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Alessandro Berti Università

Con la barca! (trade-off).

Con la barca! (trade-off).

Esami di intermediari finanziari, ore 16 e 45. Studente fuori sede, la domanda è: “Mi parli del trade-off fra efficienza e stabilità”. Vari tentativi di provare a rispondere, nessuno che vada a buon fine; allora tento di instradarlo. Dico: “Se lei si trova sulla riva di un fiume, e deve portare di là una capra e dei cavoli, come fa?”.

Risposta, sorridente, disarmante: “Con la barca!”

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Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria

E di San Marino (nelle cause) non c’è traccia.

E di San Marino (nelle cause) non c’è traccia.

Immediatamente dopo il loro insediamento i Commissari hanno avviato una ricognizione delle problematiche esistenti rilevate dall’Organo di Vigilanza nel corso degli accertamenti ispettivi svolti, in uno con l’impegno per assicurare piena continuità all’attività della Banca, che è proseguita regolarmente.
L’esame della situazione aziendale ha evidenziato che la Banca sta attraversando un momento critico per:

Fattori endogeni
forte crescita dimensionale (è passata, in meno di un decennio, da una dimensione provinciale con poco più di 50 sportelli ad una interregionale con 120 sportelli e una banca controllata a San Marino) non accompagnata da un adeguamento organizzativo e dei controlli; cambio del sistema informativo, che, oltre a modificare in modo rilevante tutti i processi, senza che si prestasse la necessaria attenzione alle caratteristiche del nuovo sistema, richiede una gestione molto più attiva rispetto al precedente; importante gap generazionale (il 25% del personale ha meno di 5 anni di anzianità)
Fattori esogeni
perdurante crisi economica finanziaria, con forti impatti sulla redditività, sul rischio di credito e sulla liquidità del mercato; rilevante evoluzione normativa alla quale non hanno fatto fronte i necessari interventi su procedure e risorse umane e tecniche.
Banca Carim si è quindi trovata ad affrontare un contesto esterno molto difficile in una condizione interna di impegnativa trasformazione, con conseguenze visibili anche sul piano reddituale nonché sul rischio di credito, con un progressivo deterioramento della qualità degli impieghi, per i quali, a partire dal 2008, si è registrata una consistente crescita delle sofferenze nette e degli incagli, oltre che una notevole concentrazione quantitativa e qualitativa.

Dalla dei relazione commissari, assemblea straordinaria del 29 gennaio 2012.

Tutta colpa di San Marino, in effetti.

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Banche BCE Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Giulio Tremonti Imprese Indebitamento delle imprese Liquidità Mario Draghi PMI

Illuminare il dibattito o le menti?

Illuminare il dibattito o le menti?

Dario Di Vico, in un editoriale sul Corriere di oggi, lamenta l’atteggiamento delle banche italiane, che hanno ricevuto denaro dalla BCE all’1% e non lo reimpiegano affidandolo alle Pmi, che ne avrebbero bisogno; al contrario, e nonostante gli inviti di Francoforte, le banche italiane mettono i denari in impieghi finanziari, per lucrare margini ridotti ma sicuri, evitando come la peste il rischio di credito.

Ho già provato a spiegare perché è un’illusione pensare che i 115 miliardi della BCE finiscano dritti sparati nelle tasche delle imprese che ne fanno richiesta: il problema, molto banalmente, riguarda la mancanza di liquidità, quella che serve non a fare nuove operazioni, ma ad impedire di troncare le vecchie con rientri e richieste di rimborso che i prenditori non potrebbero sopportare. E non più tardi di qualche giorno fa, partecipando in qualità di consulente al consiglio di amministrazione di un istituto di credito locale, ho potuto notare, letteralmente, la paura di sbagliare negli occhi dei consiglieri, della direzione, di tutti coloro che dovevano decidere. Di Vico non ne parla, non forma l’oggetto del suo articolo: ma la vera questione che le banche locali, cioè quelle che lavorano per i piccoli e con i piccoli, si trovano ad affrontare, riguarda la liquidità, ovvero il requisito che consente loro di continuare a stare sui territori mantenendo stabilità e continuità di relazioni con i risparmiatori. E se solo recentemente, grazie a Draghi, la BCE ha dato la sensazione di poter intervenire laddove ce ne fosse bisogno, come prestatore di ultima istanza, non è difficile immaginare quanto le incertezze legate all’atteggiamento della sig.ra Merkel abbiano pesato, vista anche la massiccia presenza di titoli di Stato nei portafogli bancari.

