Categorie
Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Unicredit

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).

Andrea Orcel, Ceo Unicredit Group spa.

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).
Il CEO di Unicredit, Orcel, ha presentato ieri, 9 dicembre, il piano industriale della banca da lui guidata, dove secondo Alessandro Graziani, de IlSole24Ore, “archivia l’era del derisking, e torna a puntare sulla crescita delle attività, anche in Italia”.
Naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, si parla anche di redditività sostenibile, di mantenimento di solidi ratios patrimoniali, di rischio ragionato. Per il resto, molto in sintesi, il piano parla di un aumento dei ricavi da commissioni (difficile non chiedersi fino a quando la clientela sarà disposta ad accettare aumenti indiscriminati senza cominciare a guardarsi in giro e chiedere a qualche banca on line o simili tariffari più concorrenziali) ma anche di un aumento del volume dei crediti che, tuttavia, privilegerà il consumer finance al fine di non fare crescere l’RWA.
Insomma, “Pedro, adelante con juicio”, come fa dire il Manzoni al cocchiere spagnolo del Cancelliere.
Il piano è stato festeggiato dalla Borsa, anche perché annuncia un aumento di oltre il 30% della remunerazione da assegnare agli azionisti, tra buy-back e dividendi, anche se, a detta del cronista, il vero punto forte sarebbe la digitalizzazione, con la creazione di due fabbriche prodotto centralizzate (Corporate e Individual solutions) e la realizzazione di ampie economie di scala.
Unicredit resta fedele alla sua vocazione, quella di grande banca di transazione: non è mai stata una banca di relazione, con il piano industriale presentato ieri, coerentemente con quanto realizzato dai predecessori, punta alla creazione di valore, tentando di volta in volta di cavalcare l’onda migliore (allora, con Profumo, fu la crescita in Europa per linee esterne, con Jean Pierre Mustier quella di vendere i gioielli di famiglia e fare cassa etc…).
La lettura del piano industriale e il senso nemmeno troppo sottile che lo pervade, tuttavia, non possono lasciare indifferenti perché, come spesso ci è capitato di ripetere, nel rapporto banca-impresa occorre scegliere e farsi scegliere, perché ogni impresa è diversa dalle altre e perché le banche non sono fornitrici indifferenziate di denaro, come una facile pubblicistica e certo ceto professionale e imprenditoriale vorrebbero fare credere.
Peraltro, l’annuncio di un simile piano non può lasciare indifferenti i principali competitors di Unicredit, che pure, a parte Intesa, hanno i loro problemi organizzativi e dimensionali da risolvere; in altre parole, il piano industriale di Unicredit preannuncia una battaglia concorrenziale giocata sul digitale, la riorganizzazione dei processi, il puntare a prodotti standardizzati e facilmente collocabili sul mercato. Nulla che possa far piacere a Pmi e micro-imprese, alle quali, in questo momento, dice davvero tutto male, con l’eccezione, forse, dei fondi del PNRR, per chi saprà andarseli a prendere con piani finanziari seri e credibili.
Ma, come abbiamo potuto constatare nel corso di una lunga e approfondita tavola rotonda di presentazione del C.E.R.R.I. (Collegio degli Esperti per la Ripresa e il Rilancio delle Imprese) avvenuta ieri e alla quale ho avuto l’onore di partecipare, c’è ancora molta strada da fare, soprattutto da parte delle imprese -e, per conto mio, anche di molte banche che ancora discutono se sia accettabile un DSCR inferiore (sic) a 1- sulla strada di una vera relazione di clientela improntata alla partnership e perciò fondata sulla comunicazione finanziaria.
C’è da lavorare, occorre scegliere e farsi scegliere e con motivazioni approfondite.
Ovvero: è meglio una vera banca di transazione che una finta banca di relazione.

Categorie
Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Unicredit

Più rischi, meno (!) accantonamenti (versare acqua nella sabbia).

