Giunge notizia della revoca, da parte di Banca d’Italia, dell’iscrizione all’albo degli intermediari NON vigilati della Zopa spa, protagonista del fenomeno del social lending, ovvero della ricerca di un intermediazione sociale, che eviti i costi delle banche avide, ricche e cattive a scapito del popolo buono. Ovviamente sui vari siti del politically correct è corsa alla deplorazione ed all’improperio, perchè il potere, cattivo ed illiberale, ha fermato uno slancio vitale della “ggente”.
A qualcuno piace dimenticare -a proposito, siamo in attesa di qualche dichiarazione di Beppe Grillo- che proprio per assenza di vigilanza si sono verificati i fenomeni Cirio, Parmalat e, per chi ha memoria, quelli originati negli anni ’80 attraverso la diffusione dei titoli atipici.
Fondare una banca, checchè ne dicesse Bertolt Brecht, non è e non può essere uno scherzo o un gioco da ragazzi: persino per offrire le convenientissime condizioni del conto arancio di ING, occorre possedere una banca. Che ha meno costi, perchè non ha sportelli, ma raccoglie denaro presso il pubblico, ed il risparmio è tutelato addirittura nella Carta Costituzionale.
Il fenomeno del social lending è certamente positivo: ma le regole valgono per tutti, i rischi di truffe, diversamente, sarebbero troppo alti.
Asfissia finanziaria
Il Presidente della Consob, Lamberto Cardia, ha affermato che solo le imprese più grandi riescono a reperire «sul mercato capitale proprio e a collocare prestiti obbligazionari senza gravi difficoltà né a costi da considerare eccessivi», mentre gran parte delle imprese medio-piccole «trova difficoltà e potrebbe correre rischi di asfissia finanziaria».
Non è certamente una novità: basterebbe scorrere i dati della Centrale dei Rischi della Banca d’Italia per evidenziare una realtà di fatto, ovvero che le grandi imprese hanno molti finanziatori e ampli margini disponibili sui fidi accordati, mentre le piccole e medie imprese vedono ridursi il numero delle banche affidanti e tendere all’unità il rapporto utilizzato/accordato.
Il problema della raccolta di capitali, impostato in questi termini, sembra esclusivamente un problema di offerta: ci sono “venditori” di denaro ed investitori per le grandi imprese, non ci sono, purtroppo, per le Pmi.
Al contrario, a nostro parere, il problema, soprattutto in Italia, è anche di domanda: siamo davvero certi che il nostro capitalismo straccione e familiare abbia voglia di aprirsi ai capitali di nuovi investitori, rendendo conto in maniera trasparente della propria gestione?
Per chiedere capitali si deve offrire trasparenza informativa, progettualità chiaramente espressa in business plan e strategie di sviluppo condivise e condivisibili: non esattamente quello che tante Pmi italiane manifestano.
Non è certamente in discussione, in questo momento, lo stato di difficoltà di tante piccole e medie imprese del nostro Paese: ma è difficile immaginare che un mercato dei capitali, al quale le grandi imprese per prime ricorrono non per finanziare lo sviluppo, ma per fare cassa all’interno dei noccioli e nocciolini, più o meno duri, degli azionisti di comando, questo mercato possa risolvere i problemi delle Pmi. Proprio oggi il Corriere Economia riporta che negli ultimi tempi, nella Borsa Italiana si è parlato, più che di nuove quotazioni e di IPO, di de-listing.
Qualche riflessione sui temi, che ci sono certamente cari, del rapporto banca-impresa e dell’equilibrio economico-finanziario di queste ultime, specie se Pmi, si impone: perchè diversamente potremmo cominciare a pensare che la crisi del nostro sistema produttivo sia colpa delle banche e della finanza.
Mentre non si può più ignorare che la buona finanza non fa la buona impresa: e che l’equilibrio finanziario dipende anzitutto dall’equilibrio economico. E se avere banche disposte a finanziare l’impresa è importante, ancora più importante è che queste stesse imprese siano in grado di restituire i denari ricevuti.
Un sorprendente articolo su “Il Sole 24Ore” di oggi ci spiega, a firma di Fabio Tamburini, che il modello Unicredit avrebbe bisogno di un tagliando. Sorprendente non è tanto il tema, quanto il taglio dell’articolo, ovvero non importa che tipo di banca si stia portando avanti, se essa serva allo sviluppo e ad assistere le scelte dei risparmiatori oppure a “creare valore per l’azionista”. No, quello che conta è “il modello organizzativo”. Sarebbe, appunto, come se l’Apollo 13 avesse chiamato la base in Texas della Nasa per comunicare che non avevano con sè abbastanza popcorn e videogiochi per passare il tempo prima di perdersi nello spazio infinito.
E’ trastullandoci con questi problemi, e solo con questi problemi, che in tutti questi anni siamo andati avanti ignorando (Il Sole 24Ore non fa eccezione, Unicredit essendo un eccellente inserzionista) che fare banca non è neutrale. Ed il modello della creazione di valore è talmente vuoto, che può essere riempito, appunto, di qualunque cosa.
Alleluja!
Perchè finalmente qualcuno ci consente di capire, con una chiarezza che da economista vorrei possedere -anche solo per una frazione minima- che il problema non sono le regole.
Perchè le regole devono fare i conti con il peccato originale: pare che ce l’abbiamo tutti addosso, anche gli americani, anche i giornalisti di Repubblica, i banchieri, i cittadini, tutti. E B-XVI ce lo ricorda.
Perchè Papa Ratzinger rimette al centro della questione non l’etica astratta, ma la persona e l’io, che scelgono e decidono liberamente.
