L’unica attività che cresce significativamente al crescere del tempo di disoccupazione è il sonno.
(..) Krueger è uno che ha studiato tanto sia il mercato del lavoro sia come reagiscono le persone ai movimenti del mercato del lavoro: è questa seconda parte del lavoro che rileva di più oggi, non tanto perché sia la più importante, ma perché Obama ha un anno di tempo per far sì che le persone reagiscano nel modo giusto (come è noto i cicli economici sono politicamente ingrati: il più grande beneficiatore delle politiche di Ronald Reagan fu Bill Clinton, un decennio dopo). Indurre la reazione giusta non è semplice, Krueger lo sa bene. Sa soprattutto che più i senza lavoro stanno fuori dal mercato meno voglia hanno di rientrarci; il suo ultimo lavoro del gennaio 2011, firmato con un professore svedese, spiega: “L’unica attività che cresce significativamente al crescere del tempo di disoccupazione è il sonno”. Meno lavori più dormi (..).
Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).
New York, Subway, july 2011
Il principio di precauzione è una bestia strana, che risale almeno al “Vorsorgeprinzip”, il cardine della politica ambientale tedesca degli anni Settanta il quale imponeva di “provvedere prima” ai disastri (nel senso: meglio prevenire che curare). In realtà alcuni scavano ancora più indietro, risalendo ora agli anni Cinquanta, ora alla fine dell’Ottocento, ma tutti riconoscono l’importanza della figura di Hans Jonas e del suo “Principio di responsabilità”. Il principio di precauzione piace al movimento verde, piace agli interventisti economici, piace ai governi e piace alle organizzazioni internazionali, perchè fornisce a ciascuno di questi attori una fortissima giustificazione morale per “fare” sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno), ossia, per dirla in modo un poco datato, per pianificare. Proprio in un documento dell’Onu, la Dichiarazione di Rio del 1992, sta la formulazione canonica del principio: “Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l’adozione di misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale”. Il richiamo alla “cost effectiveness” è la parte più trascurata del principio. Infatti esso rappresenta un salto quantico rispetto alla tradizionale analisi costi-benefici, perchè l’accento si sposta interamente dal lato dei costi, l’onere della prova ne viene conseguentemente ribaltato (per poter fare, devo provare che non danneggerò nessuno), e l’enfasi è tutta sull’abolizione del rischio, mentre nessuna attenzione rimane per le possibilità colte oppure perse. Nelle parole di Aaron Wildavsky, lo scienziato sociale autore di “Searching for Safety”, esistono due tipi di approccio: per “tentativi ed errori” oppure per “tentativi senza errore”. Scrive: “Secondo la dottrina del ‘tentativo senza errore’ nessun cambiamento verrà consentito se non c’è una solida prova che la sostanza o l’azione proposta non farà alcun male… E’ vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti”. Per Wildavsky, chi non risica non rosica, e soprattutto non impara. Poichè la dimensione dell’apprendimento è fatalmente collettiva, l’avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza (in senso ampio, il mercato) e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente. Gli esempi sono numerosi.
Se stai lontano dalla mia vita e dal mio portafoglio.
“Case più piccole, auto più piccole, vite più piccole. L’inertia, l’ennui, il fatalismo è anche più patetico del declino demografico o della proliferazione fiscale dello stato socialdemocratico, perchè è più sottile e meno tangibile”. Gli Stati Uniti hanno tuttavia una riserva in più: “La gioventù decadente della Francia manifesta per l’età pensionabile, in Inghilterra ‘studenti’ invecchiati attaccano sui costi dell’università, mentre in America si protesta per dire al governo: posso farcela se stai lontano dalla mia vita e dal mio portafogli”.
(..) L’ultima grande accusa è che le agenzie di rating sbagliano. Hanno valutato male i mutui subprime, ma anche Lehman Brothers o Parmalat. Vero. Però è anche vero che il crack dei mutui subprime americani non lo avevano previsto in molti. Le agenzie di rating hanno errato a valutarne l’affidabilità, ma anche tanti economisti o analisti si sono sbagliati. Idem per il crack di Parmalat: si trattava di una truffa, i bilanci erano falsi. Se però si vanno a prendere le statistiche ufficiali (fornite dalle stesse agenzie), si scopre che mediamente i casi di default sono coerenti con i rating assegnati. Se si escludono casi clamorosi, dunque, solitamente i rating sono abbastanza affidabili. Insomma: le “Triple A” vanno veramente molto meno in default delle “Singole A” o delle “B”. La verità, dunque, anche qui è forse un’altra. Le agenzie esprimono giudizi: come tali sono opinabili e soggetti a errore. Gli investitori dovrebbero prenderli come tali, piuttosto che basare le proprie scelte solo su queste pagelle. Piuttosto che vivere di benchmark e di automatismi, i gestori dei fondi dovrebbero ragionare con maggiore autonomia: così, forse, si eviterebbero anche isterismi sui mercati.