Più rischi, meno (!) accantonamenti (versare acqua nella sabbia).
Sul Sole 24 Ore di oggi si legge, riguardo al Fondo Pmi, che “le nuove regole liberano 1,8 miliardi“.

Intanto, per la verità, ci viene detto che il Fondo farà meno accantonamenti, spiegabili solo con la necessità di poter disporre di maggiori risorse, non certo in funzione della diminuzione del rischio. Leggiamo infatti che “il Consiglio di gestione del Fondo di garanzia Pmi ha approvato la riduzione delle percentuali di accantonamento a titolo di coefficiente di rischio sui prestiti garantiti, al 100%, fino a 30mila euro. Un’operazione che consentirà di recuperare 1,8 miliardi rimandando di qualche settimana l’esaurimento dei fondi. Tutto questo in attesa che l’Economia, come preannunciato dal ministro Roberto Gualtieri, intervenga per stanziare nuove risorse. La stima di 1,8 miliardi di minori accantonamenti include l’applicazione delle nuove percentuali sia alle future garanzie da concedere sia alle operazioni finora già garantite. Fino alla seduta di ieri del Consiglio di gestione, per i mini-prestiti garantiti al 100% il Fondo accantonava il 30,2%, una percentuale molto elevata rispetto all’ordinaria amministrazione dello strumento e dovuta al profilo di rischiosità dei beneficiari.”

Il che significa che quando qualche grande banca, e absit iniuria verbis,  tutti sanno qual è la mia “prediletta”, decide di non partecipare per nulla alla gara al finanziamento delle Pmi, spiegando che il Fondo ha già finito o finirà a brevissimo i soldi, al di là dell’atteggiamento, insindacabile per carità, verso le imprese,  forse non ha tutti i torti.

Purtroppo ancora più illuminante è la statistica diffusa dal Fondo e riguardante la platea dei beneficiari dei prestiti garantiti. Leggiamo infatti che, quanto alle “caratteristiche dei beneficiari dei prestiti garantiti al 100%, partiti con un tetto a 25mila euro che poi in sede di conversione in legge del Dl liquidità è stato innalzato a 30mila euro, oltre il 99% delle imprese beneficiarie è costituito da società di capitali e di persone e da imprese individuali, lo 0,6% da professionisti o persone fisiche e lo 0,04% da studi professionali. Prevalgono le micro imprese (88,6%), seguite dalle piccole (10,3%) e medie (1,1%). Il 50,1% delle imprese è localizzato al Nord, il 23% al Centro e il 26,6% al Sud. Il settore con la quota maggiore di beneficiari è il commercio al dettaglio (16,6%), cui seguono i servizi di ristorazione (12,7%), le costruzioni specializzate (8,8%) e il commercio all’ingrosso (8,3%).”

La lista di cui sopra è tristemente caratterizzata da un unico, uniforme, connotato: sono i settori più tradizionali, meno innovativi e maggiormente investiti dalla digitalizzazione del nostro sistema economico. Qualche anno fa l’ISTAT aveva anche stimato che fossero i settori meno propensi agli investimenti. Sono i settori dei quali si stanno finanziando le perdite, ovvero il peggiore dei fabbisogni finanziari possibili: e, statene certi, senza neppure avere visto un simulacro di business plan, di progetto di rilancio. Come versare acqua nella sabbia.

Categorie
Banca d'Italia Banche BCE Unicredit Vigilanza bancaria

Cara, posso spiegarti tutto.

Cara, posso spiegarti tutto.