Che fare, dunque? Come rimettere in collegamento datori di fondi e prenditori di fondi, risparmio e investimenti? Di Vico rifugge da tentazioni dirigistiche, rammentando il fallimento delle commissioni prefettizie di tremontiana memoria e parla di “illuminare a giorno il dibattito tra banche e imprese“, auspicando un forum nel quale si possano confrontare le diverse opinioni e “monitorare l’utilizzo della liquidità BCE“. Più che di un forum, tuttavia, si ha la sensazione che serva un salto culturale, una concezione diversa del fare impresa e del fare banca, che sia fatta propria dal capitale umano, a tutti i livelli. E, sinceramente, non saprei a quale delle due questioni dedicarmi per primo, facendo formazione in entrambi gli ambiti. Servono imprenditori che abbiano voglia di rischiare e non solo i denari altrui, magari nell’immobiliare, che siano coscienti delle coordinate dentro alle quali si muovono, che sappiano gestire e misurare il loro fabbisogno finanziario (il grande assente delle relazioni di clientela in Italia), che siano trasparenti delle loro esigenze. Ma servono anche banche, banchieri e bancari che abbiano voglia di fare il mestiere: ovvero di fare la fatica di studiarle, le Pmi, di stare loro accanto, di capirne le esigenze, di misurare il rischio e, appunto, il fabbisogno. Dicendo anche dei no, e magari spiegandoli, ma sapendo dire dei sì che non siano semplici giri di valzer. La banca di transazione non ci serve, l’abbiamo già ed è il modello dei grandi: abbiamo bisogno di più banca di relazione. Senza dimenticarsi che per ballare bisogna essere in due.

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Crisi finanziaria Disoccupazione Economisti Keynes

Perché Keynes avrebbe torto?

Perché Keynes avrebbe torto?

Il prof.Francesco Forte ne sa sicuramente più di me su Keynes, e non solo. Ma mi sfugge la chiusa del suo articolo, che qui riporto, appunto, nella parte finale. Perché Keynes avrebbe torto? Perché non si può dargli ragione? Le politiche di investimento azionate dalla mano pubblica di chi sono figlie, di Friedman?

Le “politiche non convenzionali” adottate da Draghi a dicembre non costituiscono un marchingegno ipocrita per far fare alle banche gli interventi sul debito statale con i soldi della Bce, come qualcuno scrive. Infatti siamo in regime di razionalità limitata e il mercato ha più informazioni delle autorità centrali. Le banche comperano i titoli che scelgono con le loro informazioni e deformazioni, e i governi le devono persuadere a farlo con le loro offerte differenziate. Il debito che il Tesoro deve emettere nel 2012 è di circa 450 miliardi, ma quello cui si riferisce lo spread decennale non supera i 240. Come spiega Maria Cannata, che al Tesoro gestisce il nostro debito, i titoli a breve che le banche comprano fruendo dei riporti sui prestiti Bce hanno tassi del 2,7-3 per cento. I tassi del 6,5 sui Btp decennali (e settennali) che, al netto dell’inflazione attesa del 2 danno il 4,5, riguardano metà delle emissioni, l’altra metà viaggia sul 2,5-3 per cento. E i titoli triennali e quadriennali possono beneficiare di bassi tassi perché fruiscono dei prestiti triennali della Bce. Ciò abbassa il costo del finanziamento del debito e lo facilita anche per i titoli a lungo, il cui rischio si diluisce. Ma tale politica hayekiana non assicura la crescita. Per la crescita non bastano le liberalizzazioni né la pioggia di denaro, serve una politica di investimento azionata dalla mano pubblica. Qui hanno torto sia Keynes che gli austriaci.

