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Poco e a caro prezzo (perché le banche dovrebbero prestare alle imprese?).

Poco e a caro prezzo (perché le banche dovrebbero prestare alle imprese?).


«Prestate poco, prestate a caro prezzo». Se non avessi sentito queste parole con le mie orecchie – pronunciate da un importante banchiere alla sua rete di funzionari – non ci avrei creduto. Noi economisti ci scanniamo per cercare di determinare con sofisticati metodi econometrici se una contrazione del volume del credito è dovuta a una riduzione della domanda (le imprese non hanno buone opportunità d’investimento) o a una contrazione dell’offerta (il sistema bancario ha difficoltà a erogare credito anche a imprese che se lo meritano). (..)

La colpa sarebbe del nuovo coefficiente di liquidità introdotto da Basilea 3. In teoria dovrebbe diventare effettivo solo dal 2015, ma il periodo di osservazione del “liquidity coverage ratio” comincia già da quest’anno e la Banca d’Italia lo ha inserito negli aggiornamenti alle disposizioni di vigilanza prudenziale introdotte a fine 2010.

Il liquidity coverage ratio (anche chiamato Bear Stearns test) è il risultato della lezione imparata durante la crisi. Nel Marzo 2008 Bear Stearns passò da 18 miliardi di dollari di liquidità all’incapacità di far fronte ai propri impegni nel giro di 7 giorni. Il motivo è che molte fonti di finanziamento erano a breve e non furono rinnovate al minimo segnale di difficoltà.

Per questo il liquidity coverage ratio richiede che la cassa e le attività facilmente liquidabili coprano i possibili deflussi in caso di situazione di stress per almeno 30 giorni. L’essenza della norma sta in cosa viene definito “facilmente liquidabile” e come vengono calcolati i deflussi attesi in caso di stress. Tra i titoli liquidi vengono conteggiati tutti i titoli di Stato dei Paesi dell’area euro.(..)

Questo pone un grosso problema per le banche italiane, che hanno una fetta notevole di finanziamenti ottenuti sul mercato. Anche senza pensare alle opzioni più rischiose, se una banca compra un titolo di Stato italiano ottiene un rendimento del 3,45% e soddisfa i requisiti di liquidità. Se invece presta a un impresa, guadagna più o meno lo stesso, ma deve accantonare della liquidità per soddisfare il liquidity coverage ratio, visto che, giustamente, i prestiti alle imprese non sono considerati liquidi. Perché le banche dovrebbero prestare alle imprese?
Luigi Zingales, sul Sole 24 Ore di oggi, così sintetizza il problema dei banchieri alle prese con gli obblighi di rispettare i nuovi e più stringenti coefficienti prudenziali imposti da Basilea 3 con la necessità di fare bilancio. Zingales giustamente suggerisce di escludere dal computo dei titoli maggiormente liquidi quelli a più protratta scadenza ed a più elevato rendimento, in quanto più rischiosi. Tuttavia, sembra non considerare l’effetto prezzo sul rendimento dei titoli oggetto di acquisto (se tutte le banche si rivolgessero massicciamente ad acquisire titoli aventi una determinata duration il prezzo si alzerebbe con una parallela riduzione dei rendimenti) e trascura, come è corretto dal punto di vista di un economista, le questioni riguardanti il rapporto banca-impresa in senso stretto. Non proprio secondarie nel caso italiano, considerando che la maggior parte delle imprese è di piccole e medie dimensioni e dipende in modo decisivo dal sistema bancario. Questioni che coinvolgono la natura del rapporto banca-impresa (relazione o transazione) e l’elemento fondamentale che lo definisce, ovvero l’uso del capitale umano o degli automatismi nella misurazione del rischio di credito. Se fare il banchiere dovesse diventare un mestiere basato su puri e semplici arbitraggi, per il credito alle imprese non c’è futuro; se invece c’è ancora posto per la gestione del rischio, allora per le nostre banche, soprattutto locali, e per le Pmi, qualche possibilità di salvezza c’è. Infine: quanto è sostenibile un modello di intermediazione basato sulla raccolta presso il pubblico e gli impieghi finanziari, privi di rischio? Il margine di interesse si fa con i tassi, e con i volumi; e, soprattutto, il margine di interesse serve a pagare i costi operativi, ovvero il costo del lavoro. Avere personale per investire in titoli di Stato, in Italia in particolare, non è conveniente.

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Borsa Capitalismo Consob

Poison pill.

Poison pill.

Le poison pill possono far bene a Piazza Affari. Non manca un piccola provocazione nel primo discorso al mercato finanziario pronunciato ieri dal neo presidente della Consob Giuseppe Vegas all’assemblea annuale della autorità di vigilanza. Se in Italia il peso degli azionisti forti nelle società quotate continua ad aumentare – le società controllate di diritto o di fatto sono sono passate da 156 a 178 dal 1998, l’anno del Testo Unico della Finanza (Tuf) – la responsabilità è anche della difesa ad oltranza del principio della contendibilità delle imprese, un valore promosso proprio dal Tuf.  «L’effetto indesiderato – ha sottolienato Vegas – è stato quello di accentuare la chiusura degli assetti proprietari delle imprese» al fine di evitare quelle scalate indesiderate che la normativa proteggeva. E allora – è la riflessione-provocazione del presidente della Consob – consentire alle società di inserire statutariamente maggiori poison pill (pillole avvelenate) o voti multipli in funzione anti takeover – strumenti cui si fa frequente ricorso in al legislazioni (Usa o Europa del Nord) – potrebbe rendere gli azionisti forti meno ossessionati dell’esigenza di puntellare gli assetti di controllo. Accettando pertanto di disboscare almeno in parte quel reticolo di patti di sindacato e piramidi societarie che caratterizzano Piazza Affari e bloccano il mercato delle quote proprietarie.

Così ieri il Sole 24 Ore sulla Relazione annuale della Consob: mostrando che sul tema del mercato del controllo delle imprese e degli assetti proprietari si può dire tutto ed il contrario tutto senza timore di apparire contraddittori. Ma, a parte i caveat che lo stesso articolo propone in finale (le poison pill finirebbero per rendere ancora meno contendibile il mercato stesso), a nessuno viene il dubbio che quando ci si quota l’ultimo dei problemi degli offerenti sia la contendibilità? O forse, poiché il sacro principio della contendibilità è scritto in ogni manuale che si rispetti, la realtà va adattata al manuale e non il manuale alla realtà?