Roy Lichtenstein, Crying girl

Giovedì o venerdì si terrà l’incontro informativo convocato da Ccb con i vertici delle circa 80 Bcc che fanno parte del gruppo. L’appuntamento è molto atteso, perchè il sistema vuole capire il senso dell’operazione voluta dai vertici della capogruppo. Secondo quanto emerso sinora l’ingresso in Carige sarebbe considerato come un’opportunità per lo sviluppo sul fronte informatico e del risparmio gestito, oltre alla presenza territoriale. Un approccio di questo tipo – considerata anche l’opzione a salire nel capitale di Carige – lascia presupporre che l’obiettivo di Ccb sia, nel tempo e al verificarsi delle condizioni, quello di assumere una posizione di controllo della banca genovese investendo, tra equity e bond subordinato, un importo non lontano da 600 milioni. Se questo scenario si concretizzasse, un gruppo bancario che fa perno sul credito mutualistico senza fine di lucro e basato sulle garanzie incrociate per garantire i requisiti patrimoniali, che assieme conta 1.500 sportelli, diventerebbe socio di riferimento di una spa con 500 sportelli sul territorio. Un passo molto lungo da spiegare al management delle 80 Bcc affiliate. Altro aspetto sul quale è concentrata è il prezzo al quale verrà fissato l’aumento di capitale da 700 milioni.”

Così Luca Davi e Laura Serafini sul Sole 24 Ore di ieri, 30 luglio. Non ho idea del piano strategico che ci sia dietro tutto questo, né che cosa Cassa Centrale Banca abbia in mente di fare nel concreto, bancassicurazione, risparmio gestito o cosa: il buonsenso mi dice che un Gruppo che vuole crescere, anche in vista di possibili-probabili future aggregazioni, mette in conto nel frattempo di digerire operazioni che sono comunque importanti (a occhio e croce, un terzo della propria dimensione, se gli sportelli sono una buona proxy) e che in prospettiva sarebbe superficiale trascurare. Ora, quando l’Unicredit di Alessandro Profumo cresceva per linee esterne a suon di acquisizioni, nessuno ha mai messo in discussione quelle scelte, tantomeno in base a criteri morali. Giudizi morali o valoriali, mai ascoltati. E invece adesso qualcuno devespiegare al management di 80 banche affiliate” perché una banca che ha come riferimento il credito mutualistico fa un’operazione di questo tipo.

Paradossalmente, si intravvede del moralismo proprio in giudizi di questo tipo, che evidentemente non si nutrono di simpatia nei confronti della cooperazione di credito: simpatia che, peraltro, il sottoscritto non ha mai nascosto. Ma non serve la simpatia per rammentare che nella cooperazione il profitto è prima di tutto un vincolo, poi un mezzo e comunque non un fine, e che la riforma delle Bcc era finalizzata a rafforzarle anche attraverso una capogruppo in grado di raccogliere capitali freschi, che dovrebbero pur essere remunerati. O no?

Categorie
Banca d'Italia Banche Unicredit

Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Ricevo dall’ottimo Fabio Pavesi, un grande giornalista oltre che un amico, con il quale abbiamo condiviso l’interesse per il caso Mariella Burani Fashion Group, l’articolo apparso sul Fatto Economico nella giornata di ieri, 24 luglio. Pavesi parla di “cura” Mustier per Unicredit, rammentando i due ultimi esercizi in utile che hanno ristorato azionisti “stremati” (ma che quando le cose andavano bene passavano alla cassa senza battere ciglio), come una cura, cioè un piano industriale, basato solo sulla riduzione del personale. D’altra parte se l’unica politica che hai attuato in tutti questi anni è stata vendere i gioielli di famiglia, da Pekao Bank a Pioneer fino all’ultima, Fineco Bank, e facendo cassa hai rafforzato patrimonialmente la banca, se latitano i ricavi devi ridurre i costi. e gli unici costi, in una banca che ha già chiuso centinaia di filiali (per i non riminesi: venite farvi un giro in centro a vedere la ex sede centrale di Unicredit a Rimini, desolatamente vuota da almeno due anni, immobile sfitto e amenità simili…) sono rappresentati dal personale.

