
Mancano due giorni al 30 giugno e, almeno in teoria, un secondo dopo le 23h, 59′ e 59″ di domani si entra nel mondo delle Guidelines (Orientamenti per gli italianisti) di EBA in materia di nuove concessioni e monitoraggio del rischio di credito da parte delle banche.
Con tutta l’attenzione che la questione richiede, chi scrive ha cominciato a occuparsene ormai da quasi 10 mesi, nell’ambito di progetti formativi, convegni, webinar, articoli; ma non finisce di stupirmi l’assordante silenzio nel quale una novità regolamentare e normativa di questa portata sta arrivando.
Silenzio dell’ABI, delle varie sigle dei sindacati dei bancari, delle associazioni di categoria, di tutti quelli che, a vario titolo, si occupano di lavorare in banca e/o rapporti banca-impresa: un silenzio reso ancor più stupefacente, viceversa, dalla centralità assunta dal tema “moratorie” che si è preso la scena e, a quanto pare, continua a tenerla.
Certamente, allo scoccare della mezzanotte di domani non accadrà nulla di particolare, il regolatore (e il vigilatore) da molto tempo usano l’informatica e le ispezioni sulle “nuove concessioni“, perché di questo stiamo parlando, cominceranno forse a fine anno, anche per vedere gli effetti sui bilanci delle banche del credito deteriorato sorto a seguito della pandemia.
Ciò che, tuttavia, dovremmo incominciare a vedere, almeno sulle nuove concessioni, è un atteggiamento diverso da parte di chi prepara il corredo informativo della pratica (la rete? le filiali? i gestori?) e, soprattutto, un approccio molto più “fondamentalista“, ovvero basato sui fondamentali dell’economia aziendale e della tecnica bancaria da parte di chi il fido lo analizza.
Colpisce, in tal senso, non tanto l’atteggiamento delle banche e

degli addetti al credito (questi ultimi, in quanto “decisori” con un bersaglio dipinto sulla schiena per la responsabilità nella diligenza professionale delle nuove concessioni) quanto piuttosto delle associazioni di categoria e del ceto professionale, evidentemente in altre faccende affaccendati.
Nel frattempo, continuiamo a parlarne e a spiegare, a discutere e a ragionare: perché fare cultura d’impresa non