saldamente ancorate al tasso fisso del 4,38%, evitando in tal modo il rischio che i tassi salissero, con conseguenze indesiderate.

Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non per l’applicazione implicita di commissioni per 16.500 €, in assenza delle quali il tasso sarebbe stato rispondente ai requisiti di mercato, collocandosi intorno al 4,21%. Tuttavia, non essendosi avverate le previsioni di aumento dei tassi, l’impresa –che avrebbe fatto meglio a non firmare nulla- ha dovuto pagare 34.000 € di rate e, intendendo chiudere il contratto dovrebbe sborsarne altri 200.000 (!).

La vicenda, simile a molte altre che hanno visto per protagoniste altre piccole e medie imprese (anche micro-imprese: un barista veneto, per esempio) e altre “grandi” banche italiane, si presta ad alcune riflessioni:

  1. conoscendo i bagnini (absit iniuria verbis, non penso che quelli del Tirreno posseggano una cultura finanziaria superiore a quella della riviera riminese) dubito fortemente che l’iniziativa di sottoscrivere il contratto IRS sia partita dal titolare dello stabilimento balneare: come già verificato di persona in altre circostanze, l’iniziativa è probabilmente partita dalla banca;
  2. il contratto IRS in questione, come nota Michele Moschini di Consultique Sim, intervistato da Marcello Frisone nell’articolo, è stato sottoscritto in un momento di tassi elevati, ma per un periodo di tempo così lungo da renderlo, come poi si è verificato, eccessivamente oneroso e non conveniente;
  3. se la struttura del contratto derivato come quello in oggetto fosse nota e chiara ad ambo le parti, apparirebbe manifesto un concetto mai abbastanza enfatizzato: in questo genere di contratti ciò che una delle parti guadagna, l’altra lo perde, simmetricamente. Orbene, è davvero possibile che non sorga mai il dubbio che se una banca propone un tale tipo di contratto non lo fa per perdere (tralasciamo il cado dei derivati proposti da banche internazionali, creati appositamente per guadagnare sempre e comunque) ma perché sa che guadagnerà?
  4. chi consiglia le piccole e medie imprese in queste circostanze? Associazioni, commercialisti sono stati interpellati? E se lo fossero stati, avrebbero saputo rispondere?

Infine, l’esperienza di molti anni passati ad analizzare imprese, conoscerne i titolari e verificarne i comportamenti, porta a considerazioni pessimistiche sulla cultura d’impresa, soprattutto di tipo finanziario, delle nostre Pmi. Spesso, purtroppo, molto più attente al costo del debito che all’effettiva consistenza del risultato operativo, che il debito deve ripagare. A tacere, in definitiva, della sostenibilità di tante operazioni fatte a debito –non si sta discutendo del Bagno Roma Fiumetto, ovviamente, del quale non si conoscono i conti ed al quale va tutta la solidarietà- che non sono sostenibili, ovvero  che non vedranno mai il rimborso dei prestiti contratti per effettuarle. E che si concluderanno, purtroppo, in bagni di sangue.

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Imprese

Il fine ultimo dell’impresa.

La Grande Crisi avrà effetti sul fine ultimo dell’impresa? Qualche sera fa ne ho ragionato con un amico, Mario Barozzi, che, dopo aver lavorato nella banca americana Chase e all’Enel, ora investe cifre importanti nel private equity. Il fine dell’impresa appartiene alla libera scelta dell’imprenditore, ma questa è influenzata dallo spirito del tempo e dei luoghi. Se ai primi del Novecento, la compagnia di navigazione del Reno aveva come scopo principale quello di collegare le città rivierasche, alla fine del secolo il fine era diventato quello di creare valore per i soci. Del resto, se la proprietà non è rappresentata da un armatore ma da un azionariato diffuso ovvero da un fondo speculativo, e se i marinai non sono più una corporazione sindacalizzata ma un coacervo casuale di umanità migrante, anche l’impresa non è più la stessa. E quando gli ho chiesto se fosse bello tutto ciò, il mio amico mi ha invitato a conoscere Nicolò Branca, che guida la celebre azienda del fernet.

La Fratelli Branca Distillerie vende dal 1845 un amaro ricavato dall’infusione di una quarantina di erbe e radici provenienti dai 5 continenti secondo le proporzioni elaborate da Beniamino Branca. La ricetta, tuttora manoscritta, viene tramandata dal leader della famiglia al suo successore. Solo il direttore di produzione condivide il segreto. La mescola è regolata da computer inaccessibili agli hacker. A metà Ottocento, il direttore del Fatebenefratelli, padre Nappi, riscontrò benefici effetti del fernet contro il colera asiatico. Nell’America del proibizionismo, il Fernet Branca era regolarmente in vendita perché medicamentoso. Il prodotto è immutabile, ma il modo di berlo cambia, e oggi il primo mercato è l’Argentina, dove i ragazzi lo diluiscono con la Coca Cola in un cocktail chiamato Fernandito. La storia dell’azienda, che faceva marketing quando la materia non era ancora insegnata, è conservata nel museo dello stabilimento di Milano, un vecchio immobile costantemente riadattato. Qui figurano anche le memorie delle rare acquisizioni: Borghetti, Carpano, Candolini. Con 250 dipendenti, la Branca fa 153 miliardi di ricavi, per il 65% all’estero; ha un margine operativo lordo di 33,6 milioni e un utile di 18,4 dopo 12 milioni di imposte; il patrimonio netto è di 188 milioni, 99 milioni sono titoli e cassa, zero debiti in banca. Il professor Branca sa perfettamente che, se spostasse la fabbrica fuori città, valorizzerebbe l’area e che, con il cash flow che genera senza interruzioni da decenni, più stabile dell’Enel, potrebbe estrarre molto valore della società indebitandola, ma trova tutto ciò un po’ greedy, un po’ avido. A lui sta a cuore la continuità

dell’azienda. Durare vale più di guadagnare. Sulla durata si costruiscono relazioni e saperi, e per durare ci vuole equilibrio. Il mio amico sorridendo dice: «Noi dei private equity dovremmo starci alla larga: con aziende come queste guadagneremmo facile ma poi le ruberemmo l’anima».

Massimo Mucchetti

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don Giussani Educazione

L’avventura della conoscenza e la sfida del reale.

L’avventura della conoscenza e la sfida del reale.

Grand Central Station, New York

Due sono allora i fattori di una rinascita dell’esperienza educativa.
In primo luogo, la consapevolezza del metodo. L’unica cosa in grado di svegliare l’io dal suo torpore, non è una organizzazione o un richiamo etico più accanito, ma l’imbattersi in una diversità umana. Perché questo possa accadere occorrono – ed è il secondo fattore indispensabile – degli adulti che incarnino nella loro vita una “risposta plausibile” (così la definiva a Genova Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia alla Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani), che possa offrirsi agli altri. Si tratta di una straordinaria possibilità di verifica: partecipando all’avventura educativa, cercando cioè di introdurre altri uomini alla totalità del reale, viene a galla senza possibilità di astrazioni se noi per primi partecipiamo all’avventura della conoscenza. Don Giussani ci ha sempre detto che la forma dell’educazione è la «comunicazione di sé»cioè del proprio modo di rapportasi con la realtà; perciò noi possiamo educare solo se per primi accettiamo la sfida del reale, comprese le paure, le difficoltà, le obiezioni. Proprio questo mostrerà a tutti la portata della fede come risposta alle esigenze di un uomo ragionevole del nostro tempo. E renderà per ciascuno di noi entusiasmante e carica di speranza l’avventura educativa.

Julian Carròn, Milano 18 marzo 2010