Il ragionamento, sotto il profilo gestionale, non fa una grinza, salvo essere il mantra che spesso il banchiere medesimo ripete all’imprenditore, ovvero che si devono tagliare i costi ma che non basta tagliare i costi, occorre avere riguardo ai ricavi e alla redditività. Proprio perché non fa una grinza, si inceppa al momento di immaginare un percorso di sviluppo e di ripresa della redditività: Pavesi, nel caso specifico, ipotizza una soluzione finanziaria, con Unicredit al centro di una maxi fusione europea con Commerzbank etc…, poiché Mustier viene dalla finanza e questo è un imprinting indelebile. Ma mentre Unicredit pensa a licenziare, intorno cresce il fintech, e non solo per Unicredit. Ovvero, dum Rome consulitur Saguntum expugnatur: le banche stanno perdendo il lavoro più redditizio (anche se adesso molto meno) e facile che abbiano mai fatto, l’anticipo fatture e la gestione del cosiddetto autoliquidante. E dopo aver deciso di vendere i mutui di qualcun altro e le assicurazioni fabbricate altrove, continuano a latitare nelle proposte per le imprese, soprattutto PMI. Per questo continuo a pensare che, sebbene forzata da una riforma voluta dal legislatore, la scelta delle Bcc/CRA riunite sotto l’egida di ICCREA e di Cassa Centrale Banca dall’altra possa diventare vincente: perché l’economia ha certamente bisogno della finanza, ma non di qualunque finanza.

Categorie
Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria Indebitamento delle imprese PMI Unicredit

Da dove cominciamo?

Da dove cominciamo?

federico_ghizzoniCi sono due domande che mi sento rivolgere quasi ogni volta che mi capita di parlare in banca di credito deteriorato. La prima è praticamente automatica ed arriva dopo avere detto che occorre porre mano alle posizioni incancrenite, quasi sempre appartenenti a “clienti storici”, “nominativi sperimentati”, “gran lavoratori”, “ottima moralità”: come facciamo a dirglielo? Risposta: in italiano.

La seconda domanda, che segue lo sconcerto nell’apprendere che la lingua italiana è ricca di espressioni per dire ad un cliente insolvente che deve rientrare è, invece: da dove cominciamo? Anche oggi ho risposto con un’ovvietà: dai peggiori. D’altra parte, persino un’idiota capirebbe che mettere a rientro i migliori non è cosa, così come non funziona, nel dubbio, il lasciare tutto com’è. Soprattutto nelle piccole banche, dove il localismo viene troppo spesso scambiato per assistenzialismo, è naturale che non ci si decida, in particolare se si è sempre deciso di non decidere, ma le regole di Basilea 3 e le ispezioni di Bankitalia urgono, dunque si deve scegliere. Sul tema sarà opportuno ritornare, perché il ruolo delle banche come “agenti della contabilità sociale” di schumpeteriana memoria non può essere troppo a lungo tralasciato: diversamente sarebbero vuota retorica le frequenti invocazioni al mercato proprie di tanti che, tuttavia, al momento di staccare la spina si distinguono per doti insospettabili di misericordia economica.

Tant’è. Ma quanto comunicato da Unicredit, i cui conti sono stati affossati da accantonamenti per 13,7 miliardi (+46,8 miliardi su base annua) dimostra due cose, ovvero a)-che si può fare pulizia nei conti: b)-che dai conti ripuliti si può ripartire per generare reddito, perlomeno nelle intenzioni. Riporta Il Sole 24Ore che “per quanto riguarda il Piano Strategico 2013-18, che prevede un utile netto di 2 mld nel 2014 e di 6,6 mld a fine periodo, questo «è basato su fondamentali solidi, una forte cultura del rischio e uno scenario macro-economico in miglioramento» ha sottolineato Ghizzoni.”
C’è, soprattutto, una componente fortissima di riduzione dei costi del personale nel piano strategico di Unicredit, e questo non può essere dimenticato (nemmeno dalle imprese alla ricerca di una banca di “relazione”: non si fanno relazioni senza il personale); al contempo, intervenire sui costi operativi e sulla famigerata voce 130 del conto economico delle banche libera patrimonio ed aiuta il reddito solo se tali azioni sono accompagnate dalla volontà di sostenere le imprese, attraverso quella “forte cultura del rischio” menzionata da Ghizzoni. La sfida raccolta da Unicredit, in anticipo su molti concorrenti, consiste allora nel sapere gestire le relazioni con meno personale ma più preparato, più attento al rapporto con il cliente e maggiormente in grado, almeno sperabilmente, di valutarne correttamente il fabbisogno finanziario. Se Unicredit non tornerà a vendere derivati, come ai tempi di Profumo, la sfida lanciata con la pulizia dei conti ed i progetti per il dopo riguarda non solo le altre banche, ma tutto il sistema delle imprese, chiamato a scegliere e a farsi scegliere da finanziatori inevitabilmente più selettivi: nella consapevolezza che l’asticella, rispetto al passato, è molto, molto più in alto.

