Le imprese subprime e le conseguenze economiche dello spread.

Mentre la stupefacente Angela Merkel loda le riforme italiane, non rendendosi conto che Monti non ha ancora fatto nulla, così come il suo predecessore Silvio Berlusconi, stupisce l’assenza dal dibattito della vera questione che turba (o dovrebbe turbare) i sonni dei banchieri: quella che riguarda la qualità del credito verso le imprese, ovvero i cosiddetti impieghi economici (mentre i titoli di Stato sono impieghi finanziari). Oggi, durante un seminario, mi è stato chiesto da un funzionario addetto ai fidi di una “banca del territorio” quali parole dovesse usare per spiegare ad un imprenditore che deve chiudere, quali fossero gli argomenti da usare, quali i termini per convincerlo ad abbandonare la partita. Non era un discorso fatto tanto per passare il tempo, era serio; ed io altrettanto seriamente ho cercato di rispondere, spiegando ciò che ultimamente mi pare essere sempre di più l’acqua calda, ovvero i fondamentali che dicono se un’impresa sta in piedi e perché. La riflessione, amara, che rimane dalla giornata di oggi riguarda l’incapacità, persino per la banca di relazione, di rapportarsi seriamente fino in fondo con i propri clienti: non per incapacità, non per difetto di competenza. Letteralmente, per inesperienza. Non riescono a pensare se non ad una relazione che va sempre bene, che non ha problemi e che, se li ha, li ignora (come con le operazioni di consolidamento e con la moratoria). Quanto alle imprese, il panorama è ancora più desolante, tanto più riflettendo a quello che accadrà a breve quanto gli effetti dello spread si ripercuoteranno sui tassi attivi praticati alle Pmi. Non è difficile immaginare che si leverà alto il lamento delle Pmi, vessate dal sistema bancario: quello stesso sistema, incapace di aiutare le imprese a comprendere l’importanza del capitale di rischio quando ancora si poteva fare qualcosa. Adesso, forse, non resta davvero che usare la scure.