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Guardie e ladri.

Guardie e ladri.

C’è un rincorrersi quasi malinconico nelle notizie di queste giorni, memori della Grande Crisi 2008-2018 (molto più lunga e devastante, a mio avviso, di quella del ’29), come se si scoprisse all’improvviso che le banche (i ladri) rischiano e quando lo fanno, coefficienti patrimoniali o no, lo fanno perlopiù con i soldi degli altri, ovvero dei risparmiatori, con le autorità di vigilanza (le guardie) che spesso intervengono a misfatto ormai compiuto.
Dalla constatazione che le banche lavorano con i soldi degli altri nasce l’atteggiamento un po’ “feroce”, almeno all’apparenza, del regolatore americano, che gli istituti di credito li lascia fallire, e non per distrazione, anche se si tratta della 16ma banca degli USA (SVB), quasi che ciò servisse naturaliter a educare i risparmiatori a scegliere la propria banca in base alla comunicazione trasparente che la banca fa (?) e alla percezione che di essa ha il cliente del grado di rischio medio ponderato contenuto nelle attività delle banche.
In poche parole, se ti scegli una banca, prima dovresti averne letto i bilanci e compreso il grado di rischio, compreso il CET 1 ratio o il Texas Ratio.
Velleitario o ingenuo che sia, questo è l’atteggiamento a stelle e strisce, che funzionerebbe meglio, forse, se fossero praticate maggiormente la trasparenza e la cooperazione: nel caso americano, ma non solo, questo vuol dire applicare effettivamente le regole degli accordi di Basilea, che anche gli USA hanno sottoscritto (la trasparenza e la comunicazione sul grado di rischio) ovvero erigere il pilastro da sempre -perlomeno da Basilea 2- mancante nella costruzione degli assetti volti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari.
Trasparenza sul grado di rischio che tuttora manca anche nel Belpaese (in Italia la comunicano nella pubblicità solo Mediolanum e Mediobanca, a mia notizia, e pochi altri: e la comunicano perché hanno requisiti di capitale assai elevati) così come manca la cooperazione. Se Miss Universo dichiara di essere una bella donna, oltre che volere la pace nel mondo, nessuno le dirà nulla, semplicemente perché è vero. Se la figlia del rag.Fantozzi facesse altrettanto, la smentita sarebbe altrettanto unanime e, probabilmente, più fragorosa.
Ricordo come, nel corso di un viaggio di studi presso la British Banks Association, il funzionario che mi ricevette mi donò, con giusto orgoglio, il report contenente una classifica che la stessa associazione promuoveva, basata sul livello della qualità dei servizi offerti dalla banca così come percepito da un cliente tradizionalmente debole sotto il profilo finanziario, le PMI.
Trasparenza e cooperazione -le banche, in competizione tra loro, rendevano tuttavia possibile la compilazione della classifica, aspirando a primeggiare in essa
-, in un sistema bancario dove già all’epoca (1998) si facevano i mutui on line: questa vicenda, che purtroppo non ho più seguito, insegna che non può trattarsi di una semplice questione di regole, ma di una attitudine e di una cultura che non si creano per legge o per normativa regolamentare.
Direi piuttosto che il tema è di cultura ed educazione finanziaria, quella che dobbiamo trasmettere quando spieghiamo in università ma anche quella che si respira nel sentire comune, quella che viene fuori dalla cosiddetta economia civile, dall’impresa, dal lavoro.
La fatica che ho notato presso le banche nell’accettare la normativa degli EBA-LOM, la sua scarsa o nulla conoscenza presso le imprese e spesso presso gli stessi lavoratori bancari, riflettendo che nel documento si invoca “la diffusione di una forte cultura del rischio di credito”, mostrano che le regole non funzionano se non sono fatte proprie all’interno di una visione e di una concezione del fare banca (e del fare impresa) che chiariscano in modo trasparente la missione e lo scopo dell’agire dell’impresa stessa, bancaria e non, e che lo sottopongono al mercato.
Non si tratta solo di sottolineare l’importanza della comunicazione non finanziaria nei bilanci di imprese, le PMI italiane, che faticano a spiegare il minimo sindacale, ma di qualcosa di maggior spessore, che va al di là degli adempimenti formali. La trasparenza e la cooperazione sono un lavoro quotidiano, che non si insegna: si impara praticandole.
Abbiamo di che lavorare, nelle università, nelle banche, nelle imprese.