Categorie
Banche BCE Indebitamento delle imprese Liquidità PMI Unicredit

Dove sono finiti i 115 miliardi della BCE?

Dove sono finiti i 115 miliardi della BCE?

Poiché bisogna avere qualcosa da dire, in tempi in cui la politica dimostra di avere fallito e di non avere alcun progetto, il PDL, non pago di avere farfugliato scempiaggini su Cortina, si chiede dove siano finiti i soldi della BCE, sui quali le banche starebbero facendo lauti guadagni, non affidandoli alle Pmi, ma investendoli in qualcos’altro; oppure ancora, che cosa si pensi di fare riguardo a Unicredit.

Parlare male di Unicredit (per qualche buontempone, Unidebit) è come sparare sulla Croce Rossa, dopo un po’ ti stanchi, troppo facile. Varrebbe la pena magari ricordare che quando c’era da salvare Mediaset fu il Banco di Roma di Geronzi a farlo, prima di essere fusa in Unicredit. E che Unicredit stessa, oltre ai propri scheletri nell’armadio (Burani) ha ereditato anche quelli dell’ex-presidente di Generali (su tutte, non solo per l’importo, la Roma a.s.).

Quanto alle banche, forse sarebbe il caso di cominciare ad essere chiari e dire le cose brutalmente come stanno. Le banche hanno finito i soldi, sono inchiodate. Punto. Le grandi banche per avere fatto dell’azzardo morale la loro regola di condotta, quando c’era da creare valore per gli azionisti, a qualunque costo (compreso il famoso unico posto di lavoro, la segretaria, creato dalla Tassara di Zaleski), con grandi operazioni e grandi debitori. Le piccole banche per avere fatto più di quano dovevano, finanziando ultra vires le Pmi razionate dalle grandi (ma Alice-in-wonderland-Lupi and his-brother-Tremonti se ne accorsero solo due anni fa, l’uno ripetendo al Meeting di Rimini quello che l’altro aveva già cominciato a dire) e per avere partecipato anch’esse a finanziare la bolla immobiliare.

Quindi, che fine fanno i quattrini della BCE? Non servono ad investire in titoli di Stato, cosa che nessun banchiere assennato farebbe in questo momento, con il rischio di trovarsi minusvalenze in bilanci già precari; non servono per dare quattrini alle imprese perché le imprese sono inchiodate e non li restituirebbero, perché sono troppo indebitate e sottocapitalizzate (e comunque vorremmo ricordare al buon Lupi che se aumenta il costo della raccolta, ed è aumentato grazie allo spread ed alla fiducia dei mercati nel suo Presidente, non si possono prestare quattrini in perdita).

Servono ad una sola cosa (evidente, d’altra parte, visto l’ammontare dei depositi presso la BCE stessa, liquidissimi ma scarsissimamente redditizi): a dare alle banche quel minimo di liquidità che serve per evitare la corsa agli sportelli.

In attesa che le Fondazioni ricapitalizzino (lo so, è fantascienza, ma i soci sono loro, mica i professori universitari) è l’unica fine che faranno quei quattrini. Lupi e Cicchitto hanno idee migliori?

Categorie
Banche BCE Borsa Liquidità Unicredit

A cosa serve ricapitalizzare le banche 2 (la vendetta).

