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Bagni di mare e bagni di sangue.

Marina di Pietrasanta

La storia riportata da Plus24 – Il Sole 24Ore di sabato 20 marzo è edificante ed istruttiva per molti motivi.

In breve, l’azienda “Bagno Roma Fiumetto” che gestisce uno stabilimento balneare a Marina di Pietrasanta, in provincia di Lucca, stipula con la Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno (Gruppo Banco Popolare) un contratto di copertura sul rischio di tasso, un normale derivato del tipo plain vanilla. Con il contratto, un IRS (interest rate swap) stipulato nel maggio 2008, per la durata di 5 anni, l’impresa toscana intendeva tutelarsi dal rischio di aumento dei tassi, pagando rate saldamente ancorate al tasso fisso del 4,38%, evitando in tal modo il rischio che i tassi salissero, con conseguenze indesiderate.

Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non per l’applicazione implicita di commissioni per 16.500 €, in assenza delle quali il tasso sarebbe stato rispondente ai requisiti di mercato, collocandosi intorno al 4,21%. Tuttavia, non essendosi avverate le previsioni di aumento dei tassi, l’impresa –che avrebbe fatto meglio a non firmare nulla- ha dovuto pagare 34.000 € di rate e, intendendo chiudere il contratto dovrebbe sborsarne altri 200.000 (!).

La vicenda, simile a molte altre che hanno visto per protagoniste altre piccole e medie imprese (anche micro-imprese: un barista veneto, per esempio) e altre “grandi” banche italiane, si presta ad alcune riflessioni:

  1. conoscendo i bagnini (absit iniuria verbis, non penso che quelli del Tirreno posseggano una cultura finanziaria superiore a quella della riviera riminese) dubito fortemente che l’iniziativa di sottoscrivere il contratto IRS sia partita dal titolare dello stabilimento balneare: come già verificato di persona in altre circostanze, l’iniziativa è probabilmente partita dalla banca;
  2. il contratto IRS in questione, come nota Michele Moschini di Consultique Sim, intervistato da Marcello Frisone nell’articolo, è stato sottoscritto in un momento di tassi elevati, ma per un periodo di tempo così lungo da renderlo, come poi si è verificato, eccessivamente oneroso e non conveniente;
  3. se la struttura del contratto derivato come quello in oggetto fosse nota e chiara ad ambo le parti, apparirebbe manifesto un concetto mai abbastanza enfatizzato: in questo genere di contratti ciò che una delle parti guadagna, l’altra lo perde, simmetricamente. Orbene, è davvero possibile che non sorga mai il dubbio che se una banca propone un tale tipo di contratto non lo fa per perdere (tralasciamo il cado dei derivati proposti da banche internazionali, creati appositamente per guadagnare sempre e comunque) ma perché sa che guadagnerà?
  4. chi consiglia le piccole e medie imprese in queste circostanze? Associazioni, commercialisti sono stati interpellati? E se lo fossero stati, avrebbero saputo rispondere?

Infine, l’esperienza di molti anni passati ad analizzare imprese, conoscerne i titolari e verificarne i comportamenti, porta a considerazioni pessimistiche sulla cultura d’impresa, soprattutto di tipo finanziario, delle nostre Pmi. Spesso, purtroppo, molto più attente al costo del debito che all’effettiva consistenza del risultato operativo, che il debito deve ripagare. A tacere, in definitiva, della sostenibilità di tante operazioni fatte a debito –non si sta discutendo del Bagno Roma Fiumetto, ovviamente, del quale non si conoscono i conti ed al quale va tutta la solidarietà- che non sono sostenibili, ovvero  che non vedranno mai il rimborso dei prestiti contratti per effettuarle. E che si concluderanno, purtroppo, in bagni di sangue.

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Imprese

Il fine ultimo dell’impresa.

La Grande Crisi avrà effetti sul fine ultimo dell’impresa? Qualche sera fa ne ho ragionato con un amico, Mario Barozzi, che, dopo aver lavorato nella banca americana Chase e all’Enel, ora investe cifre importanti nel private equity. Il fine dell’impresa appartiene alla libera scelta dell’imprenditore, ma questa è influenzata dallo spirito del tempo e dei luoghi. Se ai primi del Novecento, la compagnia di navigazione del Reno aveva come scopo principale quello di collegare le città rivierasche, alla fine del secolo il fine era diventato quello di creare valore per i soci. Del resto, se la proprietà non è rappresentata da un armatore ma da un azionariato diffuso ovvero da un fondo speculativo, e se i marinai non sono più una corporazione sindacalizzata ma un coacervo casuale di umanità migrante, anche l’impresa non è più la stessa. E quando gli ho chiesto se fosse bello tutto ciò, il mio amico mi ha invitato a conoscere Nicolò Branca, che guida la celebre azienda del fernet.

La Fratelli Branca Distillerie vende dal 1845 un amaro ricavato dall’infusione di una quarantina di erbe e radici provenienti dai 5 continenti secondo le proporzioni elaborate da Beniamino Branca. La ricetta, tuttora manoscritta, viene tramandata dal leader della famiglia al suo successore. Solo il direttore di produzione condivide il segreto. La mescola è regolata da computer inaccessibili agli hacker. A metà Ottocento, il direttore del Fatebenefratelli, padre Nappi, riscontrò benefici effetti del fernet contro il colera asiatico. Nell’America del proibizionismo, il Fernet Branca era regolarmente in vendita perché medicamentoso. Il prodotto è immutabile, ma il modo di berlo cambia, e oggi il primo mercato è l’Argentina, dove i ragazzi lo diluiscono con la Coca Cola in un cocktail chiamato Fernandito. La storia dell’azienda, che faceva marketing quando la materia non era ancora insegnata, è conservata nel museo dello stabilimento di Milano, un vecchio immobile costantemente riadattato. Qui figurano anche le memorie delle rare acquisizioni: Borghetti, Carpano, Candolini. Con 250 dipendenti, la Branca fa 153 miliardi di ricavi, per il 65% all’estero; ha un margine operativo lordo di 33,6 milioni e un utile di 18,4 dopo 12 milioni di imposte; il patrimonio netto è di 188 milioni, 99 milioni sono titoli e cassa, zero debiti in banca. Il professor Branca sa perfettamente che, se spostasse la fabbrica fuori città, valorizzerebbe l’area e che, con il cash flow che genera senza interruzioni da decenni, più stabile dell’Enel, potrebbe estrarre molto valore della società indebitandola, ma trova tutto ciò un po’ greedy, un po’ avido. A lui sta a cuore la continuità

dell’azienda. Durare vale più di guadagnare. Sulla durata si costruiscono relazioni e saperi, e per durare ci vuole equilibrio. Il mio amico sorridendo dice: «Noi dei private equity dovremmo starci alla larga: con aziende come queste guadagneremmo facile ma poi le ruberemmo l’anima».

Massimo Mucchetti