“Con l’aria che tira chi oggi diminuisce l’esposizione creditizia e aumenta i flussi di cassa non può che essere premiato dal mercato. Cosa puntualmente avvenuta.”
Così annota, giustamente, Fabio Pavesi sul Sole 24 Ore di domenica, registrando una peraltro inconsueta convergenza fra i fondamentali di alcune aziende e la loro quotazione di Borsa. La notazione è condivisibile e fa riflettere, tanto più che, nella stessa pagina, Marco Liera si chiede:”Da dove nascono le bolle speculative e i crolli di borsa? Perché milioni di risparmiatori (e non pochi professionisti dei mercati) puntano a comprare ai minimi e a vendere ai massimi e finiscono regolarmente per fare il contrario?” Liera prosegue citando “nuovi studi che coniugano psicologia, economia e neuroscienze stanno cercando di rispondere a questi interrogativi. Uno di questi è stato presentato lo scorso fine settimana durante l’annuale convention di Efpa Italia, l’associazione che qualifica con standard internazionali i consulenti finanziari che puntano a migliorare costantemente la loro professionalità. Caterina Lucarelli dell’Università Politecnica delle Marche e Gianni Brighetti dell’Università di Bologna hanno condotto un esperimento senza precedenti su un campione di più di 400 soggetti (investitori privati e professionisti della finanza) per analizzare le varie componenti dell’avversione al rischio degli individui. Una delle scoperte più importanti della ricerca (che uscirà a breve in un libro intitolato «Risk Tolerance in Financial Decision Making») è che esiste un pericoloso “demone nascosto” (unconscious sleeping factor) dentro molti di noi che rappresenta l’attrazione emozionale e molto spesso inconsapevole verso il rischio.”
Ho avuto modo di visionare qualche mese fa una parte dei risultati della ricerca e, soprattutto, la metodologia utilizzata. La prima sensazione, osservando lo studio dei comportamenti umani alla luce di tecniche che tentano di avvicinarli a scienze esatte, è stata di disagio. Lo stesso disagio che non si può non avvertire tutte le volte che si legge di studi e ricerche che affrontano le scelte della persona tentando di ricondurle, e quindi riducendole, a qualcosa di spiegabile meccanicamente. Lo stesso disagio provato avvertendo l’ostilità preconcetta verso gli economisti, assimilati (anche dalla regina Elisabetta II) a medici incapaci di leggere le diagnosi di laboratorio, a radiologi arruffoni, a chimici impreparati. Dice bene Marco Liera, a conclusione del suo articolo, quando evidenzia l’importanza della cultura e dell’educazione finanziaria: e non si può che concordare con la sua conclusione.
Ma il disagio resta. Resta, ripensando per esempio alle molte perizie fatte nel corso di cause sul “risparmio tradito“, quando leggendo gli atti di causa si percepiva chiaramente, anche nei casi dove più manifesta era l’imperizia o la malizia di parte bancaria, una vera e propria avidità da parte del risparmiatore. Che pone sempre le stesse domande, che vuole sempre lo stesso titolo, che lo faccia arricchire in fretta, che sia molto liquido e poco rischioso. Che forse non ha bisogno di elettrostimolatori o di cavetti mentre sceglie a quale titolo impiccarsi, ma che prima ancora avrebbe bisogno di criteri e di qualcuno che lo aiuti a farsi le domande giuste. Perché se le conclusioni della ricerca sono quelle che anticipa Liera, come si fa a non domandarsi: e gli altri? Quelli che non sono maschi, fra 30 e 60 anni, mediamente colti, non vedovi, non divorziati, gli altri che fanno, perdono sempre? E se un maschio felicemente coniugato, colto e laureato, studioso di finanza fin dalla tenera età sbaglia, a chi chiediamo il risarcimento? Anziché alla banca alla A.S.L.?