A cosa serve ricapitalizzare le banche 2 (la vendetta).

 

 

 

 

 

 

 

Un articolo puntuto di Nicola Porro torna a parlare di Unicredit, della sua perdita di valore in Borsa, della burocrazia eurobancaria che costringe le banche a ricapitalizzare. Non senza la triste constatazione che i soci di Unicredit, poverini, non hanno più denari per ricapitalizzare (per chi avesse bisogno di ripassare chi siano questi derelitti, probabilmente ora in coda alla mensa dei poveri -ma qui a Rimini dai Frati di Santo Spirito non li ho ancora visti- sappia che sono le varie fondazioni bancarie, fra cui quella del vice-presidente Palenzona).

Proviamo a fare un po’ d’ordine, come se fosse la prima lezione del corso di Economia delle aziende di credito, quello che parte fra un mese.

Primo ed elementare: le banche sono tali perché raccolgono denaro presso il pubblico dei depositanti, poi, e solo poi, lo impiegano presso famiglie, imprese etc…E’ nata prima la gallina della raccolta, poi quella degli impieghi.

Secondo, e meno elementare: le banche raccolgono su base fiduciaria denaro del popolo, attività costituzionalmente protetta e garantita. Devono essere regolate e controllate, altrimenti farebbero i pederasti con le terga altrui, come ci ha insegnato il grande ed indimenticato Stefano Ricucci. In altre parole, sarebbe fin troppo facile espandere all’infinito la raccolta per poi rischiarla senza vincoli, tanto i capitali sono di qualcuno che neppure è in grado di controllare.

Terzo (in collaborazione con il corso di Economia degli intermediari finanziaria: sempre io, nella nostra Università piccina picciò): quanto sopra si chiama moral hazard o comportamento opportunistico ed è proprio per evitarlo che alle banche viene richiesto il capitale proprio, al quale commisurare i rischi assunti. Abbastanza elementare, neppure al casinò il banco ti presta soldi se prima non hai dimostrato di averne dei tuoi da spendere.

Quarto, meno elementare: le banche, Unicredit in testa, hanno dimostrato di non sapere commisurare i rischi alla sostenibilità del business. L’espansione ad est di Unicredit, avvenuta a prezzi da capogiro (e potremmo parlare delle follie idiote fatte da MontePaschi per comprare Antonveneta, per poi ri-svenderne gli sportelli causa antitrust) è figlia delle manie di grandezza degli amministratori delegati e della mania di Fazio per la creazione dei campioni nazionali. Che sia avvenuta senza risorse vere, è testimoniato dal livello davvero ridicolo del Tier 1 ratio rilevato nel 2008, subito dopo lo scoppio della bolla dei subprime, per Unicredit e per tutte le altre banche principali del sistema.

Quinto: in tutto questo l’euroburocrazia contro cui il giornalista di Libero si scaglia non c’entra nulla. Invocare, come fanno in molti, il fatto che le banche italiane non abbiano fatto speculazione, perché sono sul territorio e lavorano con le Pmi, significa dimenticare quello che Fabio Bolognini ha ottimamente spiegato sul suo blog, ovvero che fin troppi soldi sono stati dati per operazioni avventate (San Raffaele, ma non solo), per non parlare del sostegno immorale dato alla speculazione edilizia ed alla bolla immobiliare in tutta Italia, isole comprese. Il capitale ci vuole: se non ci fosse nemmeno quello, ai depositanti cosa daremmo quando vengono a ritirare i loro quattrini, delle piastrelle? Un po’ di cemento pozzolanico? Quote di multiproprietà immobiliare?

Sesto (ed ultimo, perché mi sono un po’ stancato e poi stasera finalmente si torna allo stadio a vedere una partita e quindi poi vado via): le Fondazioni sono squattrinate perché sono organismi autoreferenziali e politici che non rispondono a nessuno di quello che fanno. Se non hanno soldi, forse si dovrebbe chiedere loro che hanno fatto della passata ricchezza; e come hanno vigilato sugli amministratori di quelle banche che, Unicredit in testa, finché portavano dividendi, non erano neppure da criticare. Ora si lamentano di dover ricapitalizzare, oppure direttamente lo evitano. Ma, una fettina di sincerità? Un pizzico di ipocrisia in meno?

