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Banca d'Italia Banche Vigilanza bancaria

Aspiranti cioccolatai.

Aspiranti cioccolatai.

Attratto da un titolo cubitale nella locandina “Partono le grandi manovre per Carim“, compro La Voce, equivalente riminese del Sun, ma con bellezze più castigate rispetto a quelle in terza pagina del tabloid londinese (e notoriamente topless, nel senso letterale della parola). Denari spesi male, il titolo in prima pagina occupa più spazio dell’articolo in 17ma, contenente una bella petizione di principi del responsabile di un’associazione artigiana, che conta di racimolare dai 10 ai 15 milioni di euro. Per una banca che, come reso noto settimana scorsa, ha visto la modica cifra di oltre 100 impiegati indagati per riciclaggio, e che un anno fa “vantava” nella semestrale 31 milioni di perdite, 15 milioni servono, tutt’al più, a mettere qualche bandierina, a dire “ci sono anch’io”. Ma non servono a risanare una banca che, nonostante le belle parole ed i bei discorsi, difficilmente rimarrà in mani amiche. Mani amiche che non solo non si vedono, ma che, soprattutto, non hanno progetti: solo quella di sostituire i vecchi cioccolatai con i nuovi.

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Barack Obama USA

In my backyard? Oh yes.

In my backyard? Oh yes.

Brian Friel su Bloomberg evidenzia una singolare circostanza del comportamento del movimento del  Tea Party, ovvero di quel movimento che avendo eletto almeno 40 deputati al congresso nel Partito Repubblicano impedisce che lo stesso giunga ad un compromesso sul livello del deficit federale. Il Tea Party mostra decisa avversione verso l’intervento dello Stato e pone fra i suoi obiettivi quello di una decisa limitazione della sua ingerenza nella vita dei cittadini; per questo ritiene che il deficit non solo non debba essere innalzato, ma casomai ridotto, al fine, come diceva Ronald Reagan, di “affamare la bestia” per farne calare le dimensioni e farla venire a più miti consigli. Su questa parte torneremo in un altro post. Nel frattempo, grazie a Brian Friel, apprendiamo che “Sixty House members backed by the Tea Party, whose opposition to federal spending helped bring on an impasse over raising the U.S. debt ceiling, represent districts that last year received $43 billion in government contracts. In 16 of those constituencies, spending exceeded $1 billion each — more than twice the median amount for all House districts, Bloomberg Government reported today. “People don’t like federal spending in the aggregate, but when it’s back home where you’re spending the money, that’s a different story,” said Charles J. Finocchiaro, a political scientist at the University of South Carolina, in Columbia, in an interview. The state is home to two House Tea Party Caucus members and Republican Governor Nikki Haley, elected last November with the movement’s support.

Si potrebbe riassumere così: NIMBY (Not In My Backyard) se si tratta di parlare a livello astratto ed aggregato, YIMBY (Yes In My Backyard) se i denari vengono spesi nel mio bacino elettorale. Ci sarebbe da riflettere su questo aspetto anche in Italia, mentre si discute di costi della politica ignorando che i veri costi della politica sono i voti comprati con i lavori e le assunzioni insensate ed irragionevoli, dai tre maestri nella scuola elementare fino alle migliaia di forestali assunti in Calabria, e non solo. L’assunzione dei precari della scuola, annunciata dalla Gelmini, è passata in un silenzio sepolcrale, nel quale nessuno si è chiesto da dove saranno attinte le risorse necessarie. Nel frattempo, in attesa del 2 di agosto, God bless not only America, but everyone.

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Banche BCE Germania

Movements.

Movements.

(..) The latest measures still involve two massive transfers of wealth. The first is from German taxpayers to those of southern Europe. If the aim is to destroy the idea of Europe for a generation, we could do no better. The resentment of German taxpayers will weigh on the continent for decades. To get a sense of the reaction, consider that Italy was unified 150 years ago, yet even small transfers of taxpayer money from the Treasury to the south of the country prompt the Northern League political party to call for secession.

