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Modelli di business e modelli di valutazione.

Ma proprio perché esiste questa opportunità, è importante che anche le banche si concentrino sulle imprese del futuro, evitando di continuare a supportare aziende con modelli di business non sostenibili“. Così Claudio Torcellan, partner della società di consulenza Oliver Wyman, ripreso in un articolo di Alessandro Graziani sul Sole 24Ore on line di oggi, parlando delle leve per rilanciare la redditività delle banche e delle opportunità offerte al sistema delle imprese e al sistema bancario dalle misure previste nel Recovery Fund.

Se è vero, come pare, che Oliver Wyman sia la società di consulenza della stessa BCE in materia di vigilanza, ci sarebbe più di un motivo per riprendere in mano la questione del modello di business, e non solo perché è scritto nelle metriche degli Orientamenti EBA e diventa oggetto di vigilanza ispettiva: saper valutare il proprio business model, per le imprese e per le banche che le finanziano, diventa un elemento fondamentale del processo del credito, ovvero del processo di conoscenza reciproca che ruota intorno alla misurazione del rischio ma è, sicuramente, molto di più.

Nel prosieguo dell’articolo, che invito tutti a leggere, vi sono molti spunti di riflessione, alcuni dei quali sono veri e propri ossimori da risolvere, o se si preferisce, da sciogliere: si pensi, tra gli altri, al rapporto tra lavoro umano, indispensabile nel modello della banca di relazione, e intelligenza artificiale, capitolo non più eludibile, anche alla luce della marcata preferenza, ormai ben chiara, espressa dal regolatore per la grande banca a dimensione nazionale. Non c’è industrializzazione del processo del credito che possa prescindere da solide conoscenze e da una capacità di lettura che riesce difficile immaginare di appaltare a un robot; così come riesce difficile immaginare che le stesse riflessioni sul modello di business dell’impresa possano essere lasciate all’imprenditore senza che la banca condivida le proprie, sull’impresa stessa, sul settore e/o sulla filiera.

Prima ancora che sia la banca a razionare, di fatto, il credito a quelle imprese e a quei settori destinati inevitabilmente a diventare marginali o ancora più competitivi e quindi con una marginalità in progressiva, costante erosione, la riflessione dovrebbe essere agevolata da un ceto professionale che appare ancora un po’ troppo impaurito o forse preso alla sprovvista dalle novità (quando non “affonda” nella miriade di pratiche, dal 110% alle moratorie) e dalle banche stesse, unitamente alle associazioni di categoria, anche se al momento la preoccupazione principale sul tema è spostare in avanti le scadenze, prolungando le moratorie. Anche perché ogni allungamento delle moratorie aiuta a spostare in avanti il problema del credito deterioratosi a causa della crisi indotta dalla pandemia…

Bisogna intendersi: è difficile immaginare un mondo dove si possa fare a meno del commercio al dettaglio e della distribuzione retail, ma non è evidentemente pensabile che cessata l’emergenza, sia business as usual per tutti e amici come prima. Ovvero, un business model che nella distribuzione al dettaglio ignori le conseguenze della digitalizzazione e/o dei mutamenti nei comportamenti dei consumatori è destinato inevitabilmente a soccombere, così come quello di un classico terzista la cui formula competitiva sia tuttora basata sul body rental, senza offrire un reale valore aggiunto.

Dunque, guardando avanti, occorrerà agire ed agire in fretta; e se in questo ambito non è sicuramente il caso di occuparsi del policy maker e delle sue scelte –trop vaste programme-, non ci si può non fare, per l’ennesima volta, interpreti della necessità di un dialogo che riempia di contenuti la necessaria partnership tra banca e impresa, mai come in questo momento storico così importante e così decisiva per il nostro Paese e il suo sistema economico. E allora si deve dire chiaro e forte che non ci servono meno banche di relazione perché quello è un modello adatto a banche piccole, ma banche che sappiano crescere in maniera profittevole senza perdere il contatto con la realtà dei territori e delle imprese che vi lavorano: l’intelligenza artificiale elimina la relazione solo se viene concepita in un’ottica fine a sé stessa, non come strumento. Siamo uomini, non caporali.

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Banche locali e salvataggi: senza pregiudizi si costruisce sempre.

Banche locali e salvataggi: senza pregiudizi si costruisce sempre.

