La “simpatica” -si fa per dire- Heidi (a me mai abbastanza invisa, visto che me la dovevo sorbire facendo il baby sitter di una bambina viziata, ma ahimè, i soldi all’università sono sempre pochi) riderebbe di meno o forse si farebbe qualche domanda in più su quanto accaduto tra sabato e domenica. Crédit Suisse comprato per due miliardi da UBS, che a questo punto rimane l’unica grande banca svizzera, la banca centrale della Svizzera che “presta”, dopo averli stampati (o forse no) 100 miliardi di franchi per l’operazione. Operazione a carico del contribuente elvetico, cornuto e mazziato: le obbligazioni subordinate vanno in fumo, e così anche il valore delle azioni, ma non per tutti, I soci Arabi, Qatar et similia, che avevano detto di non voler partecipare all’aumento di capitale fatto per salvare la banca, “salvati”, mantenendo intatte le loro partecipazioni azionarie. In Italia la vedrei male, perlomeno pensando all’art.3 della Costituzione. Ma come diceva Jean Ziegler, la Svizzera lava più bianco e, a quanto pare, continua a farlo.
C’è un rincorrersi quasi malinconico nelle notizie di queste giorni, memori della Grande Crisi 2008-2018 (molto più lunga e devastante, a mio avviso, di quella del ’29), come se si scoprisse all’improvviso che le banche (i ladri) rischiano e quando lo fanno, coefficienti patrimoniali o no, lo fanno perlopiù con i soldi degli altri, ovvero dei risparmiatori, con le autorità di vigilanza (le guardie) che spesso intervengono a misfatto ormai compiuto. Dalla constatazione che le banche lavorano con i soldi degli altri nasce l’atteggiamento un po’ “feroce”, almeno all’apparenza, del regolatore americano, che gli istituti di credito li lascia fallire, e non per distrazione, anche se si tratta della 16ma banca degli USA (SVB), quasi che ciò servisse naturaliter a educare i risparmiatori a scegliere la propria banca in base alla comunicazione trasparente che la banca fa (?) e alla percezione che di essa ha il cliente del grado di rischio medio ponderato contenuto nelle attività delle banche. In poche parole, se ti scegli una banca, prima dovresti averne letto i bilanci e compreso il grado di rischio, compreso il CET 1 ratio o il Texas Ratio. Velleitario o ingenuo che sia, questo è l’atteggiamento a stelle e strisce, che funzionerebbe meglio, forse, se fossero praticate maggiormente la trasparenza e la cooperazione: nel caso americano, ma non solo, questo vuol dire applicare effettivamente le regole degli accordi di Basilea, che anche gli USA hanno sottoscritto (la trasparenza e la comunicazione sul grado di rischio) ovvero erigere il pilastro da sempre -perlomeno da Basilea 2- mancante nella costruzione degli assetti volti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari. Trasparenza sul grado di rischio che tuttora manca anche nel Belpaese (in Italia la comunicano nella pubblicità solo Mediolanum e Mediobanca, a mia notizia, e pochi altri: e la comunicano perché hanno requisiti di capitale assai elevati) così come manca la cooperazione. Se Miss Universo dichiara di essere una bella donna, oltre che volere la pace nel mondo, nessuno le dirà nulla, semplicemente perché è vero. Se la figlia del rag.Fantozzi facesse altrettanto, la smentita sarebbe altrettanto unanime e, probabilmente, più fragorosa. Ricordo come, nel corso di un viaggio di studi presso la British Banks Association, il funzionario che mi ricevette mi donò, con giusto orgoglio, il report contenente una classifica che la stessa associazione promuoveva, basata sul livello della qualità dei servizi offerti dalla banca così come percepito da un cliente tradizionalmente debole sotto il profilo finanziario, le PMI. Trasparenza e cooperazione -le banche, in competizione tra loro, rendevano tuttavia possibile la compilazione della classifica, aspirando a primeggiare in essa-, in un sistema bancario dove già all’epoca (1998) si facevano i mutui on line: questa vicenda, che purtroppo non ho più seguito, insegna che non può trattarsi di una semplice questione di regole, ma di una attitudine e di una cultura che non si creano per legge o per normativa regolamentare. Direi piuttosto che il tema è di cultura ed educazione finanziaria, quella che dobbiamo trasmettere quando spieghiamo in università ma anche quella che si respira nel sentire comune, quella che viene fuori dalla cosiddetta economia civile, dall’impresa, dal lavoro. La fatica che ho notato presso le banche nell’accettare la normativa degli EBA-LOM, la sua scarsa o nulla conoscenza presso le imprese e spesso presso gli stessi lavoratori bancari, riflettendo che nel documento si invoca “la diffusione di una forte cultura del rischio di credito”, mostrano che le regole non funzionano se non sono fatte proprie all’interno di una visione e di una concezione del fare banca (e del fare impresa) che chiariscano in modo trasparente la missione e lo scopo dell’agire dell’impresa stessa, bancaria e non, e che lo sottopongono al mercato. Non si tratta solo di sottolineare l’importanza della comunicazione non finanziaria nei bilanci di imprese, le PMI italiane, che faticano a spiegare il minimo sindacale, ma di qualcosa di maggior spessore, che va al di là degli adempimenti formali. La trasparenza e la cooperazione sono un lavoro quotidiano, che non si insegna: si impara praticandole. Abbiamo di che lavorare, nelle università, nelle banche, nelle imprese.
Quando non capisci cosa fa esattamente una banca o un’impresa io ho sempre fatto una sola cosa: sono andato a vedere i conti. Il sito di Silicon Valley Bank fornisce informazioni per la verità assai scarne, pur sempre migliori di quanto non forniscono i siti di molte società italiane, chehanno il malcostume di non depositare i bilanci e pagare una sanzione amministrativa pur di non mostrare i conti alla concorrenza.