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Alessandro Berti Capitalismo Crisi finanziaria Cultura finanziaria

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati, cause, pretesto, le attuali conclusioni…

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati, cause, pretesto, le attuali conclusioni…

Già successo, ma alla Regina Elisabetta si perdona tutto. All’inizio della grande crisi 2008-2018 HMQ si altera un po’ con gli economisti, bacchettandoli per non avere previsto la crisi. Ovviamente finisce lì.

Quella che è finita oggi, sul Corriere, è stata la mascalzonata, che non perdono, di titolo e contenuti, riguardante il “flop degli economisti che non avevano previsto tutto questo“. Mi pare che il giornalista fosse Rampini, ma potrei sbagliare: è sparito dal sito un articolo che per due o tre giorni, aprendo corriere.it appariva come prima notizia. Ora, io non sono un economista e non ho previsioni da difendere, ma qualche volta vorrei solo ricordare che nonostante modelli, equazioni, matrici e derivate, l’economia resta una scienza sociale. L’abbiamo riempita di quantità perché proviamo sempre a inscatolare la realtà nei nostri schemi, ma la realtà deborda. Se l’economia fosse una scienza esatta come la fisica, sapremmo che come l’acqua bolle a 100° e gela a 0°, così in qualche modo per prezzi, salari, tassi di interesse etc…

Chi ci prende sempre è solo Nouriel Roubini, perché dice sempre le stesse cose, preconizzando che qualcosa andrà male; e come ogni orologio rotto, due volte al giorno dice l’ora esatta, lui può dire:”L’avevo detto!”. Pessimista cosmico, a mio parere da incrociare solo dopo aver compiuto opportuni gesti apotropaici, il nostro incarna bene il signore della foto. Prevedere il futuro, sa farlo solo il divino Otelma: o il mago Alex.

P.S.: bisognerebbe ascoltare più spesso L’avvelenata di Francesco Guccini.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio BCE Capitale circolante netto operativo Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Moratoria dei debiti PMI

For absent friends.

For absent friends.

Immagine che contiene testo, erba

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Fra circa due mesi saranno 50 anni dall’uscita di Nursery Cryme, album leggendario dei Genesis, che contiene il brano di cui sopra. Era ed è progressive rock, per conto mio sufficientemente immortale da meritare celebrazioni e non solo personali: quando poi le parole o i titoli diventano qualcosa di concreto, di vissuto, il ricordo si fa più vivido e ti scatta l’idea per un titolo, per un commento, di contrabbando, sulla vita professionale e il lavoro.

Cynthia è la simpaticona della copertina che decapita l’amichetto Henry con la mazza da croquet: già, ma chi sono, fuor di metafora, gli “amici assenti” di una canzone memorabilmente inglese?

Gli italianissimi dottori commercialisti e, obviously, i loro clienti.

Usciamo da ogni metafora e ritorniamo all’oggi, settembre 2021, lieti delle parole del ministro Franco sulla ripresa del PIL nel corso del suo intervento conclusivo al workshop Ambrosetti. C’è la ripresa e guai a rovinarla con qualche obbligo supplementare, così ha detto il c.d. capitano, non si deve indulgere al pessimismo. E poi c’è il 110%, i soldi del Next Generation EU, la riforma del fisco, insomma perché essere preoccupati per gli assenti?

