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Pharmonomics.

Pharmonomics.

Non avevo pensieri particolari sulle farmacie, fino all’arrivo di un sms ieri sera, che mi chiede una riflessione per alcune future farmaciste. Ci provo, anche se confesso di sentirmi più coinvolto dalle liberalizzazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari, perché fa più Strapaese e profonda provincia italiana. Quanto alle liberalizzazioni, Monti ha avuto gioco facile sulle sparate del Presidente del Milan, chiedendosi, ancora una volta, perché, se fosse stato così semplice realizzarle, non ci abbia pensato il governo precedente. Anyway, poiché da qualche parte si doveva cominciare, Mario Monti lo ha fatto, fra l’altro, dalle farmacie ed anche JM comincia di qua.

Pensiero immediato riflettendo sui farmacisti: sono ricchi, stanno bene. Generalmente è vero, è abbastanza evidente. I genitori di un mio collega di università erano farmacisti, ed erano ricchi, la farmacia rendeva, gli hanno lasciato un patrimonio. Non sarà un’evidenza empirica, di quelle che generano una “robusta correlazione statistica” e che fanno lampeggiare SPSS ma è così. E’ vero anche a Rimini, dove vivo. Secondo pensiero immediato: quanto costa una farmacia? Risposta popolare immediata: tanto! Una farmacia vale tanto ed anche questa è un dato di realtà, verificato con alcune concordi interviste presso qualificati commercialisti. Come in tutti i mercati opachi e poco trasparenti, il prezzo di mercato non è fissato da un meccanismo efficiente, ma spinto da altri fattori. Uno di questi, certamente è l’oligopolio tipico di questo mercato: poiché 1)- non posso svegliarmi domattina e decidere di aprire una farmacia, ma le licenze sono contingentate e l’attività non è libera, 2)-i farmaci sono beni a domanda anelastica (sulla salute, di norma, non si risparmia), possedere una farmacia non è come aprire un negozio di maglioni. Le maglie possono essere belle o brutte, di buona o cattiva qualità, il negozio può essere in periferia, i commessi incapaci: e potrebbe fare troppo caldo. Insomma, vendere maglie non offre garanzie di reddito, vendere farmaci sì. Il farmacista può essere sgarbato, antipatico, la farmacia periferica (quasi meglio, si parcheggia bene), ma il farmaco lo trovi solo lì, soprattutto il farmaco che serve, quello che non è in vendita libera: se poi è notte, o è domenica, la farmacia deve essere quella lì, quella di turno, e se è dall’altro capo delle città, pazienza. Il raffreddore ce l’hai anche con le stagioni strane, la cardioaspirina devi prenderla tutti i giorni etc..

Aprire una farmacia costa molto, si può solo comprarla: e recuperare l’investimento è lungo e difficile. Tre anni fa feci una consulenza ad un avvocato del Nordest  che se l’era comprata per la figlia, che diversamente avrebbe continuato a fare l’erborista. La consulenza fu superflua, la farmacia -stagionale- era già stata comprata, ad un prezzo con sei zeri, in una zona di villeggiatura; la mia consulenza serviva a dare l’imprimatur all’affare. Imprimatur che non venne, perché a mio parere, e qui è il punctum dolens della questione, a quei prezzi c’è solo un modo per recuperare il capitale investito, ed è rivendere. Non dipende dalla stagionalità dell’attività, poiché la stessa farmacia, in una città costerebbe molto di più e renderebbe in proporzione. No, dipende solo dall’oligopolio, e dal fatto che tu ci sia dentro o no. Se ci sei dentro e sei uno degli oligopolisti o hai ereditato i vantaggi, oppure li hai comprati; in entrambi i casi li difendi con le unghie e con i denti. Se sei fuori, sei disposto a pagare un sovrapprezzo per acquistare una rendita che offre molte sicurezze. Ma una volta che sei dentro, giustifichi il sovrapprezzo e lo vuoi, anzi lo devi recuperare. Ci possono essere per i farmacisti mille ragioni scientifiche e di tutela della salute per opporsi alle liberalizzazioni, ma in realtà una sola è quella più potente di tutti: la svalutazione della rendita, l’azzeramento del capitale investito. Non è sicuro che la liberalizzazione delle farmacie provocherà la crescita di dieci punti di PIL, come affermato dal Presidente del Consiglio: ma certamente ridurrà significativamente l’ammontare del capitale da recuperare attraverso la rendita oligopolistica. E dunque ridurrà la rendita, con benefici per tutti. Quanto alle giovani future farmaciste, penso che la loro vocazione si realizzerà pienamente anche senza la rendita: ed auguro loro di poter trarre soddisfazione dalla loro futura professione per quello che essa è, un servizio alla salute delle persone, non per l’essere ricche commercianti laureate.

