300 imprese al giorno non levano il medico di torno.
Unioncamere ha comunicato che fra aprile e giugno le nuove imprese aperte da giovani di età inferiore ai 35 anni sono state ben 32.000, oltre 300 al giorno. Le note dolenti, come al solito, vengono dai settori e dalle motivazioni che hanno portato alla creazione d’impresa. Sostiene Il Sole di oggi a firma R.I.T.: “Che la risposta dell’impresa alla ricerca di un lavoro sia tra le principali motivazioni di questa crescita è confermato dalla prevalenza di micro-iniziative (nel 76% dei casi le neo-imprese giovanili nascono come impresa individuale) e dalla quota con sede al Sud: le nuove iniziative dei giovani meridionali rappresentano infatti il 40,6% del totale delle nuove imprese in quell’area del paese, con punte superiori o vicine a questa quota in Calabria, Campania e Sicilia. I settori in cui i giovani hanno scelto di puntare sono stati il commercio, i servizi di alloggio e ristorazione e le costruzioni.”
Ecco appunto, i settori: commercio, servizi (alloggio e ristorazione) e soprattutto edilizia sono inseriti dall’ISTAT tra i settori che uniscono basse performance a modestia di investimenti, innovazione e crescita. Se a questo si aggiunge che le motivazioni “deboli” alla creazione di impresa (crearsi un posto di lavoro) sono fortemente correlate alla mortalità delle imprese nei primi tre anni di vita, si comprende come i numeri di Unioncamere non siano particolarmente positivi: si tratta di micro-imprese, verosimilmente marginali e destinate a rimanere tali, a bassa intensità di capitale investito ed a bassi margini.
Proprio per questo, a queste imprese non serve credito, ovvero il peso di oneri finanziari che probabilmente assorbirà quasi del tutto i margini: servirebbe, oltre che una politica industriale che “veda” il dopo-crisi (anche se mi accontenterei di una politica industriale pur sia, una qualunque, purché ci sia) anche un grande elavoro di educazione nei confronti di persone che, criticabili quanto si vuole, si stanno muovendo, stanno provando a fare qualcosa. E con le associazioni di categoria praticamente sfasciate dalla crisi è un lavoro che tocca fare in altri ambiti, a cominciare dall’università. Altrimenti mettere su un bel negozio da sciampista continuerà ad essere chiamato start-up: con rispetto parlando per le sciampiste.