Non sono servite tante telefonate, nelle scorse settimane, per capire che il tema delle relazioni di clientela, così pesantemente “ribaltato” dagli Orientamenti EBA –ribaltato perché non sono più le banche a dover correre dietro alle informazioni negate da imprenditori riottosi a fornirle, ma il contrario– questo tema è quasi del tutto ignoto ai commercialisti. Così chiami il collega di una grande città del Nord Italia, che si occupa di fallimenti e che ha cominciato da un po’ di anni a capire che il ricorso abusivo al credito e la concessione abusiva di credito non erano solo temi per riviste specializzate in diritto concorsuale, e scopri che non solo non sa che esiste l’EBA ma, ovviamente, nemmeno che abbia emanato degli Orientamenti in materia di prestiti e di monitoraggio sui medesimi. 

Mi dice solo:”Devo studiare”. 

Poi ne chiami un altro, a Roma, amico di quello che ti ha chiesto di aiutarlo sul piano industriale di un’impresa di servizi e, parlando, viene fuori che si è vero, è stato fatto un aumento di capitale, ma rinunciando a un finanziamento soci e che lo aveva suggerito lui per non far andare in negativo il patrimonio netto: è fiducioso nella correttezza del suo operato, peraltro formalmente ineccepibile e gli chiedo se si senta tranquillo sugli esiti della gestione. Certo, dov’è il problema? Finora le banche ci hanno sempre seguito, abbiamo dato loro le garanzie, è quello che cercano, no? No. Vogliono le garanzie lo stesso ma vogliono soprattutto il reddito e i flussi di cassa. Vogliono la sostenibilità del debito. Vogliono che il rapporto tra posizione finanziaria netta ed Ebitda non superi 6 e che il DSCR sia superiore a 1,1. Mi risponde che il DSCR era nel vecchio schema legislativo del Nuovo (sic) Codice delle Crisi di Impresa, è stato riformato, rinviato, stravolto, che c’entra ora? C’entra che lo calcolano le banche e che sono obbligate a farlo, perché è una metrica, ovvero un indicatore obbligatorio di solvibilità: se sei inferiore a 1 con le vecchie performance e a 1,1 con quelle di previsione il tuo debito finanziario non è sostenibile.

Ma come fanno a calcolarlo per il futuro? O gli porti tu il piano industriale e quelli partono da quello che hai scritto e lo testano, verificando le assunzioni e la correttezza del loro sviluppo, oppure se lo fanno da soli, prevedendo tutto al ribasso…

Ah! Non lo sapevo.

For absent friends. God, have mercy on us. 

P.S.: se il tuo rapporto tra PFN ed Ebitda supera 6 (e verosimilmente anche il tuo DSCR non sta meglio) significa che sei un UTP o unlikely to pay, inadempienza probabile. Prima o poi qualcuno dirà che il Re è nudo.

P.P.S.: come dimostrano un po’ di simulazioni che abbiamo fatto su svariate società, per fare nuovi investimenti, in più di un caso, non bastano nemmeno i soli quattrini dell’imprenditore a copertura, ovvero tutto l’investimento fatto con equity. No, ci vuole anche capitale proprio per ridurre il debito e, soprattutto, per rimanere a galla. Ma ne deve valere la pena. 

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ABI Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche BCE Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Moratoria dei debiti PMI Vigilanza bancaria

Meno 1.

Sarebbe domani, sarebbe dalla mezzanotte. Anche oggi la rassegna stampa consente di affermare che il principale quotidiano economico italiano ignora la scadenza degli Orientamenti EBA, su LinkedIn solo il grande Collega Giacomo De Laurentiis, da sempre uno dei pochi veri appassionati circa il tema del rapporto banca-impresa, ha promosso, ormai una settimana fa, un incontro sul tema.

E allora continuiamo a parlare delle “nuove concessioni” almeno per capire quali potrebbero essere i punti di frizione, i problemi, le criticità che un rinnovato -almeno nelle regole dei criteri di concessione, nelle metriche e nei limiti- processo del credito, mai così pesantemente divenuto prescritto da parte del regolatore, comporterà per molte imprese.