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Mercato Stato Sviluppo welfare

Già, cos’altro vogliono?

Già, cos’altro vogliono?

La manovra Monti cancella con un tratto di penna le conquiste dei sessantottini. Chi è nato dopo il 1952 lavorerà di più e percepirà prestazioni ridotte (anche se su standard europei). Viene messo in discussione anche il privilegio concesso ai lavoratori autonomi di riscuotere l’assegno senza aver versato i contributi. Prossima tappa, la “mobilità in uscita”, alias licenziamenti. Insomma, il vecchio contratto sociale non esiste più. Un nuovo patto è tutto da scrivere e sarà il tema della nuova legislatura. Niente del genere è stato fatto, in così poco tempo e in così vaste proporzioni, in Germania, in Francia o in Spagna. Cos’altro vogliono i mercati, specialmente in uno scenario di basso sviluppo in tutto il mondo?

Stefano Cingolani Il Foglio, 28 dicembre 2012

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Crisi finanziaria fiducia Giulio Tremonti Mercato Silvio Berlusconi

Scollegati dalla realtà.

Scollegati dalla realtà.

Il vice-presidente della Camera, on.le Maurizio Lupi, ha affermato che “Mario Monti è il premier di Sarkozy e dei mercati.” Se ne deduce che non deve aver gradito la scelta del Presidente Napolitano di affidare l’incarico di formare un nuovo governo al sen.prof. Mario Monti. Se non vado errato, lo stesso Lupi, insieme al Presidente della Lombardia, Formigoni, hanno affermato che sarebbe una follia andare alle elezioni in questo momento. Nulla di male, si cambia idea, l’ho fatto anche io. Quello che dalla riflessione di Lupi non emerge è la totale mancanza di autocritica circa la nullità del Governo Berlusconi, azzoppato da Fini e dai giudici solo dopo due anni di totale spreco di tempo e di maggioranza bulgara. Per la verità l’assenza di riflessione, che pare una vera e propria mancanza di collegamento con la realtà, è evidente anche nei tanti interventi televisivi effettuati, compreso quello, surreale, a Ballarò, dove il nostro incolpava la (peraltro colpevolissima, ma di altro) Confindustria del disastro del debito pubblico italiano.

Ecco, ascoltando Lupi si capisce perché sia ragionevole non aspettarsi nulla dalla politica: perché non si può cavare il sangue dalle rape.

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Borsa Crisi finanziaria Economisti Mercato Strumenti finanziari

La qualità dei mercati.

La qualità dei mercati.

Paolo Pasquariello, professore di finanza all’Università del Michigan, sul Corriere Economia di lunedì scorso, afferma che “i mercati finanziari operano sulla base di una serie di immutabili (sic) principi (come le leggi della fisica), il più importante dei quali stabilisce che due identiche attività finanziarie debbano avere lo stesso prezzo, pena l’emergere di un’opportunità di arbitraggio che produce profitti senza rischio. E’ ragionevole aspettarsi che questo principio sia sempre soddisfatto (anche se non perfettamente) in mercati finanziari ben funzionanti. E’ dunque possibile misurare l’abilità dei mercati di operare correttamente esaminando i prezzi di azioni, obbligazioni e valute in termini relativi, anche in assenza di criteri condivisi di valutazione in termini assoluti. Ebbene, la ricerca accademica evidenzia che a causa delle sunnominate frizioni (NdA: imperfezioni, barriere e vincoli) questo basilare principio della finanza moderna viene spesso violato dai mercati, soprattutto durante periodi di stress ed elevata volatilità. In breve, la qualità dei mercati finanziari tende a deteriorare specialmente in corrispondenza di drammatici movimenti di prezzo, proprio quando governanti e investitori sembrano prestar loro la più grande attenzione.