Il Sole 24 Ore on line di ieri riporta un lancio di Radiocor di questo tenore: “Si sblocca il dossier Carige ma non è ancora tempo di sospiri di sollievo perché l’operazione di salvataggio dovrà passare dal via libera decisivo dell’assemblea degli azionisti che potrebbe tenersi nel mese di settembre. Intanto però la struttura dell’operazione sembra aver ricevuto i consensi necessari da parte del sistema bancario e dalla Cassa Centrale Banca, partner industriale intorno a cui ruota l’intero riassetto della banca genovese. Secondo quanto anticipato da Radiocor, è stato trovato l’accordo tra il Fondo interbancario di tutela dei depositi e la holding delle banche cooperative per la copertura dell’intero ammontare dell’aumento di capitale da 700 milioni necessario al rafforzamento patrimoniale di Carige: lo Schema Volontario del Fondo ha approvato ieri la conversione del Bond da 313 milioni di euro, mentre 65 milioni arriveranno da Cassa Centrale che ha tenuto oggi il suo consiglio di amministrazione, il resto dell’ammontare (oltre 300 milioni) sarà comunque garantito dal Fondo interbancario che chiude così il cerchio dell’aumento anche nel caso in cui gli azionisti attuali decidessero per non partecipare alla operazione.”

E’ singolare che la Banca indicata come il peggiore concentrato del “localismo” e dei danni che esso ha compiuto (ampiamente dimenticabile la stucchevole polemica portata avanti da Sebastiano Barisoni dai microfoni di Radio 24 proprio sul tema di Carige e delle banche locali) stia per essere salvata da Cassa Centrale Banca, la più rapida delle tre banche uscite dalla riforma del credito cooperativo a darsi una struttura organizzativa e manageriale di livello nazionale, con un management che, lungi dal ripiegarsi su sé stesso e sugli immani problemi che comporta diventare uno dei primi dieci gruppi italiani, decide addirittura di rilanciare, grazie ad un free capital evidentemente adeguato. Solo due cose, in attesa di vedere gli sviluppi: alla faccia di Barisoni e dei molti uccelli del malaugurio, il localismo nelle banche è vivo e lotta con noi (forza CCB); se anziché lamentarsi e avere pregiudizi, provi a costruire, vengono fuori “cose belle”.

P.S.: per chi l’avesse dimenticato, la riforma delle BCC l’ha fatta Matteo Renzi.

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Rastrellamenti (la gestione del credito deteriorato 1).

Rastrellamenti (la gestione del credito deteriorato 1).

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Oggi ho svolto la prima lezione di un corso di due giornate sulla gestione del credito deteriorato, destinato a esperti dell’area credito di alcune banche di credito cooperativo. Nonostante passino gli anni non smetto di meravigliarmi per le aspettative che tali corsi ingenerano (e che non esito a definire mirabolanti o, più spesso, miracolistiche) sia nei partecipanti, sia, più probabilmente, in coloro che li hanno iscritti. La sensazione, in effetti, è quella di dover enunciare rimedi immediati, offrire ricette per un pronto sollievo, come i cerotti callifughi, e via dicendo: aspettative, da parte del sottoscritto, immancabilmente deluse.

In effetti, l’unico modo per “gestire” il credito deteriorato è evitare che si generi, anzitutto prevenendo, con una seria analisi dei fondamentali delle imprese (e quindi della capacità di reddito e di rimborso, storiche e prospettiche) ed una valutazione attenta di natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario delle imprese.

Tuttavia, poiché il credito deteriorato esiste, e non può essere ignorato, se non ci si vuole limitare ad una presa d’atto dell’insorgere irreversibile di una crisi d’impresa, occorre affrontarlo, cominciando da qualche parte. Poiché la domanda (con rispetto parlando per chi spesso me l’ha rivolta, un po’ scontata) è sempre quella: “Da chi cominciamo?” la risposta che non posso mancare di dare è sempre quella: dai peggiori. Dapprima convocandoli per sapere cosa intendono fare da grandi, se abbiano oppure no un piano economico-finanziario di fuoriuscita dalla crisi, se siano consapevoli di quello che stanno attraversando.

Altrimenti, c’è solo un sistema: il rastrellamento.

(continua)

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Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria

Casse di risparmio di tutta la Romagna, unitevi!

Casse di risparmio di tutta la Romagna, unitevi!

Matrimonio_aug1926

Il grido, poco proletario, sembra provenire dalle dichiarazioni rilasciate dai soci delle principali Casse di Risparmio della Romagna, perlomeno di quelle rimaste indipendenti. E’ da notare appena incidentalmente che Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna esiste già, ma solo come scatola vuota, contenitore della cosiddetta Banca dei territori con la quale il gruppo Intesa a suo tempo ha tentato di salvaguardare un’identità localistica venuta meno con l’allargarsi del perimetro del gruppo stesso. Non ha importanza, un nome si troverà. Appare tuttavia evidente che il processo di fusione delle residue casse rimaste sole, non può essere definito come un matrimonio d’amore, dove gli sposi, come nella canzone di Brassens tradotta da De Andrè, vanno avanti a tutti i costi a dispetto del meteo e degli déi. Il matrimonio in questione sembra quasi la tradizionale imposizione di genitori nobili (magari decaduti) a figlioli riluttanti e, forse, un po’ scapestrati. Tant’è: poiché non si può cavare il sangue dalle rape, non resta che augurarsi che il processo di fusione che sembra avviarsi (e del quale su queste colonne si era già data notizia) sia l’occasione per ripensare all’identità di una banca autenticamente locale, in grado di servire territori nei quali le uniche banche di prossimità sembrano essere rimaste le banche di credito cooperativo.