Francesco Forte

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Agnelli Disoccupazione Energia, trasporti e infrastrutture Fiat Imprese Indebitamento delle imprese Lavoro PMI Ripresa Sud Sviluppo

Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Curiosando sulla rete alla ricerca di cifre e di informazioni circa la suddivisione del trasporto merci fra gomma, rotaia etc..mi sono imbattuto solo in articoli datati, come questo, peraltro interessante e ben argomentato. E ho ricordato gli anni ’60 ed il nuovo modello di sviluppo di Ruffolo, quello che voleva togliere l’auto dal centro del mondo per favoleggiare di altro, in anni in cui a Torino si diceva che ciò che era bene per la Fiat era bene anche per l’Italia. Giorgio Ruffolo e gran parte della sinistra sindacale di quei tempi erano se non massimalisti, spesso solo velleitari, scollegati dalla realtà come solo il PdL di adesso sa fare, ma forse qualcosa di quello che dicevano si potrebbe recuperare. Provo a capirci qualcosa guardando i numeri e scopro che:

  1. i trasporti su rotaia non sono convenienti per le distanze entro 1000 km (ovvero mai in Italia);
  2. per rendere convenienti i trasporti su rotaia bisogna investire sulla medesima, come hanno fatto i francesi ed i tedeschi (hai visto mai?);
  3. l’Italia NON ha investito sulla rotaia, come prova lo schifoso viaggio che ho fatto ieri mattina, dismettendo stazioni e tratte che non erano convenienti, in una logica molto privatistica, tranne che per le relazioni sindacali (consiglio a Stella e Rizzo di andare a curiosare nei dopolavoro ferroviari, per esempio);
  4. dunque i camionisti, o camionari, come dicono in Veneto, godono di una rendita di posizione, mi spiace dirlo, ma è così, insidiata solo dalla concorrenza dell’Est (benedetta UE, almeno a qualcosa serve); un camionista bulgaro costa un terzo di uno italiano, 15mila euro del primo contro 45mila del secondo;
  5. nonostante la rendita, gli sgravi fiscali e le molte altre agevolazioni, i camionisti non ce la fanno, o perlomeno, molti di loro; d’altra parte se basta un aumento del prezzo delle materie prime ad azzerare i margini, significa che già erano bassi.

Fin qui le “scoperte” dell’acqua calda. Dalle scoperte alle conclusioni.

La prima: forse non è un business conveniente? Forse a certe dimensioni non lo è mai stato, se è vero che tanti bilanci visti personalmente di aziende di autotrasporto, in molti e molti anni, recavano l’utile solo grazie alle plusvalenze per la cessione degli autocarri riscattati in leasing, inquinando la redditività operativa con ricavi extracaratteristici. Il buon senso, prima ancora della logica economica, imporrebbero di essere coscienti che chi ha margini modesti non può giocare con la finanza (inevitabile pensare a quante aziende di autotrasporto hanno debiti che non pagheranno mai perché non dovevano farli, non potevano permetterseli), ovvero che queste aziende se faticano a pagare i dipendenti, tanto più non possono farlo a debito.

La seconda: gli investimenti in infrastrutture, compreso il Ponte sullo Stretto, potevano prefigurare, se fatti per tempo, un nuovo vero modello di sviluppo. Ma non si riesce a fare partire la TAV (a proposito, perché nessun blocco in Val di Susa?), figuriamoci qualsiasi altra iniziativa: in ogni caso, ne godranno i nostri nipoti. Ma sono necessari, meglio farli tardi che non farli mai.

Infine: tagliare le rendite, liberalizzare, privatizzare può servire, può dare risorse, può aiutare questo gigantesco processo di riconversione delle infrastrutture, senza farci precipitare nella sindrome cilena (ma Mario Monti in elmetto e mitra a Palazzo Chigi non ce lo vedo). Ma deve essere guidato, sorretto da idee e da un progetto. Si cercano idee forti per la politica, mentre questa ha abdicato a se stessa. Buon lavoro a tutti.

