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Quanto costa Basilea 3.

In un comunicato stampa del 10 giugno l’Institute of International Finance ha pubblicato i risultati dello studio riguardante l’impatto su banche e sistema economico dei requisiti regolamentari previsti dell’accordo noto come Basilea 3. Nella sezione  Documenti del Blog è possibile leggere copia dello studio preliminare in questione.

Quanto alle conclusioni, sono state raggiunte applicando un metodo ed un’impostazione condivisibili, in particolare laddove si afferma (pag.4) che: “The logic of how the models work is fairly straightforward. For example, the imposition of higher capital ratios generally requires banks to raise more capital. Net new issuance puts an upward pressure on the cost of capital, which banks then add to their lending rates to the private sector. Higher lending rates reduce bank credit and, thus, the aggregate supply of credit to the economy. This, in turn, lowers GDP and employment. Higher liquidity requirements work through similar channels. Requiring banks either to hold more lower yielding liquid assets or issue more long-term wholesale debt squeezes bank profit margins. Lower profits not only make it more necessary to issue capital via markets (rather than through retained profits), but also make that issuance more expensive, as earnings disappointment makes equity investors more leery. Finally, higher bank taxes reduce post-tax profits and thus have a similar effect as reduced net interest margins.” Ovvero, un più elevato costo della raccolta bancaria e più stringenti vincoli di liquidità si tradurranno in un più elevato costo del credito, in minori investimenti, crescita più rallentata, disoccupazione etc…

Resta da capire quanto le conclusioni dello studio IIF, che stima una riduzione del PIL nell’area Euro di poco inferiore a 1 punto per 5 anni, facciano veramente i conti con le affermazioni del Governatore della Banca d’Italia, che è anche Presidente del Financial Stability Board, quando sostiene che per le banche è tempo di minori guadagni e di minori rischi. La sensazione che si ha, come ai tempi dell’introduzione di Basilea 2, è che non si tratti che di fuoco di sbarramento, utile a tenere le posizioni. E che solo quando la nuova regolamentazione diverrà definitiva si potrà, veramente, giudicare.

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Giulio Tremonti Imprese Lavoro Silvio Berlusconi Stato Sviluppo

Serve davvero modificare l’art.41?

La discussione sulla modifica dell’art.41 della Costituzione, che sarebbe propedeutica e necessaria ad una nuova legislazione, in grado di liberare gli animal spirits italiani, costretti e compressi da una normativa farraginosa ed opprimente, sembra aver sbagliato obiettivo. A meno che non si stia parlando a nuora perché suocera intenda (comincio a smantellarti la Costituzione vetero-catto-comunista dai principi meno importanti, poi passo alle cose più serie), la lettura dell’art.41 non dà adito a dubbi. Non è questo articolo che frena la libertà d’impresa, ma come sa l’on.Vignali che ha presentato da tempo una proposta di legge in tal senso, basta riformare la legislazione ordinaria per riaffermare la centralità dell’impresa nello sviluppo economico e nella creazione di lavoro. Altrimenti si rischia che per sparare al bersaglio grosso non si riesca ad ottenere un centro neppure in quello piccolo.

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Educazione Università

Educazione liquefatta.

I sociologi ci ripetono che il nostro sistema sociale si va sempre più destrutturando. Siamo passati dalla società industriale a quella postindustriale, poi a quella postmoderna, infine a quella che Bauman chiama liquida perché non ha più regole e legami forti. Io credo invece che a fasi di destrutturazione seguano fasi di ricostruzione e che questa nuova fase ricostruttiva sia già cominciata. Prendiamo il campo dell’insegnamento. Cinquant’anni fa dall’incontro fra Dewey, la psicoanalisi ed il marxismo volgare, è nata una pedagogia secondo cui non si devono imporre regole e dare nozioni. Il bambino non deve imparare a memoria le tabelline, le poesie, i nomi geografici, le date della storia, non deve studiare la grammatica, l’analisi logica. Non deve nemmeno riconoscere l’autorità dei genitori e degli insegnanti. Questi pedagogisti pensavano che l’individuo sarebbe stato più libero di creare e sarebbe avvenuta una stupefacente fioritura culturale. Invece si è creato un vuoto che è stato riempito dalla cultura mediatica.

Il ragazzo non sa le poesie ma conosce le canzonette, non segue i comandamenti morali ma «ciò che dicono i compagni », non conosce i classici ma quello che dicono i personaggi televisivi. La pedagogia che livella tutto sul basso per eliminare le differenze, in realtà ha avuto come effetto di rendere ignoranti milioni di persone e di privilegiare quelli che potevano andare nelle università e nelle scuole di eccellenza dove trovavano maestri autorevoli e programmi rigorosi. Perciò oggi sono sempre più numerosi coloro che pretendono una scuola più seria, più rigorosa, con insegnanti preparati e più autorevoli. Ma incominciano anche a capire che sono indispensabili delle norme morali di base interiorizzate, apprese fin dall’infanzia. Non puoi aspettare che il bambino impari da solo che non deve rubare o angariare i suoi compagni. Devi insegnarglielo e far sì che se lo imprima nella mente, diventi una abitudine. Infine stiamo anche capendo che il nostro ordine sociale è fondato sul comandamento fondamentale: «Comportati con l’altro come vorresti che lui si comportasse con te». Un comandamento che non può esser dimostrato con un calcolo dei costi-benefici. O lo accetti o non lo accetti. In cinquant’anni siamo passati dall’autoritarismo più cieco all’anarchia più totale, dalla società più rigida a quella più sbriciolata, liquefatta. Ma non si va oltre il liquido, si deve incominciare la ricostruzione.

Francesco Alberoni, Il Corriere della Sera, 29 marzo 2010