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Morire d’impresa.

Morire d’impresa.

L’imprenditore che si è dato la morte qualche giorno fa in Veneto non è morto perché gli strozzini lo avevano messo alle corde o perché le banche gli avevano revocato gli affidamenti, non è morto perché lavorava nel settore delle costruzioni, drammaticamente e strutturalmente in crisi. E’ morto perché non lo pagavano: non lo pagava, probabilmente, lo Stato ma anche (e questo si dice molto poco o molto meno) non lo pagavano i suoi clienti, non lo pagavano i committenti. Altre piccole e medie imprese, probabilmente anche grandi imprese, ma non lo pagavano: ed ha scelto, come gli altri di cui anche su JM si è parlato, di farla finita, incapace di sopportare il peso di dover licenziare. Si dovrebbe tacere in questi casi di fronte a chi compie una scelta estrema, e pregare per lui. E si dovrebbe provare a capire cosa si possa fare perché la crisi d’impresa non diventi qualcosa di talmente traumatico da diventare inaccettabile.

Hanno ragione coloro che hanno parlato di “fatto culturale”: fa parte della cultura della gente veneta l’operosità, la laboriosità, il tenerci a quello che si fa, il farsi carico fino all’ultimo delle proprie scelte. Ma quando questa cultura non riesce ad accettare il fallimento, quando una persona, ognuno di noi, accetta di essere misurato solo sul successo, di essere definito solo dalla riuscita, si diventa protestanti, nel senso religioso e culturale del termine: ed il successo o l’insuccesso sono un’attribuzione divina, contro la quale non serve opporsi.

Si può provare ad uscire dalle angustie terribili di questo schema, anzitutto umanamente? Perché se anzitutto la questione è culturale, significa che riguarda il cuore dell’uomo, la sua concezione della vita, il suo essere definito da qualcosa che sia oltre sé, più grande delle proprie misure. E allora si dovrebbe cominciare a dire anzitutto che l’impresa non ci appartiene, che essa non è nostra, anche se noi ne portiamo la responsabilità, come ci insegna la Scuola d’Impresa (se ne fa sempre troppo poca): che gestirne le sorti è un mestiere impegnativo e bellissimo, ma che nessuno ci toglierà la fatica, mai, neppure quando tutto stia andando bene. E che, dunque, anzitutto, gestire l’impresa significa avere a cuore che prosegua, che continui, che dia benessere a chi ci lavora, che faccia “cose belle”: ma non a tutti i costi, perché gli esiti non ci appartengono. E perché il realismo è una virtù, non solo cristiana.

Last but not least, le nostre associazioni di categoria (tutte, compresa quella di Emma, compresi i piccoli, compresa l’ABI) forse hanno dimenticato che se solo alla fine del 2011 entrerà a pieno regime l’applicazione di quella direttiva che prevede che chiunque non paghi quanto dovuto dopo 180 giorni sia segnalato come inadempiente in Centrale Rischi ed il relativo credito messo ad incaglio o sofferenza, con un ritardo stratosferico rispetto al resto d’Europa, forse la colpa non è del Governo o di qualche altro “cattivo” d’Oltreoceano. Non sarebbe difficile adottare in Italia la normativa francese, per esempio, che prevede che la sola firma sulla bolla d’accompagnamento da parte del cliente che accetta la merce rappresenta titolo esecutivo per riscuotere il dovuto. Non sarebbe difficile, ma se non lo si è fatto, non è difficile immaginare come ed in che modo abbiano lavorato le lobbies: a cui, in finale, un sistema simile fa molto comodo. Alle associazioni di categoria, perché evita l’espulsione dal mercato delle imprese subprime, che pagano i contributi associativi; alle banche, perché evita di dover accrescere il monte delle sofferenze; alle grandi imprese, perché continuano a fare quello che vogliono sul mercato del credito commerciale. Su Twitter c’è un utente, si chiama “limprenditore”, che non lavora più con lo Stato, e secondo me fa bene: e sarebbe anche ora di cominciare a scegliere le imprese per le quali lavorare.

Di johnmaynard

Associate professor of economics of financial intermediaries and stock exchange markets in Urbino University, Faculty of Economics
twitter@profBerti

Una risposta su “Morire d’impresa.”

voglio segnalare questo articolo. Segnala il problema che tante volte è sottaciuto nel declino del nostro paese.

LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE
Costa tanto produce poco

Nel momento in cui si chiede che i conti bancari dei cittadini, e quindi le loro vite, risultino totalmente trasparenti agli occhi dello Stato, diventa lecito chiedersi se lo Stato sia poi altrettanto trasparente, nel suo operare, agli occhi dei cittadini. Basta chiederselo per capire subito che non è così: l’opacità, non la trasparenza, caratterizza la macchina amministrativa nelle sue operazioni quotidiane.

L’opacità è tale che persino i ministri ignorano tanto di quella macchina. Si vogliono fare le privatizzazioni? Si vuole tagliare in modo intelligente (ossia, selettivo) la spesa pubblica? Si vogliono eliminare i sussidi alle imprese? Per fare queste cose occorrono vitali informazioni, bisogna conoscere la «macchina» dall’interno. Ma nemmeno il governo possiede quelle informazioni. Deve, prima di tutto, procurarsele. Ed è una operazione lunga, costosa, difficile, e probabilmente destinata all’insuccesso. Come mai? Da cosa dipende quella opacità? Perché lo Stato è una giungla impenetrabile? Perché è costituito da regolamenti e pratiche così complesse e barocche che solo i vecchi squali della burocrazia, gli amministratori di lungo corso, possiedono le capacità per muoversi in un simile ambiente, così oscuro e ostile per chiunque altro?