Categorie
Banche Bolla immobiliare Liquidità Ripresa Unicredit Vigilanza bancaria

A cosa serve aumentare il capitale delle banche.

A cosa serve aumentare il capitale delle banche.

La notizia della ricapitalizzazione di Unicredit, garantita dall’integrale sottoscrizione a cura di un consorzio di banche ha suscitato un po’ di domande maliziose: qualcuno si è chiesto perché così tante banche e qualcun altro si è chiesto cosa sarebbe Unicredit se si chiamasse “Einkredit” ed avesse sede nella Renania-Palatinato. E’ più interessante, probabilmente, anche sulla scorta del riaccendersi del dibattito sul rapporto banca-impresa (che a quanto pare è destinato a nutrire il sottoscritto finché morte non ci separi) provare a capire a cosa serve ricapitalizzare le banche.

Come direbbe qualcuno, questo blog è sempre stato molto realista, nel senso “monarchico” della parola: non abbiamo mai nascosto le simpatie per la Vigilanza e per il compito della Banca d’Italia. E riteniamo che la capitalizzazione sia, anzitutto, un incentivo ad evitare l’azzardo morale, i comportamenti opportunistici di coloro che rischiano solo i soldi degli altri. Da più parti si sono levate voci contro Basilea 3, le cui nuove regole, più stringenti quanto a requisiti di capitale, provocherebbero -anzi, stanno già provocando- un bel credit crunch in tutti i Paesi che le applicano. Nessuno di costoro ha indicato alternative, salvo perorare l’ovvia richiesta di stampare moneta, che se evita che la febbre divenga maligna o mortale, tuttavia non elimina la malattia. La malattia sono i crediti di cattiva qualità, gli impieghi nell’edilizia, le operazioni speculative, i titoli tossici: la malattia sono gli attivi illiquidi. Replica, facile facile: proprio per questo occorre che ci sia una Banca centrale che stampi moneta, la BCE non può farlo, questo, più Basilea 3 etc..provocherà la rovina delle Pmi e del sistema produttivo. Controreplica: c’è uno ed un solo soggetto al quale, in ultima istanza, va rivolta la massima protezione nel decidere che fare, ed è il risparmiatore. Gli attivi illiquidi o eccessivamente rischiosi danneggiano i risparmiatori, che corrono il rischio di non vedersi rimborsati depositi, una volta che si presentino allo sportello.

Questo è il problema, perché ove venisse meno la fiducia nel sistema bancario avverrebbe qualcosa di molto simile ad un infarto nel corpo umano: questo non si può permettere. Quando c’è l’incendio, non si cerca di salvare un quadro o una foto, anche se importanti o molto cari, si corre a spegnere tutto, il prima possibile, per evitare che tutto bruci.

A cosa servono allora gli aumenti di capitale nelle banche, oltre a fare arrabbiare le Borse e fare cadere ulteriormente Unicredit? Si illude chi pensa che debbano servire per dare nuovo credito all’economia, per finanziare i settori che soffrono di più, magari l’edilizia, che andrebbe ridimensionata in prezzi e volumi (e pazienza se i detentori di attività nel settore patiranno qualche perdita, meglio queste liquide che guadagni virtuali e illiquidi). Gli aumenti di capitale nelle banche, soprattutto in questo momento, servono solo ad evitare rischi di liquidità, ad innalzare l’asfittico LCR (liquidity coverage ratio, il rapporto fra attività prontamente liquidabili e fabbisogni per pagamenti e deflussi di cassa a un mese) oltre il minimo sindacale, a garantire i depositanti. Non ad altro. Non avrebbe senso finanziare imprese il cui circolante non circola o che stanno perdendo, perché queste imprese, almeno dal 2007, avrebbero dovuto essere ricapitalizzate. E se non lo vogliono fare i titolari, non è giusto che lo facciano le banche con i soldi dei risparmiatori.