Buon divertimento!

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Valorizzando risorse interne.

Marco Morelli, D.G.vicario di Intesa Sanpaolo e responsabile Banca dei Territori

La struttura dedicata allo small business – ovvero alle piccole imprese, agli artigiani, ai commercianti con giro d’affari fino ai 2,5 milioni di euro – è figlia del tentativo di seguire in modo ravvicinato, e con una struttura dedicata, i 960mila operatori-clienti della Banca dei Territori che già attirano 35 miliardi di impieghi. Un mondo che opera con logiche ed esigenze diverse dalle Pmi o dalla media impresa. E che anche a livello associativo ha ormai una sua uniforme rappresentanza. «Organizzazione snella e velocità nel captare le richieste differenziate della clientela consentiranno un approccio su misura al servizio della clientela – spiega Morelli – pur nell’ambito di un grande gruppo che manterrà centralizzate tutte quelle funzioni che consentono sinergie di gruppo».

I cambiamenti, che sono stati appena avviati, sono frutto – osserva il neo direttore generale vicario di Intesa Sanpaolo – di mesi di dialogo con il personale di tutta la rete. I recenti cambiamenti nella prima linea del management del network retail («tutti effettuati valorizzando risorse interne», precisa Morelli) servono a dare una nuova scossa dall’alto. Ma tutto il percorso della riorganizzazione è basato sulla riscoperta del personale che opera sul territorio. È su loro che punta il gruppo Intesa Sanpaolo ed è da loro che la Banca dei Territori attende suggerimenti, in tempo reale, sulle mutevoli esigenze della clientela.

Intervista a Marco Morelli, Il Sole 24 Ore 8 giugno 2010.

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Festa dei soci.

La sede della Bcc di Monastier e del Sile

Oggi ho avuto la fortuna e l’onore di essere invitato a parlare alla Festa del Socio della Banca di Credito Cooperativo di Monastier e del Sile.

Ho visto facce vere, di gente vera, che a partire da una mossa della propria libertà decide di donare, gratuitamente, tempo, denaro, cultura -ovvero modo di vedere la vita- per non restare intrappolata nell’individualismo.

Ho visto facce di gente che lavora per musei del territorio, donati da persone senza altro scopo che creare valore per il territorio, non per le proprie tasche o quelle dei manager. Ho avuto modo di riflettere sulle ragioni di tutto questo, prima di tutto per me stesso, a partire da quanto affermato da Benedetto XVI nella sua Enciclica più recente:“Senza la verità la carità scivola nel sentimentalismo. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali.”

Dico grazie per tutto questo.

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La banca della porta accanto.

Una sorprendente, per il sottoscritto, intervista di Vittorio Terzi (responsabile di McKinsey in Italia e nel Mediterraneo) a cura di Andrea Di Biase ed apparsa su Milano Finanza il 24 ottobre scorso torna sul tema, più che mai d’attualità, della diversità di atteggiamento delle grandi banche nei confronti delle imprese. L’intervistato, in particolare, mostra fin dalle prime battute di avere a cuore una sola idea di vicinanza alle imprese, quella per cui le banche migliori sarebbero quelle che finanzierebbero anche chi non possiede nessun merito di credito.

Le affermazioni di Terzi sono sorprendenti perché l’equivoco, se di equivoco si tratta e non di forzatura polemica, non dovrebbe sfiorare un personaggio di questo calibro. La vicinanza alle imprese, quella a cui si richiamano le banche locali o banche di prossimità -ovvero, in Italia, le Bcc- è vicinanza al territorio nel senso migliore della parola, non sostegno assistenziale. Lo dimostra la storia delle Bcc italiane, caratterizzata da sempre da un modestissimo livello di sofferenze rispetto al resto del sistema. Ed è questo che, soprattutto in questo momento, servirebbe alle Pmi italiane.

