L’iniziativa della Fondazione Mind the Bridge e del Corriere della Sera che ha raccolto e selezionato 10 progetti di start-up e che viene raccontata nell’articolo di Massimo Sideri è certamente interessante e meritoria. Lo è perché enfatizza il gusto del rischio e dell’intrapresa, proprio in un momento in cui è facile, complici interpretazioni parziali e fuorvianti, aderire al mainstream del posto fisso ed assicurato.
Lo è a maggior ragione perché sottolinea, giustamente, che non sono gli errori a definire il valore delle persone, anche dovesse trattarsi di un fallimento; arrivando alla paradossale dichiarazione di chi si dispiace di non essere mai fallito. E’ difficile, tuttavia, sottrarsi ad una sensazione di disagio, nel leggere l’articolo. Perché, al fondo, resta l’impressione che il valore dominante sia il posto fisso, a tutti i costi: e che la flessibilità e la mobilità siano, più che altro, un valore che vale per gli altri. Difficile sottrarsi al disagio nel leggere, accanto al bel servizio di Sideri, quelli di tanti altri suoi colleghi -sul Corriere anziché su Repubblica- che ammiccano alle difficoltà dei giovani, mostrando solo i problemi e non ponendo mai in primo piano il positivo. Il positivo di chi costruisce, di coloro che rischiano e non hanno paura, delle banche, e sono tante, soprattutto locali, che si fanno carico dello sviluppo delle imprese e della coesione del tessuto sociale ed economico. Quando sarà finita la crisi, da cosa ripartiremo? Dalle lamentazioni infinite di Stella e Rizzo o da questi 10 progetti?
Una risposta su “La cultura del rischio.”
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