La surreale vicenda di Banca Carim partorisce ogni giorno nuove iniziative, anch’esse, per la verità, surreali e, come questa, abbastanza estemporanee. Il sindacato dei bancari, la FABI, ha proposto di destinare il TFR dei dipendenti della banca all’acquisto delle azioni della banca riminese in difficoltà. Il che consentirebbe, unitamente al coagularsi dei piccoli azionisti, di mantenere una presenza locale nell’azionariato della banca.
Ora, a prescindere dal fatto che il TFR non è rappresentato, come una certa vulgata, anche confindustriale racconta, da denari accantonati (né lo si può definire autofinanziamento), in realtà esso è solo un debito, del datore di lavoro, nei confronti dei lavoratori: che viene pagato all’atto delle dimissioni o del pensionamento, ma che di liquido ha ben poco. A Banca Carim servono soldi veri, non surroghe nei debiti, dunque l’idea non sembra risolutiva.
Ma sarebbe anche il caso di ricordare che l’unica banca italiana nella quale i dipendenti contano, votano ed eleggono il consiglio di amministrazione, è Banca Popolare di Milano, che sale periodicamente alla ribalta dei giornali oltre che per la sua governance da paese socialista, anche per le alzate d’ingegno dei suoi dirigenti (i SUV al posto delle auto aziendali, le promozioni di parenti e sindacalisti). Non mi pare che come ricetta per salvaguardare il localismo possa funzionare. Tanto più che il precedente CdA, indubbiamente genuina espressione del territorio, non è stato -come dire- performante. Se anziché chiedere ai dipendenti si provasse a fare un discorso più serio con le categorie economiche? E magari a partire da un piano industriale che rimetta al centro lo sviluppo e non la rendita, magari parlandone in occasione della campagna elettorale prossima ventura?