L’intervista, tuttavia, prosegue con altre affermazioni quanto meno discutibili: “Le grandi banche come le piccole sono presenti sul territorio, ma con una differenza. Che mentre entrambe hanno la vicinanza al cliente-impresa, le grandi banche hanno qualcosa in più delle piccole: hanno i mezzi da investire, come hanno fatto, in competenze e capacità che permettono loro di assumere in modo più corretto i rischi di credito”. E ancora: “Chi sostiene che le grandi banche facciano erogazione di credito guardando solo ai modelli di rating, dice una cosa errata.” La prima affermazione andrebbe rettificata: gli investimenti sono stati effettuati, ma non in competenze e capacità, bensì in modelli automatici così perfetti da permettere l’erogazione solo a clienti del tutto privi di profili di rischio. A breve un post con le linee-guida di un grande istituto di credito, proprio a partire dalle logiche di Basilea 2. La seconda è stata smentita, icto oculi, presente cioè il sottoscritto, qualche giorno fa, nel corso di un incontro con alcuni istituti bancari, per i quali un altissimo dirigente ha testualmente affermato:“Quello che esce dal modello per noi non è modificabile”.

Nessuno contesta all’impresa-banca il dovere, prima ancora che il diritto, di fare utili. Ma che non si possa neppure mettere in discussione un modello di intermediazione oggettivamente lontano dalla realtà, pare una posizione francamente indifendibile. Tanto più che, nella stessa intervista, si afferma che “le banche dovranno imparare a fare un mestiere nuovo, comprendendo a fondo i rischi delle imprese anche nel medio termine.” Ma non ne sono, le grandi, già capaci?

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Basilea 2: le mistificazioni del dibattito

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Il Corriere della Sera di ieri, nella pagine interne, dà voce al grido di dolore degli industriali italiani e tedeschi con il titolo “Confindustria italiana e tedesca: allentare i vincoli di Basilea 2”.
L’idea, mai del tutto sopita fin dai tempi della prima applicazione delle norme regolamentari di vigilanza prudenziale note sotto la sigla Basilea 2, è nota: Basilea 2 è pro-ciclica, allarga il credito quando le cose vanno bene e lo restringe -effetto credit crunch– quando le cose vanno male. Soprattutto, il ritornello è ben noto, Basilea 2 penalizzerebbe le Pmi, sottocapitalizzate, con bilanci perennemente in perdita, incapaci ad usare correttamente i fidi loro accordati.
Ovviamente in tutte queste affermazioni non c’è solo propaganda o lobbying, ed un fondo di verità è rintracciabile in ognuna di esse: dovendo scegliere chi tenere in cima alla torre e chi buttare, terrei sicuramente quella che si riferisce alla pro-ciclicità, perlomeno in linea teorica.
Però: c’è un però grosso come un macigno e che riguarda il trattamento sostanziale, e non solo formale, riservato alle Pmi.
Senza dilungarci troppo in questa sede, le Pmi sono “salvate”, perlomeno formalmente, dai rigidi vincoli di Basilea 2 dall’applicazione del cosiddetto criterio dell’esposizione retail, riservata alle Pmi con ammontari di affidamento inferiori a determinati limiti quantitativi. Il criterio retail è sempre stato formalmente in vigore, ma non è mai stato applicato: ovvero, le grandi banche hanno sempre sostenuto che avrebbero applicato tale criterio più favorevole alle Pmi, senza farlo effettivamente. Prova ne sia l’imponente migrazione di affidamenti erogati alle Pmi dalle Bcc, che non applicano le regole di Basilea 2.

Il problema, allora, è altrove. E risiede in una concezione del rapporto banca-impresa che ha sempre visto la gran parte del sistema bancario attestarsi su posizioni note come “prassi del fido multiplo” o multibanking e le imprese chiedere più affidamenti del lecito, al fine di ottenere fidi da molte banche ed evitare il razionamento.

In questa chiave di lettura, appare evidente che ciò che manca in Italia, essendo presente esclusivamente nei territori dove operano le banche locali, le banche di credito cooperativo o banche di prossimità, è una relazione di clientela impostata nell’alveo della tradizione anglosassone della main bank, della banca di riferimento. Basterebbe, al riguardo, rileggere alcuni passi, invero agghiaccianti, dei manuali di istruzioni per l’uso di Basilea 2 rilasciati da una delle due principali banche italiane ai propri gestori per affermare, senza tema di smentita, che il noto detto per cui le banche affidano coloro che non ne hanno bisogno è non solo vero, ma verissimo.

Il problema non è allentare i vincoli, che sono giusti e che, ove non fossero rispettati e basati su un serio rispetto dei criteri che presiedono alla gestione del rischio di credito -ovvero una valutazione professionale ed attenta, anche in prospettiva, del merito di credito- porterebbero a seri problemi di gestione banche che, tuttora, non sono ancora “guarite” dai postumi della crisi.

Il problema è instaurare, senza paura di confrontarsi, un serio confronto fra sistema imprenditoriale e sistema bancario, che metta il primo in condizioni di scegliere le banche con le quali lavorare, il secondo in condizione di scrutinare correttamente, come avrebbe detto Keynes, il merito di credito. Non servono banche più lassiste, ma banche più serie, impegnate in una relazione di medio-lungo termine: con imprese altrettanto serie.