La notizia della perdita della tripla A da parte degli USA ha fatto arrabbiare Barack Obama, i cinesi e, probabilmente, farà arrabbiare anche molti altri, politici e non, che soprattutto in Europa pensano che le agenzie di rating dovrebbero tacere, non dovrebbero dare notizie, insomma, farebbero meglio a chiudere. La disonestà intellettuale di molti, tuttavia, non può impedire di vedere quello che S&P, Fitch, Moody’s e le altre agenzie si limitano a constatare. Cioè che se una nazione è troppo indebitata, come gli USA e l’Italia, e non prende provvedimenti per ridurre e normalizzare il suo debito, in assenza di crescita (e di provvedimenti per lo sviluppo), il debito si allargherà sempre di più e diventerà sempre più difficile rimborsarlo. Tutto qua. Se un provvedimento legale facesse sparire le agenzie di rating, l’economia dell’informazione produrrebbe comunque le notizie che attribuiscono agli Stati (ed alle imprese), maggiore o minore solvibilità. E gran parte dei giudizi sull’accordo fra Obama e la Camera dei rappresentanti scontava già ciò che S&P ha scritto con un voto. Ci si può arrabbiare se la febbre sale, così come gettare il termometro, ignorando i sintomi e lasciando che le cause non siano minimamente intaccate. Oppure si può provare a fare qualcosa; perfino Tremonti, affermando che “in un mese tutto è cambiato” se n’è accorto. Buon lavoro a tutti noi.
I tagli non sono stati messi a punto da neurochirurghi, ma da macellai.
Michelle Bachman, deputato del Tea Party
(..) il compromesso finale ha rispecchiato molto di più le posizioni iniziali e le preferenze dei membri del Tea Party rispetto a quelle dei democratici, della Casa Bianca o dei repubblicani moderati. Questo risultato conferma che niente di meno della vittoria completa, vale a dire ottenere assolutamente tutto ciò che avevano richiesto, avrebbe soddisfatto completamente i membri del Tea Party. In effetti, Michelle Bachman, uno dei leader più in vista, ha dichiarato chiaramente che l’accordo raggiunto all’ultimo minuto per evitare il default dell’economia più importante del mondo non è stato soddisfacente e che il default non era una minaccia che le avrebbe fatto cambiare idea.
Il Tea Party sta utilizzando una tattica di estorsione politica pura e semplice. I suoi leader e membri del Congresso hanno in mano un’arma potentissima, il veto, e sono disposti a usarla a meno che non vengano accolte tutte le loro richieste. I loro numeri non sono considerevoli, ma il loro stridente radicalismo, la disciplina e la disponibilità a gettarsi tra le fiamme, se ciò fosse necessario per ottenere quello che vogliono, sono gli elementi alla base dello sproporzionato potere di cui godono. L’accordo raggiunto non stimolerà la crescita economica, non stabilizzerà l’economia, non porrà rimedio alle disparità che si stanno rapidamente creando in termini di distribuzione del reddito che hanno caratterizzato l’economia statunitense negli ultimi anni, né produrranno gli investimenti pubblici di cui la superpotenza ha un così disperato bisogno per ammodernare ed espandere la propria infrastruttura.
I tagli alla spesa pubblica contenuti nell’accordo, un obiettivo per il quale c’è stato un ampio consenso, non sono stati messi a punto da neurochirurghi, ma da macellai. I tagli non sono strategici, non sono stati studiati in modo intelligente, né fanno parte di una visione più ampia sul futuro del Paese. Sono un’arma spuntata utilizzata per mettere il Governo alle strette, limitarne al massimo la capacità di espressione o addirittura, e per molti sarebbe un vero paradiso, farlo sparire in alcune aree.
4. The validity of the public debt of the United States, authorized by law, including debts incurred for payment of pensions and bounties for services in suppressing insurrection or rebellion, shall not be questioned.