Almeno per tutte quelle, e ci auguriamo che siano tante, che da domani andranno in banca a chiedere nuova finanza, per i loro progetti di sviluppo, per partecipare alle varie fasi del PNRR, per intraprendere, crescere, non fermarsi; perché lo stock di crediti già in essere resterà lì, quasi sospeso fino al 30.6.2022, una specie di standstill concettuale prima che effettivo, con le banche chiamate da EBA, tuttavia, a vigilare su tutte le esposizioni.

E, d’altra parte, le nuove concessioni potrebbero riguardare anche situazioni non proprio rosee o entusiasmanti, con performances non commendevoli fin da prima della pandemia. Chi è arrivato a fine giugno e non sta per licenziare tutti o quasi, potrebbe aver deciso di ristrutturare, di risistemare l’azienda, di chiedere nuova finanza per mettere in atto quella discontinuità rispetto al passato che sola può contribuire a rendere fattibile un piano di risanamento.

Dunque da domani si comincia: insieme a R&A Consulting abbiamo messo a punto uno strumento di facile utilizzo che però aiuta fin da subito a capire quali possano essere le criticità o le questioni più importanti da risolvere; e contemporaneamente, ci soffermeremo sulle principali metriche, sui criteri di concessione, sulle regole fissate da EBA.

Perché da domani chi lavora in banca e analizza il credito, un criterio sicuro ce l’ha nel valutare le nuove concessioni: la valutazione del merito di credito deve essere fatta “al meglio delle conoscenze della banca al momento della concessione“. E il “meglio” non può che consistere in un corredo informativo, storico e prospettico, ampio, approfondito, aggiornato.

A domani.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo BCE Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Modelli di business e modelli di valutazione.

Ma proprio perché esiste questa opportunità, è importante che anche le banche si concentrino sulle imprese del futuro, evitando di continuare a supportare aziende con modelli di business non sostenibili“. Così Claudio Torcellan, partner della società di consulenza Oliver Wyman, ripreso in un articolo di Alessandro Graziani sul Sole 24Ore on line di oggi, parlando delle leve per rilanciare la redditività delle banche e delle opportunità offerte al sistema delle imprese e al sistema bancario dalle misure previste nel Recovery Fund.

Se è vero, come pare, che Oliver Wyman sia la società di consulenza della stessa BCE in materia di vigilanza, ci sarebbe più di un motivo per riprendere in mano la questione del modello di business, e non solo perché è scritto nelle metriche degli Orientamenti EBA e diventa oggetto di vigilanza ispettiva: saper valutare il proprio business model, per le imprese e per le banche che le finanziano, diventa un elemento fondamentale del processo del credito, ovvero del processo di conoscenza reciproca che ruota intorno alla misurazione del rischio ma è, sicuramente, molto di più.

Nel prosieguo dell’articolo, che invito tutti a leggere, vi sono molti spunti di riflessione, alcuni dei quali sono veri e propri ossimori da risolvere, o se si preferisce, da sciogliere: si pensi, tra gli altri, al rapporto tra lavoro umano, indispensabile nel modello della banca di relazione, e intelligenza artificiale, capitolo non più eludibile, anche alla luce della marcata preferenza, ormai ben chiara, espressa dal regolatore per la grande banca a dimensione nazionale. Non c’è industrializzazione del processo del credito che possa prescindere da solide conoscenze e da una capacità di lettura che riesce difficile immaginare di appaltare a un robot; così come riesce difficile immaginare che le stesse riflessioni sul modello di business dell’impresa possano essere lasciate all’imprenditore senza che la banca condivida le proprie, sull’impresa stessa, sul settore e/o sulla filiera.