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Borsa Capitalismo Keynes

Siamo stati ricostruiti dal capitalismo, siamo la sua sostanza peccatrice.

Siamo stati ricostruiti dal capitalismo, siamo la sua sostanza peccatrice.

L’avidità quando si diffonde capillarmente non torna più indietro. Si può stemperare ma non scompare. Restiamo freddi di fronte al film maledetto che il “tedesco” Erich von Stroheim girò a Hollywood per denunciare la rapacità umana, la partita infernale che inizia con cinquemila dollari vinti alla lotteria e si conclude con due cadaveri nel deserto in mezzo al nulla, fra i riflessi abbaglianti di monete d’oro che nessuno userà più. Non ci stiamo più a credere che l’avidità sia il buio dell’anima, disgreghi l’uomo e lo porti alla rovina, alla morte. Tra il professore di liceo di mezzo secolo fa e il compendio dell’utilitarismo inversione hollywoodiana non c’è scelta possibile. Veniamo dalla cultura greca ma siamo stati ricostruiti dal capitalismo, siamo la sua sostanza peccatrice. Alle generazioni a venire, Keynes raccomandava di distinguere tra l’amore per il denaro come possesso, morboso e leggermente ripugnante, e l’amore per il denaro come mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita. Se improvvisamente proviamo vergogna, ricordiamoci almeno della lezione del genio scapestrato che giocava in Borsa e non disdegnava il piacere.

Lanfranco Pace, Il Foglio, 21 gennaio 2012

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Imprese Mercato PIL Ripresa

Pharmonomics.

Pharmonomics.

Non avevo pensieri particolari sulle farmacie, fino all’arrivo di un sms ieri sera, che mi chiede una riflessione per alcune future farmaciste. Ci provo, anche se confesso di sentirmi più coinvolto dalle liberalizzazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari, perché fa più Strapaese e profonda provincia italiana. Quanto alle liberalizzazioni, Monti ha avuto gioco facile sulle sparate del Presidente del Milan, chiedendosi, ancora una volta, perché, se fosse stato così semplice realizzarle, non ci abbia pensato il governo precedente. Anyway, poiché da qualche parte si doveva cominciare, Mario Monti lo ha fatto, fra l’altro, dalle farmacie ed anche JM comincia di qua.

Pensiero immediato riflettendo sui farmacisti: sono ricchi, stanno bene. Generalmente è vero, è abbastanza evidente. I genitori di un mio collega di università erano farmacisti, ed erano ricchi, la farmacia rendeva, gli hanno lasciato un patrimonio. Non sarà un’evidenza empirica, di quelle che generano una “robusta correlazione statistica” e che fanno lampeggiare SPSS ma è così. E’ vero anche a Rimini, dove vivo. Secondo pensiero immediato: quanto costa una farmacia? Risposta popolare immediata: tanto! Una farmacia vale tanto ed anche questa è un dato di realtà, verificato con alcune concordi interviste presso qualificati commercialisti. Come in tutti i mercati opachi e poco trasparenti, il prezzo di mercato non è fissato da un meccanismo efficiente, ma spinto da altri fattori. Uno di questi, certamente è l’oligopolio tipico di questo mercato: poiché 1)- non posso svegliarmi domattina e decidere di aprire una farmacia, ma le licenze sono contingentate e l’attività non è libera, 2)-i farmaci sono beni a domanda anelastica (sulla salute, di norma, non si risparmia), possedere una farmacia non è come aprire un negozio di maglioni. Le maglie possono essere belle o brutte, di buona o cattiva qualità, il negozio può essere in periferia, i commessi incapaci: e potrebbe fare troppo caldo. Insomma, vendere maglie non offre garanzie di reddito, vendere farmaci sì. Il farmacista può essere sgarbato, antipatico, la farmacia periferica (quasi meglio, si parcheggia bene), ma il farmaco lo trovi solo lì, soprattutto il farmaco che serve, quello che non è in vendita libera: se poi è notte, o è domenica, la farmacia deve essere quella lì, quella di turno, e se è dall’altro capo delle città, pazienza. Il raffreddore ce l’hai anche con le stagioni strane, la cardioaspirina devi prenderla tutti i giorni etc..