Perché qualcosa suona stonato, in questa ineccepibile esposizione? E, soprattutto, perché? E ancora: perché se i mercati operano su una base di immutabili principi (come le leggi della fisica) a un certo punto la qualità viene meno? Sarebbe come domandarsi perché a 100 gradi l’acqua non bolla oppure a zero gradi non geli: cosa accade? L’articolo di Pasquariello si intitola “La saggezza (dubbia) dei mercati finanziari“: forse si dovrebbe ripartire da lì.

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Barack Obama Crisi finanziaria Mercato Rischi Risparmio e investimenti Strumenti finanziari USA

Vivere di benchmark e di automatismi.

Vivere di benchmark e di automatismi.

(..) L’ultima grande accusa è che le agenzie di rating sbagliano. Hanno valutato male i mutui subprime, ma anche Lehman Brothers o Parmalat. Vero. Però è anche vero che il crack dei mutui subprime americani non lo avevano previsto in molti. Le agenzie di rating hanno errato a valutarne l’affidabilità, ma anche tanti economisti o analisti si sono sbagliati. Idem per il crack di Parmalat: si trattava di una truffa, i bilanci erano falsi. Se però si vanno a prendere le statistiche ufficiali (fornite dalle stesse agenzie), si scopre che mediamente i casi di default sono coerenti con i rating assegnati. Se si escludono casi clamorosi, dunque, solitamente i rating sono abbastanza affidabili. Insomma: le “Triple A” vanno veramente molto meno in default delle “Singole A” o delle “B”. La verità, dunque, anche qui è forse un’altra. Le agenzie esprimono giudizi: come tali sono opinabili e soggetti a errore. Gli investitori dovrebbero prenderli come tali, piuttosto che basare le proprie scelte solo su queste pagelle. Piuttosto che vivere di benchmark e di automatismi, i gestori dei fondi dovrebbero ragionare con maggiore autonomia: così, forse, si eviterebbero anche isterismi sui mercati.

Morya Longo, Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2011

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Mercato USA

I mercati concorrono a creare il futuro.

I mercati concorrono a creare il futuro.

Io sono in totale disaccordo con la teoria generalmente accettata, secondo cui i mercati finanziari tendono sempre all’equilibrio e scontano il futuro in maniera corretta. Io ho un credo differente. I mercati – a mio avviso – non si limitano a scontare il futuro: concorrono nel crearlo. In certe circostanze, possono avere un effetto diretto sui cosiddetti fondamentali. Quando questo accade, i mercati entrano in uno stato di disequilibrio dinamico e iniziano a comportarsi in maniera difforme da ciò che viene considerato normale. Questi momenti non sono frequenti, ma quando si verificano i mercati possono diventare distruttivi: per il semplice motivo che possono influire sui fondamentali dell’economia.

George Soros

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Blitzkrieg (guerre éclair).

Blitzkrieg (guerre éclair).

Blitzkrieg

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Chiaroveggenza

Come afferma Eugene Fama, il massimo di efficienza informativa si concretizza nell’insider trading.

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Banche Crisi finanziaria Mercato Vigilanza bancaria

Creare mercati per i titoli illiquidi?

Donato Masciandaro, in un lucido e brillante articolo sul Sole 24 Ore del 24 novembre 2009, ritorna sull’argomento derivati, che tanti guai hanno combinato prima della grande crisi, proponendone la disciplina. In particolare Masciandaro propone di “trasformare insiemi diversi di transazioni bilaterali e opache in sistemi di scambi multilaterali e trasparenti”. Ciò ridurrebbe i rischi di crisi: ma, lamenta Masciandaro, finora non è successo nulla.

