I cattolici si muovono (?) per le banche popolari. Ne vale la pena?
Secondo l’Huffington Post la riforma delle popolari realizzata per decreto legge (siamo ansiosi di conoscere i requisiti di necessità ed urgenza del medesimo) ha smosso l’associazionismo cattolico, pronto a “smontare” la riforma in parlamento. Dai vecchi democristiani fino al Ministro Lupi sarebbe tutto un tramare dietro le quinte per evitare la riforma. Ne vale la pena?
Ieri mattina, sul Sole 24 Ore, Marco Onado evidenziava l’ambiguità dell’intervento di Renzi, il quale nel sottolineare “l’eccesso di banchieri” sembrava parlare a nuora, le popolari, perché intendesse suocera, le bcc. Ad essere realisti, infatti, non sembrano le popolari essere troppe quanto piuttosto, se questo fosse il criterio, le banche di credito cooperativo, quelle che “nessuno (sic) le tocca”. Poiché grande è la confusione sotto il cielo, oltre a rimandare all’ottimo intervento del professor Onado, forse vale la pena fare qualche riflessione sull’opportunità di una battaglia pro o contro il modello cooperativistico che, almeno sulla carta, è messo sotto scacco con l’intervento legislativo sulle popolari.
A dispetto di tante affermazioni di facciata succedutesi nel corso degli anni, in effetti tale modello non ha mai goduto di grande favore presso le lobbies europee, che lo hanno sempre ritenuto contrario ad un’idea di mercato basato sulla contendibilità (che il principo del voto capitario, ovvero una testa un voto a prescindere dalle quote possedute impedirebbe di realizzare) e sull’efficienza. La proposizione è non solo non dimostrata nella teoria finanziaria, ma palesemente disattesa nella pratica: ovvero, maggiori dimensioni ed un modello capitalistico non comportano, automatically, maggiore efficienza ed una migliore managerialità. Basti pensare, per citare un caso macroscopicamente noto, al Monte dei Paschi di Siena, spa.
Il principio del voto capitario, come tutti gli strumenti, può essere male utilizzato o può esaltare la democrazia economica: i padri-padroni (Fiorani in Popolare Lodi, per esempio) così come il sindacato dei bancari in Popolare Milano sono pessimi esempi non già di un principio errato quanto piuttosto di una sua distorsione. Altrimenti non si spiegherebbero altri eccellenti esempi di cooperazione di credito, anche su grandi dimensioni territoriali: tra gli altri il Credito Cooperativo Ravennate e Imolese o la Cassa Rurale di Treviglio.
Il principio del voto capitario è dunque un falso colpevole e l’intervento del Primo Ministro Renzi sembra solo rappresentare una ripresa di iniziativa della politica rispetto ad un settore dove domina incontrastata, e senza alcuna accountability, l’autorità di Vigilanza, lasciata libera di distruggere il Credito Cooperativo in nome dell’indipendenza delle autorities. Non so cosa possano concludere di buono i cosiddetti politici cattolici in materia, e forse ignoro i meccanismi della comunicazione in materia. Ma ritengo che quanto sta accadendo, prima ancora che rappresentare un campanello d’allarme per un modello di democrazia economica che affonda le sue radici nella cultura cattolica, dovrebbe richiamare un’altra, più pressante questione: la politica ha qualcosa da dire sul mondo del credito? O anche quest’ultimo, come quello delle imprese, orfano da decenni di una politica industriale degna di questo nome, può tutt’al più formare oggetto di lamentele per il credit crunch?
Aspettando la risposta, godiamoci il dibattito: magari estendendolo agli interventi al napalm della Banca d’Italia sul credito cooperativo.