Aprire una farmacia costa molto, si può solo comprarla: e recuperare l’investimento è lungo e difficile. Tre anni fa feci una consulenza ad un avvocato del Nordest  che se l’era comprata per la figlia, che diversamente avrebbe continuato a fare l’erborista. La consulenza fu superflua, la farmacia -stagionale- era già stata comprata, ad un prezzo con sei zeri, in una zona di villeggiatura; la mia consulenza serviva a dare l’imprimatur all’affare. Imprimatur che non venne, perché a mio parere, e qui è il punctum dolens della questione, a quei prezzi c’è solo un modo per recuperare il capitale investito, ed è rivendere. Non dipende dalla stagionalità dell’attività, poiché la stessa farmacia, in una città costerebbe molto di più e renderebbe in proporzione. No, dipende solo dall’oligopolio, e dal fatto che tu ci sia dentro o no. Se ci sei dentro e sei uno degli oligopolisti o hai ereditato i vantaggi, oppure li hai comprati; in entrambi i casi li difendi con le unghie e con i denti. Se sei fuori, sei disposto a pagare un sovrapprezzo per acquistare una rendita che offre molte sicurezze. Ma una volta che sei dentro, giustifichi il sovrapprezzo e lo vuoi, anzi lo devi recuperare. Ci possono essere per i farmacisti mille ragioni scientifiche e di tutela della salute per opporsi alle liberalizzazioni, ma in realtà una sola è quella più potente di tutti: la svalutazione della rendita, l’azzeramento del capitale investito. Non è sicuro che la liberalizzazione delle farmacie provocherà la crescita di dieci punti di PIL, come affermato dal Presidente del Consiglio: ma certamente ridurrà significativamente l’ammontare del capitale da recuperare attraverso la rendita oligopolistica. E dunque ridurrà la rendita, con benefici per tutti. Quanto alle giovani future farmaciste, penso che la loro vocazione si realizzerà pienamente anche senza la rendita: ed auguro loro di poter trarre soddisfazione dalla loro futura professione per quello che essa è, un servizio alla salute delle persone, non per l’essere ricche commercianti laureate.

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Energia, trasporti e infrastrutture

Rendite subprime.

Rendite subprime.

Alla fine sono saltate due giornate di lavoro, due giornate in Sicilia settimana prossima. L’ultima volta che è saltato del lavoro in Sicilia abbiamo vinto la Champions, chissà che non porti bene.

Detto questo, ci sono due o tre cose da dire sul blocco che sta paralizzando l’isola e che ha portato all’esaurimento di carburante i distributori di Palermo, almeno per ora. In primo luogo chi sta protestando: autotrasportatori, pescatori, agricoltori. Chiamando le cose col loro nome, imprenditori (?) che lavorano in settori protetti, o meglio, da lungo tempo sussidiati: basti pensare al prezzo del gasolio agricolo o per la pesca, alle varie agevolazioni assegnate agli autotrasportatori. Continuando a chiamare le cose con il loro nome, settori che non reggerebbero alla concorrenza ma che portano a casa un utile risicato, quando lo portano, grazie a sussidi, erogati per ragioni elettorali (agricoltura e pesca) e/o sociali (autotrasportatori). Il problema è che i sussidi sono posti a carico, come direbbero gli economisti, della fiscalità complessiva, ovvero li paghiamo tutti noi con le imposte. E quando occorre tirare la cinghia, da qualche parte si deve tagliare così come, se la marea si abbassa -è in questo momento è bassissima- alcune navi rimangono in secco. Si incazzano, se rimangono a secco, facendo rimanere a secco tutti i cittadini, ai quali dovrebbero dire grazie perché con le loro imposte hanno consentito che fosse pagato il sussidio. Una vera e propria rendita subprime.

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Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Imprese Indebitamento delle imprese Mutui e tassi di interesse Relazioni di clientela

Deterioramenti (downgrading creditworthiness).