Forse sarebbe il caso di chiedersi perché, appunto, non accada nulla. Perché esistano, peraltro funzionando egregiamente, mercati regolamentati ed accentrati per opzioni e futures, che non hanno mai dato luogo a problemi. Ma, soprattutto, sarebbe il caso di chiedersi perché, nonostante l’apparente convenienza, nessuna banca si premuri di organizzare un simile mercato. Infine: siamo proprio sicuri che la creazione di mercati liquidi per strumenti molto rischiosi non possa ingenerare nuovamente la convinzione, che la crisi ha dimostrato essere pericolosissima, che c’è un mercato per qualunque security e, di conseguenza, c’è sempre qualcuno disposto a scambiarla?

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Banche Mercato

Corporate bond, festa infinita: per chi?

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Il Sole 24 Ore di oggi evidenzia, a firma Morya Longo, la situazione del mercato delle obbligazioni corporate, con scadenze per mille miliardi in cinque anni, oltre il 40% in più che negli anni passati.

Il mercato ha visto tassi di crescita elevatissimi in ragione sia della stretta creditizia attuata dalle banche, sia dalla necessità di investire la grande massa di liquidità immessa nei mercati durante la crisi. Non secondario, del resto, è stato il ruolo dei tassi di interesse, il cui livello è stato ed è tuttora certamente interessante ed appetibile per l’emittente. In sostanza, imprese (di grandi dimensioni, e solo quelle) bisognose di liquidità hanno facilmente incrociato le loro preferenze con quelle di investitori dotati di ingenti capitali da impiegare.

Il problema si pone, a quanto pare, per il coincidere delle scadenze dei bond corporate e delle obbligazioni emesse dalle banche, in una concentrazione temporale che potrebbe, così si paventa, risolversi in un certo numero di default. Il problema, evidenziato molto chiaramente dalla Longo, è sintetizzabile come segue: ”Il credito bancario è facilmente rinegoziabile, ma il prestito obbligazionario no: quando scade, scade.”

Ora, a prescindere dal fatto che il caso Parmalat insegna che numerose e successive emissioni possono sostituirsi le une alle altre rendendo possibile il rimborso stesso, i problemi che si pongono sono almeno di due tipi.

Il primo riguarda la qualità del credito, ovvero la capacità di rimborso degli emittenti. Cosa fa temere un default nell’arco del prossimi 5 anni? Perché dovrebbero aver avuto successo emissioni realizzate e collocate in un arco di tempo così prossimo alla crisi? Forse le società di rating non hanno lavorato bene (ancora una volta?) Se invece il problema fosse, come è facile che sia, che fra 4 o 5 anni i tassi si saranno innalzati, il problema delle prossime emissioni sarà rappresentato dal maggior costo per l’emittente, ma ciò non integra, di per se, le condizioni di default: semplicemente saranno variate le condizioni di mercato. E visto che tassi più elevati significano maggiore inflazione, ovvero anche maggiore sviluppo, c’è da augurarsi, in un certo senso, che questo accada davvero.

Il secondo problema lo ha descritto molto bene un anonimo operatore intervistato dalla Longo, il quale ha affermato che: ”Il mercato obbligazionario avrà sempre investitori e, in ogni caso, se mancassero, le banche garantirebbero un cuscinetto di liquidità”. Purtroppo è proprio lo svolgimento della grande crisi finanziaria degli ultimi due anni a smentire la sicurezza di questa affermazioni, poiché il processo di cartolarizzazione degli attivi (leggi subprime) si è bloccato, i default hanno prevalso sulla presunta garanzia di liquidità e si è inceppato persino il mercato interbancario. Forse sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsi non tanto dell’esistenza di un mercato secondario, ma delle condizioni alle quali si emette nel primario. Oppure non se ne può parlare per non disturbare grandi imprese, che si finanziano, e grandi banche, che guadagnano collocando?