Categorie
Banche Unicredit

Quaranta milioni garantiti.

Quaranta milioni garantiti.

Radiocor – L’ex amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha una clausola di manleva per gli atti compiuti durante la sua gestione della banca. Nel firmare le carte del suo addio dal’istituto di piazza Cordusio, secondo quanto risulta a Radiocor, e’ stato dato atto e poi scritto che Profumo ha operato correttamente. La manleva copre tutto il suo operato. Appare quindi difficile che i malumori registrati tra alcuni consiglieri delle varie fondazioni azioniste della banca possano poi sfociare in un’azione di responsabilita’, considerato inoltre che gli atti di Profumo sono stati proposti e approvati dal cda e dalle assemblee della banca, come prevede lo statuto.

Commenti sobri e pacati sulla vicenda imporrebbero di non aggiungere altro a quanto scritto da Radiocor, se non lo splendido commento di Dagospia. Tuttavia, del tutto incidentalmente, giova ricordare che Unicredit ha presentato una semestrale con soli 10,5 miliardi di euro di perdita; che Profumo è banchiere di sincera fede democratica, già McKinsey e, obviously, bocconiano.

Categorie
Alessandro Berti Banche Unicredit

Fondazioni e banche (ovvero del perché su Carim non ci si può chiamare fuori).

Fondazioni e banche (ovvero del perché su Carim non ci si può chiamare fuori).

Incontro su Crisi e destino, due sere fa, qui a Rimini. Di quanto detto nell’incontro si darà conto a parte, avevo preparato un intervento, ma le cose sono state proposte in termine di risposte a domande: e probabilmente la gente si è annoiata di meno (chi è venuto ritroverà solo in parte quello che ho detto).

Anyway, prima dell’incontro, vengo avvicinato da un amico della Fondazione Carim, che sostiene “l’ingiusto ed ingeneroso giudizio” sulla Fondazione stessa, come emerso dall’intervista alla Voce di Rimini. In sostanza, i geniali amministratori ed i dirigenti che hanno condotto al commissariamento non sono frutto dell’attuale maggioranza che governa in Fondazione, ma di quella preesistente. La nuova non c’entra. E’ difficile poter condividere un simile ragionamento, che oltretutto fa torto all’intelligenza dei cosiddetti “nuovi”: ai quali evidentemente stava bene la scelta degli uomini fatta dalla precedente espressione dell’azionista di maggioranza e che nulla hanno fatto per modificare anche in minima parte gli indirizzi assunti. Profumo, che pure aveva dato (nel senso letterale della parola: aveva erogato robusti dividendi) è stato defenestrato, non ci sarebbe stato nulla di male se fosse accaduto qualcosa di simile anche a Rimini. In tempi non lontanissimi, nella vicina Ancona, l’azionista di maggioranza Popolare di Bergamo revocò l’intero CdA, evidentemente un po’ troppo autoreferenziale, si poteva fare lo stesso anche qua.

La sensazione è che la Fondazione abbia pensato alla Banca come ad una sorta di bancomat, di erogatore sempre carico, di macchina bancaria perfettamente funzionante, nel solco del comportamento delle altre fondazioni italiane maggiori, quelle che governano in Unicredit, per esempio. Senza preoccuparsi, però, di come nascessero i dividendi, di cosa ci fosse dietro al margine di intermediazione, quale fosse, in definitiva, la “formula di intermediazione” di una banca troppo grande per essere autenticamente locale e troppo piccola per fregiarsi del titolo di banca regionale o di gruppo bancario. La grandezza non è, infatti, solo nella dimensione, ma nel modo con cui la si raggiunge, nella qualità del lavoro svolto. E se parliamo di una banca locale, nel saper tenere fede alle origini, quelle che la Banca sembra aver smarrito: e, con essa, anche la Fondazione.