Deterioramenti (downgrading creditworthiness).

La segnalazione da parte di Banca d’Italia dei rischi connessi all’aumento delle sofferenze e dei crediti deteriorati viene ricondotta, nello sbrigativo riassunto del Sole 24 Ore, alla contrazione dell’attività economica ed all’aumento dei tassi (questi ultimi dovrebbero crescere in funzione dell’accresciuta rischiosità dei prenditori, non il contrario). Singolarmente, ma non troppo, il bollettino economico della Banca d’Italia viene pubblicato nello stesso giorno in cui le imprese italiane più prestigiose (Generali ed Eni) subiscono il downgrading “per il collegato disposto” dell’abbassamento del rating tricolore. Sul downgrading di Generali e di Eni ci sarebbe da discutere, perché è realmente discutibile che uno Stato Sovrano estenda la sua presunta peggiorata capacità di restituzione del debito a due imprese, due delle poche, multinazionali. Ma tant’è, come ha detto il Presidente del Consiglio dobbiamo imparare a conviverci e, in finale, ad essere consapevoli di quello che valiamo. Dimostrandolo, infine, vista la bontà d’animo della signora Merkel (sia fin d’ora maledetto chiunque, fra qualche tempo, verrà a dirci che, come la Tatcher, “però era buona”), intenzionata a tirare la corda quanto più possibile.

Quanto alle sofferenze, il discorso è ben diverso e peggiore. Mentre per il rating del Paese possiamo pensare, con qualche ragione, che i giurati del nostro beauty contest si siano sbagliati o siano al soldo di un’altra concorrente, maggiormente dotata di noi, per le imprese, soprattutto per le Pmi, la questione a mio parere è più grave. I giurati, ovvero le banche, tanto per rimanere all’esempio del concorso di bellezza, stanno facendo finta di non vedere, o non vedono. Le imprese sorridono nervosamente, facendo finta che le cose vadano bene, facendo finta di essere belle: chi ha immobili non li vende, per non rendere liquida una minusvalenza preferisce contabilizzare una plusvalenza di carta. Chi ha capitali non li mette, chi ha bisogno di liquidità presenta piani di rientro che spostano tutto in avanti, senza mettere in discussione l’unica cosa che dovrebbe essere rivista, la formula competitiva. Non sai cantare, non sai ballare, non sai neppure l’italiano e sei pure bruttina: ma non vuoi uscire dalle selezioni e, per giunta, non vuoi neppure studiare. Chi ha margini ridicoli, come i benzinai, protesta perché la concorrenza favorita dalle liberalizzazioni li metterà sul lastrico; bene, ma è difficile non chiedersi chi glielo faccia fare. Perché fare tanta fatica per due soldi? A tacere di quei benzinai, veri e propri “criminali economici”, che accettano dai camionisti -altra categoria a rischio- pagamenti con postdatati ed altre amenità. Bene, abbiamo appreso che il profitto da fame di 2 centesimi a litro sarà difeso con soli 7 giorni di chiusura. Magari chiudessero, ne chiudessero di più. Ma non lo faranno, perché neppure sanno quello che fanno. Stanno difendendo il nulla. Come si dice su twitter #sapevatelo.

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Alessandro Berti Università

Moral bazar.

Moral bazar.

Ore 15, 15, esami di economia degli intermediari finanziari. Studentessa lavoratrice e madre di famiglia, ansiosa di fare l’esame perché “ho due figli e sono con mio marito”. Malfidata, le dico, mica è Barbablu: risponde che non è molto capace e che vorrebbe fare l’esame subito. Accordato, con il consenso degli altri candidati. Una domanda per cominciare, poi la domanda sulle conseguenze delle asimmetrie ex-ante ed ex-post. Risposta: adverse selection e moral bazard. Preciso che si dice “moral hazard” e la invito a proseguire. Replica prontissima e sorridente (e disarmante: ridevamo tutti, spettacolo a Urbino): ah sì, “moral bazar”!

Da oggi Moral bazar è la nuova rubrica del blog dedicata al cazzeggio finanziario.