The second movement of funds in the European rescue is from taxpayers to banks. The 2008 bailouts of the financial industry generated enough populist anger. This time, we may face a revolt.

Even putting aside political considerations, the current plan has big economic drawbacks, which can be summarized in two words: moral hazard. Most policy makers, and many economists, think that when a house is on fire, you first extinguish the flames, and then you catch the arsonists. But if you put out the blaze in a way that makes it impossible to catch the arsonists, you are almost certain to have a lot more fires later.

Roberto Perotti, Luigi Zingales

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Banche BCE Borsa Rischi

Vendite irrazionali.

Vendite irrazionali.

Fabio Pavesi, sul Sole 24 Ore di ieri, si sofferma su quelle che chiama “vendite irrazionali” di titoli bancari, chiedendosi se “c’è davvero troppo rischio sulle banche italiane e quelle vendite esasperate hanno una ragion d’essere oggettiva?  Anche perché a vendere nelle giornate più nervose non è certo il signor Rossi, cassettista con i suoi mille, duemila pezzi di Intesa o UniCredit. I volumi, che toccano nelle sedute più esasperate, addirittura il 2-3% del flottante segnalano che a vendere – o meglio a giocare contro l’Italia – sono hedge fund, fondi pensione, fondi comuni, banche, insomma investitori istituzionali da cui ci si aspetterebbe maggiore freddezza. Evidentemente la scommessa è contro l’Italia. E le banche sono il viatìco di questa puntata contro, senza quasi alcun rapporto con il vero stato di salute. Basti guardare qualche numero per accorgersene. Intesa Sanpaolo vale sul mercato 24,5 miliardi; l’altro big di Piazza Affari, UniCredit capitalizza 23,7 miliardi. Insieme non fanno neanche 50 miliardi. Che è il valore di mercato della sola Bnp Paribas, che di miliardi ne capitalizza 56 e in Borsa vale il 74% del suo patrimonio. Meritati? Forse. Sta di fatto che UniCredit per la Borsa vale la metà del colosso francese: il mercato assegna alle azioni della banca di Piazza Cordusio un valore che è appena il 37% del suo capitale proprio, che vale 64,6 miliardi. E che dire dell’altra grande banca italiana? Intesa vale, sempre secondo il mercato, meno della metà del patrimonio della banca. Quei 53,5 miliardi di capitale vengono valorizzati solo 24,5 miliardi. Certo c’è in gioco la redditività. Bnp è sicuramente più redditizia, ma la banca francese ha in pancia 5,2 miliardi di bond greci che di certo hanno un valore dimezzato rispetto ai Btp italiani. Per non parlare di Crédit Agricole, valutata metà del patrimonio netto come Intesa, ma con un’esposizione sulla Grecia non paragonabile alla banca italiana avendo il possesso dell’ellenica Emporiki Bank. E che dire del Santander? Vale in Borsa più del doppio di UniCredit. Eppure gli spread sui Bonos spagnoli sono più alti di quelli italiani e la banca ha chiuso il trimestre con profitti in calo del 38%. (Sono gli spagnoli, peraltro, ad avere proposto di ottenere credito di ultima istanza presso la BCE attraverso l’offerta, come collaterali, di Kakà e Ronaldo, che evidentemente sono già nella disponibilità bancaria quali pegni “umani” dei debiti dello stellare calcio spagnolo. NdA). Il confronto poi con la Grecia proprio non regge. Il Banco Popolare e Mps valgono sul loro patrimonio – sempre per il mercato – meno della media delle banche greche. La stessa National Bank of Greece viene valorizzata il 50% del capitale della banca. Peccato che abbia in pancia 20 miliardi di bond greci che varrano il 60% del nominale. Un vero e proprio controsenso logico. Colpa dell’«overshooting» e della sua irrazionalità.”