I cittadini attribuiscono di solito ogni colpa di ciò che non va, delle disfunzioni quotidiane di cui hanno personale esperienza, alla classe politica. Non sanno che la classe politica è per lo più priva di cruciali risorse (dalle informazioni alla expertise amministrativa) e che altre istituzioni sono di fatto, quando si tratta dei meccanismi quotidiani di funzionamento dello Stato, molto più potenti. Si dice: «Il Parlamento è sovrano». Ma queste sono solo parole. L’alta burocrazia, i vertici delle strutture regionali, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, contano assai più del Parlamento, e di qualunque governo, nella gestione della macchina amministrativa. Basta che scelgano di non cooperare, di fare resistenza passiva, e la classe politica viene ridotta alla impotenza.

Il politico eletto, diceva il sociologo Max Weber, è di fronte all’amministratore di professione nella condizione del dilettante. Ma qui siamo andati molto più in là. Non è più solo una questione di dilettantismo contro professionismo. È questione di una macchina statale autoreferenziale, che dispone degli strumenti (a cominciare dal monopolio sulla interpretazione delle regole amministrative) necessari ai fini della propria difesa e riproduzione.

Si badi che non sono solo in gioco interessi (l’interesse degli amministratori o delle magistrature amministrative a garantire l’incontrollabilità del proprio operare da parte di chiunque: governo, Parlamento, pubblica opinione). Pesano anche le tradizioni culturali. C’è un’intera cultura giuridico-amministrativa, cui danno un contributo essenziale tanti giuristi amministrativisti, che è quotidianamente mobilitata a difesa del mantenimento della complessità del sistema e, quindi, della sua opacità.

Se vogliamo chiederci quale sia l’ostacolo principale al rilancio della crescita dobbiamo indirizzare la nostra attenzione sul peso morto rappresentato da una macchina amministrativa incompatibile con le esigenze di un Paese moderno. Nessuno sa, ad esempio, di quanto potrebbe scendere la pressione fiscale complessiva se quella macchina diventasse meno inefficiente e dispendiosa.

La complessità e il barocchismo delle regole e delle procedure amministrative hanno potentissimi effetti negativi sulla società circostante: generano inefficienza, garantiscono tempi lunghi e anche lunghissimi agli interventi dello Stato (si pensi al settore delle infrastrutture), innalzano spaventosamente i costi economici, alimentano una condizione di incertezza giuridica che rende imprevedibili i comportamenti, impedisce la diffusione di rapporti reciproci di fiducia fra cittadini e amministrazioni, e funziona da moltiplicatore delle dispute. Gli amministratori si difendono dicendo che è comunque la politica a dettare le linee guida dei provvedimenti. Il che è vero. Ma sono loro a confezionare, e poi a interpretare, con il loro esasperato formalismo, quei provvedimenti.

Per fare un esempio, apparentemente marginale, consiglierei al neo-ministro dell’Università, Francesco Profumo, che è anche un mio collega, di leggere con attenzione le norme da poco varate che regolano certi concorsi (per esempio, i concorsi da ricercatore). Scoprirà che il loro effetto principale è di fare prosperare l’industria dei ricorsi, di dare tanto lavoro agli avvocati e ai Tar. Sono certo che se, dopo avere letto quei regolamenti iper-barocchi, il ministro ne chiedesse conto a chi li ha messi a punto nei dettagli, si sentirebbe dire che quei regolamenti rispondono alla esigenza di garantire la «legalità» e la correttezza dei concorsi. Niente di più falso. Quelle norme nulla possono pro o contro la correttezza. La loro assurda complessità garantisce solo l’incertezza del diritto, l’opacità dei procedimenti, la moltiplicazione delle dispute. Non c’è quasi nessun ambito in cui operi l’Amministrazione che non abbia queste caratteristiche.

Se la certezza del diritto è un fondamentale bene pubblico, allora è sicuro che il nostro sistema giuridico-amministrativo è congegnato in modo da garantire la perpetua indisponibilità di quel bene. Con costi altissimi per la società e benefici (in termini di opacità del loro operato) per gli addetti alla gestione quotidiana della macchina statale. Magari, quei giuristi amministrativisti che lavorano come consulenti dell’Amministrazione centrale e periferica qualche franca spiegazione sul perché ciò accade potrebbero forse darcela.
Viviamo in tempi di antiparlamentarismo trionfante e il mio potrà sembrare un auspicio controcorrente. Ma trovo che i partiti, alla disperata ricerca di un ruolo nell’epoca del governo Monti, potrebbero rendere una grande servizio al Paese. Potrebbero, e dovrebbero, promuovere una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare sull’operato dell’Amministrazione (organi della giustizia amministrativa inclusi) e di segnalarne tutte le disfunzioni. Se non altro, per consentire una discussione pubblica sulle vere cause del nostro declino.

Angelo Panebianco18 dicembre 2011 | 9:31

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