Prima ancora che sia la banca a razionare, di fatto, il credito a quelle imprese e a quei settori destinati inevitabilmente a diventare marginali o ancora più competitivi e quindi con una marginalità in progressiva, costante erosione, la riflessione dovrebbe essere agevolata da un ceto professionale che appare ancora un po’ troppo impaurito o forse preso alla sprovvista dalle novità (quando non “affonda” nella miriade di pratiche, dal 110% alle moratorie) e dalle banche stesse, unitamente alle associazioni di categoria, anche se al momento la preoccupazione principale sul tema è spostare in avanti le scadenze, prolungando le moratorie. Anche perché ogni allungamento delle moratorie aiuta a spostare in avanti il problema del credito deterioratosi a causa della crisi indotta dalla pandemia…

Bisogna intendersi: è difficile immaginare un mondo dove si possa fare a meno del commercio al dettaglio e della distribuzione retail, ma non è evidentemente pensabile che cessata l’emergenza, sia business as usual per tutti e amici come prima. Ovvero, un business model che nella distribuzione al dettaglio ignori le conseguenze della digitalizzazione e/o dei mutamenti nei comportamenti dei consumatori è destinato inevitabilmente a soccombere, così come quello di un classico terzista la cui formula competitiva sia tuttora basata sul body rental, senza offrire un reale valore aggiunto.

Dunque, guardando avanti, occorrerà agire ed agire in fretta; e se in questo ambito non è sicuramente il caso di occuparsi del policy maker e delle sue scelte –trop vaste programme-, non ci si può non fare, per l’ennesima volta, interpreti della necessità di un dialogo che riempia di contenuti la necessaria partnership tra banca e impresa, mai come in questo momento storico così importante e così decisiva per il nostro Paese e il suo sistema economico. E allora si deve dire chiaro e forte che non ci servono meno banche di relazione perché quello è un modello adatto a banche piccole, ma banche che sappiano crescere in maniera profittevole senza perdere il contatto con la realtà dei territori e delle imprese che vi lavorano: l’intelligenza artificiale elimina la relazione solo se viene concepita in un’ottica fine a sé stessa, non come strumento. Siamo uomini, non caporali.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Ma davvero è solo una questione di moratorie?

Ieri pomeriggio ho avuto l’opportunità di assistere, finalmente in qualità di spettatore, a un webinar di grandissimo interesse, promosso da una banca di interesse nazionale, in collaborazione con un’associazione imprenditoriale di categoria del territorio. Argomento del webinar, secondo un titolo caro al sottoscritto, era, parafrasando, l’impresa vista dalla banca. Nessun accenno alle moratorie, che tutti vorrebbero prolungate usque ad mortem, così come nessun accenno alla documentazione richiesta per i nuovi affidamenti, né alle cosiddette “metriche” obbligatorie previste dall’EBA (European Banking Autority) in materia di affidabilità delle imprese e sostenibilità del debito.

Tuttavia, nel corso di una presentazione certamente agile e interessante, la banca in questione ha non solo evidenziato quali siano gli aspetti che più di altri rilevano ai fini delle proprie valutazioni interne, ma ha anche spiegato che tali valutazioni, soprattutto di tipo prospettico, sono indispensabili per capire come saranno le imprese nel new normal, in chiave pertanto evolutiva.

Paradossalmente, ma non troppo, non si è parlato di Orientamenti EBA ma è come se lo si fosse fatto: la ben scarsa presenza di imprenditori e di professionisti al webinar mi fa dubitare che il tema sia non appena fatto proprio, ma reso noto e conosciuto tout-court da chi di dovere, soprattutto le PMI.

Quindi, come diceva Lenin, che fare? Si può solo continuare a fare cultura d’impresa, in banca e fuori dalla banca: a proposito, con R&A Consulting proponiamo un appuntamento per il 13 aprile, save the date.

D’altra parte, l’iniziativa di ieri è meritoria, ma non basta, se poi gli imprenditori non vengono. O, che è peggio, se poi non capiscono che fare il business plan non serve “da dare alla banca”: serve a loro.

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ABI Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Capitale circolante netto operativo CIG (cassa integrazione guadagni) Crisi finanziaria Cultura finanziaria Disoccupazione Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Se non ora, quando.