Pavesi è come sempre lucido e le sue affermazioni si comprendono molto bene. Il suo articolo, tuttavia, non può che fare riflettere sul concetto di razionalità, ovvero del suo contrario, quella irrazionalità che il giornalista descrive come caratteristica del comportamento di chi sta scommettendo, in questo momento, contro l’Italia. La speculazione, spesso dipinta come una sorta di rovina-famiglie di genere finanziario, non è mai irrazionale, colpisce dove sa di poter trarre vantaggi, dove spera di guadagnare, anticipando comportamenti del mercato, assumendo posizioni vantaggiose, inseguendo profitti. Il rischio, in questi casi, è sempre quello del moralismo a buon mercato, quello che tenta di dividere buoni e cattivi investitori in base ai principi che li animano; principi non scandagliabili a priori, non valutabili se non a posteriori, ma quasi sempre e soltanto sparando nel mucchio. E sempre senza chiedersi perché. Pavesi invece lo ha fatto: ma la risposta, paradossalmente, sta proprio nella razionalità, e non nel suo contrario, dei mercati. Che anche quando sbagliano, hanno sempre ragione.

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Banche USA

Banking away

Banking away.

Manhattan, 21 luglio 2011

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Barack Obama USA

Gioventù bruciata.

Gioventù bruciata.

Il dibattito infinito che negli USA sta portando lentamente il Paese al limite del collasso finanziario (teoricamente ipotizzabile, nella realtà difficile da immaginare), fa venire in mente quel film con James Dean, quello nel quale ci si sfida a fermarsi per ultimi dopo aver lanciato la macchina verso il precipizio. Visto quanto sta accadendo Oltreoceano, i nostri deputati sono stati diligenti ultra virus, manifestando sentimenti di amor patrio degni degli antichi padri romani. Ciò che non sembrano avere capito è che, se persino negli USA devono stringere la cinghia, sentendosi rimproverare dai cinesi, forse i tempi sono davvero cambiati.

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Liquidità Rischi Risparmio e investimenti

Private equity denaturato.

Private equity denaturato.

Un articolo sul Sole 24 Ore Finanza e mercati, a firma S.Fi. dà conto degli interrogativi che agitano il modo degli investitori in capitale di rischio. S.Fi. scrive che “il private equity è di fronte a un dilemma sul suo futuro: se i fondi vogliono sopravvivere devono cambiare natura e fisionomia. Meno speculazione e più credito alle imprese. Ma così rischiano di non poter mantenere l’impegno preso coi loro sottoscrittori di pingui ritorni. (…)

Ora, poi, i primi timidi segnali del risveglio stanno riportando alla luce anche i nodi irrisolti del private equity. Il «peccato originale» origina dalla promessa, in sede di raccolta, di alti rendimenti fatta ai sottoscrittori. Per garantire certi ritorni ci vuole per forza la leva, ma sul mercato il debito è ormai un tabù: oggi i livelli di leverage sono in media tra 3,5 e 4 volte. Quasi la metà rispetto agli anni d’oro della bolla quando si toccarono punte di 6 volte il margine operativo lordo. Chi vuol fare acquisizioni è costretto ad aumentare la quantità di capitale proprio. Insomma, più equity e meno debito, ma così salta il meccanismo alla base dei fondi stessi: la leva stessa che permette di moltiplicare le risorse e la redditività. I rubinetti delle banche, d’altro canto, non si sono ancora riaperti: i volumi di prestiti per acquisizione a debito sono ancora sotto del 30% rispetto al record del 2007. Ma il vero nodo non è sul versante finanziario, contrariamente alle apparenze.

Chi in Italia ha comprato aziende ai massimi, strapagandole, si è visto costretto a ristrutturare i debiti. Ma si è trattato di debiti puramente finanziari, quelli legati alla scalata stessa a leva. Ora, però, quelle stesse aziende hanno bisogno di finanziare il circolante, ossia il denaro che serve per l’attività corrente, per tenere il motore a regime. Non basta ristrutturare i debiti, ci vuole la «benzina» che fa muovere le aziende. Senza quel carburante si rischia di far pericolosamente avvitare le aziende.