Perchè finalmente possiamo parlare di etica liberi dall’opprimente sensazione di trovarci a Ginevra, con la teocrazia calvinista che ci governa.
E, infine, perchè la responsabilità funziona solo se si è consapevoli che dobbiamo impegnarci fino in fondo in tutto, ma gli esiti non ci appartengono: anche nella finanza.
Mi ha colpito, diciamo che non me lo aspettavo (ma la colpa è mia: sono un ingenuo 51enne), la notizia riportata dal Foglio di sabato scorso, circa l’apertura di un sito della Bocconi incentrato sui temi della finanza etica.
Mi colpisce sia la contestualità con la condanna a vita per Madoff, sia la totale e posticcia estemporaneità dell’iniziativa, ben descritta, peraltro, dall’autore dell’articolo.
Finanza etica: e chi decide quali siano i valori per i quali si può investire?
Quanto moralismo sorreggerà la scelta (già letta nel bilancio sociale di una grande banca progressista, che ha richiesto i Tremonti Bond) di finanziare chi produce paracadute per l’uso sportivo e lasciare a secco chi li vende all’esercito italiano? Quando Massimo D’Alema approvò i bombardamenti del Kossovo ci sono stati finanziamenti? E qualcuno si è pentito?
Che la questione etica non si risolva con le regole è evidente proprio negli USA, dove le regole ci sono, sono severissime ed applicate seriamente: e dove, come nel caso nella pena di morte, si continua ugualmente a commettere crimini, nonostante, appunto, le pene.
Forse sarebbe il caso di cominciare a parlare di cultura finanziaria e di educazione: ovvero di qualcosa che manca, drammaticamente, nella scuola e nelle università italiane. E che manca, soprattutto, nell’esperienza di molti.
150 anni di galera
Se qualcuno se lo fosse dimenticato, questo signore, che ha truffato una cifra che non sta nella calcolatrice, è riuscito a truffare anche Alessandro Profumo. Ovvero, Unicredit, attraverso una sua controllata, ha dato denari a Madoff. Ma essere banchieri (P)Democratici, avere studiato alla Bocconi ed essere passati per McKinsey evidentemente esenta dalla riprovazione.
P.S.: si apprende che la Bocconi ha aperto un sito web sulla finanza etica. Difficile non chiedersi come dovrebbero essere trattati i titoli della banca, da qualcuno ribattezzata Unidebit, che Profumo, sempre (P)Democraticamente, continua a guidare.
Finanza da Nobel
Su una vecchia copertina di Cuore, con la faccia del più famoso segretario del PSI degli anni ‘80, era scritto “Hanno la faccia come il…”. Pare che questa dote così carismatica contraddistingua anche i Premi Nobel per l’Economia, nella fattispecie professor Merton, il quale, invitato dall’immancabile Università Bocconi, che dei suoi insegnamenti ha fatto tesoro, ha candidamente affermato che lui sui derivati non si pente, perchè lui, cito Il Sole 24Ore, “non ha peccato”.
Nobel lasciò come eredità il premio che porta il suo nome pentito per avere inventato la dinamite: ma la dinamite serve anche a scopi diversi da quelli bellici e, certamente, Nobel era in buona fede. Invece, il buon Merton, ha al suo attivo il fallimento, evitato con i fondi del contribuente USA, del fondo hedge LTCM. E questo fondo usava, per la precisione, proprio gli strumenti matematici sviluppati da professor Merton. Come si dice alla fine delle presentazioni all’americana “any suggestions?”
Badoglio & Caporetto
Una canzone partigiana cantava del nostro (il Badoglio medesimo) più o meno così: “O Badoglio, Pietro Badoglio, ingrassato al fascio littorio, se Benito ci ha rotto le tasche, tu ci hai rotto davvero i (…)”. Sembra, e non lo dice solo il sottoscritto, modesto epigono di JMK, che Obama, la cui luna di miele con l’intellighenzia progressista, italiana e non, duri tuttora: ma, soprattutto, sembra che il Nostro (Obama) abbia affidato agli stessi responsabili della crisi finanziaria americana, il compito di trarre d’impaccio gli USA dalla situazione. Vedi il prof. Zingales sul Sole 24Ore di ieri Sorge solo una domanda: ma se l’avesse fatto il cow boy texano, cosa sarebbe accaduto?
Nel caravanserraglio romano dei giorni scorsi si è giustificata l’accoglienza al Colonnello con la motivazione della possibilità di ampliare le nostre scelte strategiche sul versante energia, diversificando le fonti, scegliendo i fornitori e costruendo con essi partnership preferenziali. Ed è certamente una motivazione condivisibile. Ma, vivaddio, non se ne potrebbe parlare per le banche? Non si potrebbe affrontare il discorso anche nell’ambito del rapporto banca-impresa?

Il Governatore Draghi ha affermato che le banche italiane sono sane, non hanno comperato titoli tossici, dunque va tutto bene. E che il rischio sistemico (ovvero la corsa agli sportelli) si sia allontanata dal nostro sistema creditizio non può che riempirci di soddisfazione.
Il problema vero, tuttavia, non può essere appena quello di aver messo in sicurezza il sistema: perchè resta la domanda inevasa delle famiglie di un vero consulente finanziario per le loro esigenze e, da parte delle imprese, di un vero e proprio partner. Forse Profumo non ha acquistato titoli tossici: ma leggendo i bilanci dell’azienda che amministra, si può notare che ha applicato spread mediamente sempre più elevati della media del resto del sistema: e che, forse, sulla qualità e quantità del credito a disposizione dell’economia, c’è ancora molto da fare.