Frères Jacques alla Rose Rouge. La prima sera m’incantano. Nelle sere successive si scopre l’organizzazione professionale dei loro scherzi, sempre identici. Stabilita l’azione, non concedono più niente alla fantasia, all’umore, al divertimento proprio: ripetono con mostruosa esattezza. Ho visto Peppino De Filippo recitare quattro volte la medesima commedia con sempre nuove invenzioni. Egli stesso non ricordava certe felici battute della prima rappresentazione. Forse la nostra salvezza è nel non credere che la perfezione esista, o semplicemente nel trovarla noiosa.
Ennio Flaiano, Diario degli errori, Adelphi 2010
2 risposte su “Non concedono più niente alla fantasia, all’umore, al divertimento proprio.”
Per me la perfezione non e’ noiosa, rimane sempre uno dei miei obiettivi, rimango delusa quando mi allontano e sono fiera quando mi avvicino. Ci può essere fantasia e divertimento anche in uno spettacolo studiato alla perfezione, sta ai protagonisti renderlo ogni volta perfettamente diverso da qualsiasi altro. Noi siamo stati creati per ambire alla perfezione.
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Nell’inserire questo post di Flaiano ho fatto un’operazione autobiografica e personale. la stessa che, interiormente, mi capita di fare ogni volta che ascolto la canzone “Lo show” di Vasco Rossi (l’album è Gli spari sopra), perché Vasco dice esattamente quello che sento io quando vado in aula -e ci vado spesso- ovvero che lui canta (io insegno) per chi lo ascolta ma, soprattutto, per sé stesso, perché è il modo con cui si realizza, risponde al suo desiderio interiore, trova il compimento.
Solo che c’è modo e modo di insegnare (e di cantare, I presume) e mi rendo conto che, ogni volta, le lezioni (le canzoni) non sono più le stesse: più volte, parlando con dei colleghi e pensando al trolley sempre pronto, abbiamo riflettuto su una sorta di connotazione teatrale del lavoro che svolgiamo: con cambio di città, di palcoscenico, di pubblico, di sensibilità.
La perfezione di cui parla Flaiano, dunque, non è la sacrosanta accuratezza nel fare bene le cose, ma nel rendere qualcosa che dovrebbe essere estremamente personale meccanico e ripetitivo. Come se fosse un ritornello ripetuto a memoria: e invece, absit iniuria verbis, persino Dante è diverso se letto da Albertazzi, Gassmann o Benigni.
E’ vero, siamo stati creati per l’Infinito, per qualcosa di molto più grande di noi: ma resta una continua tensione con il nostro limite, che qua in terra non si risolverà mai.
Grazie per essere intervenuta.
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