Così recita la quarta parte del XIV emendamento alla Costituzione Americana. Forse democratici e repubblicani stanno per raggiungere l’accordo -si dice a danno di Barack Obama- che consentirà agli Stati Uniti di continuare ad affermare che il debito degli Stati Uniti “non può essere messo in discussione“. Ma anche per chi, come me, crede fortemente al principio della sussidiarietà ed alla necessità di ridurre l’invadenza dello Stato centrale, riesce difficile digerire ciò che l’articolo dell’ottimo Mario Margiocco, sul Sole 24 Ore di venerdì ha bene illustrato: ovvero che la voragine pari al 140% del Pil USA è figlia di Ronald Reagan. Ho spesso visto il nome di quest’ultimo accoppiato a quello di Margaret Tatcher nella descrizione delle rivoluzione conservatrice ed innovatrice che negli anni Ottanta modificò così profondamente l’affronto della questione welfare, ma ricordo bene che la Tatcher fu molto più prudente (ed incisiva). Affamare la Bestia, tuttavia, non può significare soltanto tagliare le imposte, e Reagan, che trovò un rapporto fra deficit e Pil al 32%, se ne andò lasciandolo al 53%. Come riporta Margiocco, citando l’ex-ministro USA del Bilancio, David Stockman, “la rivoluzione reaganiana arrivava presto a essere un incauto esercizio di economia del pasto gratis. E presto, il gigantesco errore di politica fiscale che veniva scatenato a spese dell’economia nazionale e mondiale diventava insanabile“. Forse sarebbe ora di “rivisitare” l’eredità di Reagan, non solo in chiave culturale e di massima espressione della potenza imperiale americana, ma in chiave economica. La situazione, del resto, consiglierebbe anche di evitare troppo facili simpatie verso i Tea Party, dei quali il sito di Bloomberg sabato ricordava la silenziosa approvazione per la spesa pubblica nei “propri” distretti elettorali? Altrimenti si rischia, come hanno efficacemente sottolineato Perotti e Zingales, di continuare a preoccuparci di spegnere l’incendio, ma di lasciare i piromani andare a spasso indisturbati: e, oggettivamente, il movimento del Tea Party non sembra credibile né nella veste di pompiere, né in quella di poliziotto, i cui stipendi vanno peraltro pagati. Forse, in quella di cowboy?
Brian Friel su Bloomberg evidenzia una singolare circostanza del comportamento del movimento del Tea Party, ovvero di quel movimento che avendo eletto almeno 40 deputati al congresso nel Partito Repubblicano impedisce che lo stesso giunga ad un compromesso sul livello del deficit federale. Il Tea Party mostra decisa avversione verso l’intervento dello Stato e pone fra i suoi obiettivi quello di una decisa limitazione della sua ingerenza nella vita dei cittadini; per questo ritiene che il deficit non solo non debba essere innalzato, ma casomai ridotto, al fine, come diceva Ronald Reagan, di “affamare la bestia” per farne calare le dimensioni e farla venire a più miti consigli. Su questa parte torneremo in un altro post. Nel frattempo, grazie a Brian Friel, apprendiamo che “Sixty House members backed by the Tea Party, whose opposition to federal spending helped bring on an impasse over raising the U.S. debt ceiling, represent districts that last year received $43 billion in government contracts. In 16 of those constituencies, spending exceeded $1 billion each — more than twice the median amount for all House districts, Bloomberg Government reported today. “People don’t like federal spending in the aggregate, but when it’s back home where you’re spending the money, that’s a different story,” said Charles J. Finocchiaro, a political scientist at the University of South Carolina, in Columbia, in an interview. The state is home to two House Tea Party Caucus members and Republican Governor Nikki Haley, elected last November with the movement’s support.”
Si potrebbe riassumere così: NIMBY (Not In My Backyard) se si tratta di parlare a livello astratto ed aggregato, YIMBY (Yes In My Backyard) se i denari vengono spesi nel mio bacino elettorale. Ci sarebbe da riflettere su questo aspetto anche in Italia, mentre si discute di costi della politica ignorando che i veri costi della politica sono i voti comprati con i lavori e le assunzioni insensate ed irragionevoli, dai tre maestri nella scuola elementare fino alle migliaia di forestali assunti in Calabria, e non solo. L’assunzione dei precari della scuola, annunciata dalla Gelmini, è passata in un silenzio sepolcrale, nel quale nessuno si è chiesto da dove saranno attinte le risorse necessarie. Nel frattempo, in attesa del 2 di agosto, God bless not only America, but everyone.
Il dibattito infinito che negli USA sta portando lentamente il Paese al limite del collasso finanziario (teoricamente ipotizzabile, nella realtà difficile da immaginare), fa venire in mente quel film con James Dean, quello nel quale ci si sfida a fermarsi per ultimi dopo aver lanciato la macchina verso il precipizio. Visto quanto sta accadendo Oltreoceano, i nostri deputati sono stati diligenti ultra virus, manifestando sentimenti di amor patrio degni degli antichi padri romani. Ciò che non sembrano avere capito è che, se persino negli USA devono stringere la cinghia, sentendosi rimproverare dai cinesi, forse i tempi sono davvero cambiati.