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Banche

Never brown in the town.

Come tutte le caste, anche quella che gravita attorno alla finanza (dopotutto una delle più aperte), ha un codice di piccolissimi segni di stile e di status impercettibili agli outsider, ma che mogli e fidanzate imparano a riconoscere in una frazione di secondo: lo spezzato è un non datur se non fra i cassieri di banca, l’ultima propaggine esterna e negletta del sistema, così come la scarpa di colore neutro, che di solito si accompagna alla cafonissima punta quadrata e impunturata e relega istantaneamente il suo portatore nella Siberia delle relazioni sociali e delle opportunità di carriera. L’aspirante insider italiano tende a prediligere le Church’s, pur sapendole fatte per piedi meno delicati, condizioni atmosferiche
quasi sempre maggiormente avverse e strutture comportamentali più robuste, mentre l’arrivato porta, ovunque in Europa, francesine nere fatte su misura da un mago della calzata italiana, più Santoni
che Berluti, splendide ma leggermente eccentriche, e lucidate solo in punta. Qualche nostalgico si ostina a non ritirare le forme dei propri piedi scolpite nel legno dai laboratori di Lobb’s, ma sono casi davvero sporadici. Sulle calze, sempre lunghe si intende, il grigio chiaro è concesso solo ai banchieri francesi, riconoscibili fra l’altro proprio da questo particolare oltre che dallecravatte strette e a disegnini stile Hermès in colori tenui, così come il triplo match a strisce (camicia a righe, cravatta regimental, abito gessato, di preferenza blu), è segno almeno di una lunga permanenza a Londra, visto che curiosamente solo gli inglesi sembrano in grado di combinarlo con gusto. Il neolaureato americano senza troppi mezzi indossa completi Brooks Brothers da 500 dollari, che non a caso si sta preparando a festeggiare i due secoli di storia grazie all’invenzione delle first job suits, mentre il gran signore ha smesso di slacciare
gli ultimi bottoni della giacca per distinguersi dai neo arrivati che quasi scompongono la loro pur di mostrarne la fattura sartoriale.

Fabiana Giacomotti, Il Foglio, 9 ottobre 2010.