Se non ora quando.

Ovvero, se non ora, visto che tutto è garantito (?) dallo Stato e tutto o quasi sarebbe dovuto dalle banche, le quali nulla hanno da temere perché tanto pagherà la SACE o il Fondo Centrale di Garanzia, quando vogliamo metterci intorno a un tavolo per provare a capire che quello che serve per le nostre imprese non è credito facile o garantito, ma credito sostenibile. E magari rendersi conto che, nonostante le balle che vengono raccontate ovunque (Il Business Plan? Ma la banca X mica le lo ha chiesto? Ma la Banca Y mi ha dato 1 milione di € e non ha voluto niente e via di scempiaggine in scempiaggine).

Per questo rinnovo l’invito al webinar organizzato da R&A Consulting e al quale mi onoro di partecipare, introducendo la prima giornata. I relatori, a parte il sottoscritto, sono di tutto rispetto: e ci sono 6 crediti formativi. Vi aspetto.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Cultura finanziaria Disoccupazione Educazione Fabbisogno finanziario d'impresa Lavorare in banca

Lavori usuranti? Lavorare in banca.

Lavori usuranti? Lavorare in banca.

Sono iscritto, quasi di contrabbando, a un gruppo Facebook che si chiama “Dipendenti bancari”. Ho lavorato e lavoro talmente tanto con loro che mi sento uno di loro, anche se non mi permetto di fare interventi. Leggerli, tuttavia, soprattutto in questo periodo, è illuminante di una realtà che è sotto gli occhi di tutti, ovvero la totale disinformazione e mancanza, letteralmente, di educazione al rispetto del lavoro e ai rapporti umani. Premesso che non è mio compito difendere i dipendenti delle banche, lo sanno fare da soli, credo che arrivare a minacciare di morte o di percosse sia indicatore di uno stato d’animo che è divenuto incapace di giudicare la realtà e riesce a vedere solo il proprio immediato particolare e le proprie esigenze. Non aiuta, in tutto questo, la comunicazione, pubblica e privata, quella dei media e quella sui social che, soprattutto a seguito dell’emanazione del Decreto Liquidità, ha messo in prima linea le banche nell’erogazione degli aiuti, facendone l’ufficiale pagatore di un esercito senza soldi. E, infatti, il Decreto di cui sopra, non potendo erogare denari che non ci sono, eroga garanzie pubbliche (SACE ma soprattutto Fondo Centrale di Garanzia) che dovrebbero rassicurare -secondo il mainstream di giornali, politici di maggioranza ed associazioni di categoria- le banche.

Le banche, deputate a erogare in luogo dello Stato, dovrebbero essere rassicurate che:

  • non finirà tutto a schifìo (Mezzogiorno e mezzo di fuoco, regia di Mel Brooks);
  • ove finisse, non ci sarebbero conseguenze penali (il cosiddetto “scudo penale”) per chi ha finanziato soggetti poi falliti;
  • non servono istruttorie complesse (le scartoffie), basta andare in banca per ricevere denaro, come recita un’improvvido articolo apparso su Italia Oggi di lunedì 8 giugno a firma Roberto Lenzi.

Duole doverlo scrivere, ma nessuno dei punti sopraelencati pare potersi realizzare.

Quanto al primo punto, per la buona ragione che basterebbe che anche solo il 10% delle imprese che hanno ricevuto le garanzie poi andasse in default per vedere esauriti i fondi, rendendo vane e inefficaci le garanzie.

Quanto al secondo perché, Ministro di grazia e giustizia Bonafede, il diritto è divenuto, tutto il diritto, diritto penale, ogni sorta di diritto è solo e soltanto penale: e nel Decreto Liquidità non era prevista nella stesura originaria, né è stato aggiunto nel decreto di conversione, alcun tipo di esclusione di responsabilità penale per le banche che dovessero trovarsi a finanziare un’impresa che poi fallirà. Ricorso abusivo al credito, concessione abusiva di credito, bancarotta fraudolenta etc…

Quanto al terzo, e qui divento noioso, per alcuni motivi che vale la pena riprendere puntigliosamente.