Come se ne esce? Nelle casse del private equity europeo ci sono circa 170 miliardi di euro da spendere, la cosiddetta polvere asciutta (dry powder). Nel caso dell’Italia, perché non utilizzare quelle risorse dirottandole dentro le aziende? Una provocazione in piena regola perché significherebbe per i fondi abdicare alla loro stessa natura. E soprattutto convincere gli azionisti a minori guadagni in futuro. La sfida è aperta.
La sfida è certamente aperta e, fortunatamente, non riguarda piccoli risparmiatori, ai quali garantire ritorni impossibili, ma grandi investitori, che sanno o che dovrebbero sapere quello che fanno. Ecco, appunto: leggendo quest’articolo, difficile non usare il condizionale.

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Crisi finanziaria Giulio Tremonti

Titanic

Titanic

L’amore sul Titanic

E va bene. Siamo sul Titanic e se non restiamo uniti rischiamo di
affondare, come ci dice Tremonti: quelli della prima classe compresi.
Chiaro. Ma non è almeno che la politica ci potrebbe garantire per decreto,
e prima che tutto ciò avvenga, una grande storia d’amore che date le
circostanze e lo scenario ci spetterebbe di diritto?

Massimo D’Oria, Udine (lettera a HPC Il Foglio del 15 luglio 2011)

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Crisi finanziaria Giulio Tremonti PIL

Non agire non è un’opzione (più le rimanderemo, più diventeranno dolorose).

Non agire non è un’opzione (più le rimanderemo, più diventeranno dolorose).

Il worst case scenario per l’Italia, per ora, consente di prevedere soltanto una cosa: “Un soccorso delle proporzioni di quello greco, nel nostro caso, è insostenibile per l’Europa. Al massimo potrebbe arrivare una mano se un’asta dei titoli del debito andasse male. Ma se il paese non riuscisse a rifinanziarsi sul mercato, sicuramente non ci saranno un anno o due per discutere su eventuali soluzioni, come sta avvenendo in Grecia, prima di dover dichiarare default”. Attenzione, però. Spiega Bisin: “Il default arriva quando, a fronte di una spesa per interessi crescente, non c’è più nulla da tagliare o da tassare. Questo punto di rottura, in un paese come l’Italia che ha una vasta spesa pubblica e un ingente risparmio privato, è soprattutto politico e sociale. Il livello di guardia, cioè, dipende da quando la gente scenderà in piazza perché non accetterà le politiche di austerity. Il paradosso è che più le rimanderemo, più queste politiche diventeranno dolorose. Più aspetteremo prima di tagliare robustamente e strutturalmente la spesa pubblica, più dovremo farlo in fretta e quindi in modo poco ponderato. Invece, se lo facciamo presto e bene, otterremo un doppio risultato: mettere in sicurezza il paese e frenare l’aumento degli interessi”. Insomma: “In astratto, se nessuno fa nulla, prima o poi il debito esplode: ma uno scenario in cui nessuno fa nulla è improbabile, perché ci sono enormi pressioni dei mercati e delle istituzioni internazionali. Se non sarà questo governo – conclude – sarà il prossimo. Non agire non è un’opzione”.

Il Foglio, 13 luglio 2011

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Crisi finanziaria Ripresa

Differenze.

Differenze.

Per il Wall Street Journal sono cinque le differenze tra l’Italia e gli altri paesi europei che necessitano di un salvataggio. Primo: un aumento contenuto degli interessi sui bond italiani non inciderà in modo eccessivo sulle casse dello stato. Secondo: le tasse percepite dal governo italiano sono ancora superiori alla spesa pubblica (esclusi gli interessi sul debito). Terzo: le famiglie italiane sono meno indebitate di quelle europee. Quarto: solamente il 45 per cento dei bond italiani è nelle mani di investitori esteri. Quinto: le banche italiane sono rimaste perlopiù estranee alla crisi degli asset tossici che ha coinvolto molte altre banche europee.

Il Foglio, 13 luglio 2011