Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).

Il principio di precauzione è una bestia strana, che risale almeno al “Vorsorgeprinzip”, il cardine della politica ambientale tedesca degli anni Settanta il quale imponeva di “provvedere prima” ai disastri (nel senso: meglio prevenire che curare). In realtà alcuni scavano ancora più indietro, risalendo ora agli anni Cinquanta, ora alla fine dell’Ottocento, ma tutti riconoscono l’importanza della figura di Hans Jonas e del suo “Principio di responsabilità”. Il principio di precauzione piace al movimento verde, piace agli interventisti economici, piace ai governi e piace alle organizzazioni internazionali, perchè fornisce a ciascuno di questi attori una fortissima giustificazione morale per “fare” sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno), ossia, per dirla in modo un poco datato, per pianificare. Proprio in un documento dell’Onu, la Dichiarazione di Rio del 1992, sta la formulazione canonica del principio: “Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l’adozione di misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale”. Il richiamo alla “cost effectiveness” è la parte più trascurata del principio. Infatti esso rappresenta un salto quantico rispetto alla tradizionale analisi costi-benefici, perchè l’accento si sposta interamente dal lato dei costi, l’onere della prova ne viene conseguentemente ribaltato (per poter fare, devo provare che non danneggerò nessuno), e l’enfasi è tutta sull’abolizione del rischio, mentre nessuna attenzione rimane per le possibilità colte oppure perse. Nelle parole di Aaron Wildavsky, lo scienziato sociale autore di “Searching for Safety”, esistono due tipi di approccio: per “tentativi ed errori” oppure per “tentativi senza errore”. Scrive: “Secondo la dottrina del ‘tentativo senza errore’ nessun cambiamento verrà consentito se non c’è una solida prova che la sostanza o l’azione proposta non farà alcun male… E’ vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti”. Per Wildavsky, chi non risica non rosica, e soprattutto non impara. Poichè la dimensione dell’apprendimento è fatalmente collettiva, l’avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza (in senso ampio, il mercato) e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente. Gli esempi sono numerosi.
Carlo Stagnaro, Il Foglio, 30 agosto 2011