Quando Roberto Lenzi nell’articolo citato di Italia Oggi parla dell’art.1 bis, cita un periodo che io non ho -letteralmente- trovato nella legge di conversione (magari mi sbaglio, pronto a correggermi) e che, peraltro, mi parrebbe in contrasto evidente con quanto si dice, per esempio, proprio a proposito di SACE, che deve operare con la dovuta diligenza professionale e che, sempre a detta di Lenzi, viceversa sarebbe esentata dal fare “accertamenti ulteriori”. Se restringiamo il campo alle garanzie che può concedere SACE già questo basterebbe per dire che l’articolo è scritto volutamente “male” (captatio benevolentiae) per imprenditori disperati e professionisti arruffoni, perché le garanzie SACE sono ben poca cosa sul totale e il vero protagonista per le PMI è il FCG. Il quale FCG, d’altra parte, non ha fondi a sufficienza anche solo nell’ipotesi che il 10% delle imprese beneficiarie siano poi insolventi. Mi dicono peraltro che l’articolo in questione sia stato brandito da numerosi consulenti per portare avanti le ragioni di pratiche di fido irricevibili.

Peraltro e cito il Decreto Liquidità convertito in legge: “art.2 lettera n) il finanziamento coperto dalla garanzia deve essere destinato a sostenere costi del personale, ((canoni di locazione o di affitto di ramo d’azienda,)) investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attivita’ imprenditoriali che siano localizzati in Italia, come documentato e attestato dal rappresentante legale dell’impresa beneficiaria, ((e le medesime imprese devono impegnarsi a non delocalizzare le produzioni;” Come è possibile documentare e attestare qualcosa senza le dovute pezze d’appoggio, ovvero bilanci, business plan etc..? Come è possibile fidarsi della sola autodichiarazione, che coprirebbe il verbo “attestare” ma non “documentare”?

In sintesi, mi pare che la portata innovativa della certificazione sbandierata nell’articolo, sia più che altro presunta dall’Autore dell’articolo e dai suoi lettori interessati, tanto più che lo stesso Lenzi dice è l’imprenditore a dover dichiarare, sotto la propria responsabilità, che “i dati aziendali forniti su richiesta dell’intermediario finanziario sono veritieri e completi (…).” Nessuno esonera l’intermediario dal chiedere i dati e nessuno lo esonera dalla dovuta diligenza professionale.

Per cui, portiamo rispetto ai bancari: soprattutto a quelli che lavorano bene.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa

Il magazzino: un amante ingrato, un segnale di (in)efficienza, una macchina della verità.

Il magazzino: un amante ingrato, un segnale di (in)efficienza, una macchina della verità.
Macchina-della-verità

Nel Sole 24Ore del 27 marzo c’è un interessante articolo sulla “sfida” che il livello delle scorte pone ad una società quotata italiana, la Emak (cfr.”La sfida di Emak: meno magazzino per contrastare i mercati volatili.”). Certo, pensare che ridurre il magazzino serva ad affrontare le sfide dei mercati,  farà storcere il naso a più di un imprenditore: probabilmente agli stessi che del magazzino si innamorano, tristemente non ricambiati, pensando che “intanto però gli sconti-quantità, l’approvvigionamento etc…”. Il magazzino è un componente negativo di reddito, è un costo: più magazzino uguale più costi. Per giunta, costi che si deteriorano, diventano obsoleti, invendibili, fuori mercato. Per questo la sfida di Emak è una sfida che dovrebbe essere raccolta da ogni impresa, grande o piccola, perché il livello del magazzino segnala, nel migliore dei casi, l’inefficienza della gestione, l’incapacità di ottimizzare gli approvvigionamenti, la carenza di cultura finanziaria delle Pmi.