Detto ciò, nell’illustrazione dei conti stessi*, SVB è presentata così: U.S. venture-backed technology and life science companies bank with SVB. Yahoo finance la presenta come una banca privata ma, soprattutto, come investment banke già qui si comincia a capire che qualcosa non va se una banca regionale o di deposito fa la banca di investimento (leggendo nel sito fa molti mestieri, tutti la cerca(va)no, tutti la vo(levano)gliono.
Il totale della raccolta presso la clientela al 31.12.22 è pari a 342 miliardi di $, con prestiti che ammontano a soli 74 miliardi di dollari (poco meno del 20% della raccolta) mentre i cosiddetti assets, parola misteriosa dietro la quale si può celare la qualunque, ammontano a ben 212 miliardi di $ (pari al 62% della raccolta). Parrebbe la re-incarnazione di ciò che in Italia e in Europa non è più possibile fare (e che a Bancaria non si spiega più), ovvero la trasformazione dei rischi e delle scadenze. Non si potrebbe fare nemmeno negli States, che aderiscono agli accordi di Basilea ma che probabilmente vi aderiscono come a una bocciofila.
La domanda è: che cosa sono quei 212 miliardi di dollari di assetsse questa è una banca che serve la start-up?? Quanto rischio è insito in quella voce e quanto di esso è stato coperto da capitale? A quanto pare poco, se è vera la vulgata (ma lo sa solo la FED e non lo dirà certamente a noi, per non perdere il capitale reputazione invero assai modesto in termini di Vigilanza), si trattava di titoli a tasso fisso che in caso di rialzo dei tassi si deprezzano: già, ma quali titoli?
E se solo il 20% della raccolta è destinata a prestiti come fai a definirti banca regionale, al servizio delle start-up? L’unica cosa che fai per le start-up, a parte il 44% delle IPO U.S. venture-backed technology and healthcare in 2022, è raccogliere i loro conti correnti, i loro depositi, i loro risparmi. Insomma fai la banca di deposito: che noia, che barba, che noia, sembra una qualunque BCC, con rispetto parlando. E invece rischi assai: vuoi trasformare i rischi e le scadenze, facendo contemporaneamente corporate finance e una quantità di altri mestieri che non ti si addicono, se non per la location.
C’è qualcuno che dovrebbe impedirtelo? Sì, la FED: ma il genio trumpiano ha fatto approvare una legge con requisiti patrimoniali meno stringenti proprio per questo genere di banche, legge bipartisan approvata all’unanimità.
Ma qualche domanda, da modesti artigiani del mestiere tocca farsela, altrimenti va bene tutto (e ci meritiamo tutto). Certamente la stampa non ha contribuito alla chiarezza (Loretta Napoleoni, peraltro, essendo una economista) e non parlo di certa stampa spazzatura.
Ad ogni modo, volendo sintetizzare e spiegare il fallimento di SVB for dummies, alcune questioni saltano all’occhio. SVB è una banca di deposito, raccoglie denari dai risparmiatori come qualunque altra banca e li impiega prestandoli alle start-up. E già qui c’è qualcosa che comincia a non quadrare: il denaro alle start-up, proprio perché sono tali, non lo prestano le banche di deposito, ma lo investono (la differenza è sostanziale, non solo lessicale) i fondi di private equity, i business angels etc…non le banche. Che diavolo di business model è quello di prestare denari dei risparmiatori a imprese assai rischiose?
C’è qualcosa che non funziona nella divisione del lavoro nel sistema finanziario americano: da quando le banche di deposito, in un mondo dove abbiamo imparato il tema essere quello della liquidità (cfr. gli accordi Basilea 3, anche se gli Stati Uniti, as usual, fanno quello che vogliono in materia) raccolgono denaro a vista per impiegarlo in operazioni di assai lungo e rischioso ritorno?E, soprattutto, per la parte rimanente, gli impieghi finanziari, li lasciano in titoli a reddito fisso che, come sanno certamente anche i sassi, quando i tassi salgono, si deprezzano. Quindi SVB è una banca che lavora per le start-up ma investe in obbligazioni, come un qualunque Unicredit? E che titoli sono quelli che comportano perdite così elevate, forse non T-bill??
E se le start-up non avranno i soldi per pagare stipendi e spese correnti, che strana specie di imprese sono se, una volta passata la fase iniziale hanno iniziato a lavorare? Il problema non sono le start-up, ad evidenza, ma chi le finanzia (come dice Napoleoni, come in un manuale di tecnica bancaria, ma facendo l’opposto), in una fase della loro storia imprenditoriale dove probabilmente hanno ancora bisogno di capitale paziente, non di prestiti bancari.
Un’ultima questione riguarda la Vigilanza: come sanno bene i miei studenti, il Banco Ambrosiano di Calvi fu salvato in un weekend, riaprendo il lunedì dopo come se nulla fosse accaduto, poiché il regolatore Europeo, quello italiano in primis, non ha quasi mai difettato di rapidità. La FED di Jerome Powell si riunisce domani, lunedì, a mercati aperti, e con la santa calma (bisogna che siano svegli anche sulla costa occidentale, la riunione parte alle 8.30 a.m. ora di Los Angeles). Sappiamo che la vigilanza negli States non ha mai rassomigliato neppure lontanamente a quella Europea: Milton Friedman ha lasciato le sue impronte anche lì e, bene o male, il criterio è quello che il mercato deve fare il suo corso e negli USA falliscono molte più banche di quante non ne immaginiamo. Ma in questo modo?