Da ultimo, in maniera quasi ossessiva nei conti annuali delle imprese, anche in quelle che sembrano avere oltrepassato la crisi, talvolta anche in quelli delle quotate, il magazzino segnala politiche di bilancio volte a mostrare un utile solo contabile, quando in realtà il reddito sarebbe nullo o negativo. Il magazzino, dunque, come una macchina della verità che -a differenza del poligrafo- non sbaglia mai: basterebbe utilizzare il rendiconto finanziario per comprenderlo.

Talvolta, più semplicemente, basterebbe il buon senso e la semplice analisi del conto economico: che ve ne pare di 1 miliardo e 400milioni di shopper di plastica (vulgaris: sportine) stipati in 500 mq.? o dell’equivalente di 250mila pallets (vulgaris: pancali) nel piazzale di un produttore dei medesimi? Non è tanto grave che qualcuno lo abbia scritto in un bilancio: è grave che qualcuno in banca continui a crederci.

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Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Giulio Tremonti Indebitamento delle imprese PMI Silvio Berlusconi

La perdita del cliente spiega lo scostamento (controesodo).

La perdita del cliente spiega lo scostamento (controesodo).

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Sul Sole 24Ore di qualche giorno fa veniva riportata la conclusione di una controversia tributaria che oltre a far pensare che l’Accademia  della Guardia di Finanza debba inserire nei programmi dei suoi corsi più ore di analisi finanziaria e di bilancio, fa riflettere sull’importanza dell’analisi settoriale ai fini della relazione bancaria e del rapporto di affidamento.

In sintesi “il maggior ricavo ottenuto con Gerico non prova, da solo, una gestione imprenditoriale antieconomica se l’impresa ha perso il cliente principale. Inoltre, una differenza tra il margine di ricarico applicato dall’impresa sul costo del lavoro, e quello mediamente applicato dalle altre realtà dello stesso settore, non può fondare il recupero se non si mettono a confronto i costi di struttura. Infine, le condizioni di marginalità escludono il valore probatorio di una presunzione grave, precisa e concordante richiesta per l’accertamento dei maggiori ricavi. Così si è espressa la Ctr Lombardia 1893/15/2015 (presidente Giordano, relatore Staunovo Polacco).”

Premesso che si parla di 2004 e che l’argomento è noiosissimo (per chi volesse mettere i puntini sulle i il Governo in carica era quello di Silvio B. e Ministro dell’economia l’ineffabile Giulio Tremonti) stupisce che il Fisco -tardivamente- e la giurisdizione tributaria si accorgano prima delle banche che le imprese hanno formule competitive differenti, margini differenti rispetto ai settori e che la concentrazione del fatturato è un rischio. Quanto alla “gestione antieconomica” ricorre spesso nei commenti in aula di coloro cui faccio formazione, che immaginano scenari fantasiosi quando invece sarebbe meglio essere realisti. Nel caso in questione “l’antieconomicità della gestione è giustificata dalla perdita del cliente principale, dalla contrazione del mercato del software applicativo gestionale e dal tentativo di arginare queste perdite con l’avvio di nuove attività di siti web e counseling ai lavoratori; le spese contenute, diverse dal lavoro subordinato, provano l’assenza di una struttura aziendale e lo svolgimento di prestazioni di sola mano d’opera, mentre le imprese del campione rappresentativo hanno costi di struttura più elevati che possono influenzare i prezzi praticati ai clienti, facendo emergere così percentuali di ricarico più elevate.”

Ecco, se qualche pratica di fido in più fosse stata scritta così, forse avremmo lo stesso ammontare di sofferenze sugli impieghi, perché quando la crisi è sistemica, oltre che settoriale, c’è ben poco da fare. Ma magari qualche CdA e qualche DG avrebbero compreso meglio certi andamenti economici ed il credit crunch sarebbe stato meno duro. E forse, anche grazie alle banche, avremmo potuto comincciare ad uscirne prima. Come direbbe il Presidente del Consiglio (che apprezzo assai), cambiando direzione. Forse.