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Cara, posso spiegarti tutto.

Cara, posso spiegarti tutto.

Roy Lichtenstein, Crying girl

Giovedì o venerdì si terrà l’incontro informativo convocato da Ccb con i vertici delle circa 80 Bcc che fanno parte del gruppo. L’appuntamento è molto atteso, perchè il sistema vuole capire il senso dell’operazione voluta dai vertici della capogruppo. Secondo quanto emerso sinora l’ingresso in Carige sarebbe considerato come un’opportunità per lo sviluppo sul fronte informatico e del risparmio gestito, oltre alla presenza territoriale. Un approccio di questo tipo – considerata anche l’opzione a salire nel capitale di Carige – lascia presupporre che l’obiettivo di Ccb sia, nel tempo e al verificarsi delle condizioni, quello di assumere una posizione di controllo della banca genovese investendo, tra equity e bond subordinato, un importo non lontano da 600 milioni. Se questo scenario si concretizzasse, un gruppo bancario che fa perno sul credito mutualistico senza fine di lucro e basato sulle garanzie incrociate per garantire i requisiti patrimoniali, che assieme conta 1.500 sportelli, diventerebbe socio di riferimento di una spa con 500 sportelli sul territorio. Un passo molto lungo da spiegare al management delle 80 Bcc affiliate. Altro aspetto sul quale è concentrata è il prezzo al quale verrà fissato l’aumento di capitale da 700 milioni.”

Così Luca Davi e Laura Serafini sul Sole 24 Ore di ieri, 30 luglio. Non ho idea del piano strategico che ci sia dietro tutto questo, né che cosa Cassa Centrale Banca abbia in mente di fare nel concreto, bancassicurazione, risparmio gestito o cosa: il buonsenso mi dice che un Gruppo che vuole crescere, anche in vista di possibili-probabili future aggregazioni, mette in conto nel frattempo di digerire operazioni che sono comunque importanti (a occhio e croce, un terzo della propria dimensione, se gli sportelli sono una buona proxy) e che in prospettiva sarebbe superficiale trascurare. Ora, quando l’Unicredit di Alessandro Profumo cresceva per linee esterne a suon di acquisizioni, nessuno ha mai messo in discussione quelle scelte, tantomeno in base a criteri morali. Giudizi morali o valoriali, mai ascoltati. E invece adesso qualcuno devespiegare al management di 80 banche affiliate” perché una banca che ha come riferimento il credito mutualistico fa un’operazione di questo tipo.

Paradossalmente, si intravvede del moralismo proprio in giudizi di questo tipo, che evidentemente non si nutrono di simpatia nei confronti della cooperazione di credito: simpatia che, peraltro, il sottoscritto non ha mai nascosto. Ma non serve la simpatia per rammentare che nella cooperazione il profitto è prima di tutto un vincolo, poi un mezzo e comunque non un fine, e che la riforma delle Bcc era finalizzata a rafforzarle anche attraverso una capogruppo in grado di raccogliere capitali freschi, che dovrebbero pur essere remunerati. O no?

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Banca d'Italia Banche BCE

Ancora sui salvataggi (“bovarismo” bancario).

Ancora sui salvataggi (“bovarismo” bancario).

Il tema dei salvataggi non annoia mai. O forse, proprio perché ci si annoia, è estate, e anche senza essere il 38 luglio fa molto caldo perché era scoppiata l’afa, insomma, parlare di salvataggi è un tema che si porta.

Posto che anche JM si è occupato di salvataggi bancari qualche volta, si deve dire che gli stessi rappresentano un tema appassionante, li tiriamo fuori anche se non c’entrano, come se sapessimo già in anticipo che qualcosa sarà fatto o è già stato fatto o comunque sarà fatto per salvare qualcun altro. Un bel processo alle intenzioni (e anche a quanto detto in passato da alcuni protagonisti, istituzionali e non, del mercato bancario) è stato prontamente intentato esaminando la compagine dei volonterosi che si appresterebbero a rilevare Carige.

Carige, storia questa ormai davvero noiosa, è ancora lì, aspettando Godot, perché i suoi azionisti hanno deciso di non decidere, calciando in avanti il barattolo. Trovare dei colpevoli è davvero così interessante? Serve? Aiuterà a fare meglio in un sistema bancario, quello italiano, dove, non si deve dimenticarlo, già adesso tutte le banche contribuiscono, talvolta con pedaggi assai pesanti, al risanamento e alla messa in sicurezza del sistema stesso, aderendo obtorto collo ai fondi di garanzia e quanto altro? Quando anche gli amministratori fossero tutti messi al gabbio e privati dei loro beni, qualcuno davvero pensa che questo darebbe ristoro ai risparmiatori “truffati”, come piace dire a Giggino and co?

Salvare banche è costoso, è, appunto, un atto di violenza: ma può anche essere un’opportunità. D’altra parte, provare per credere, non salvare le banche o risolverle è forse peggio: le massaie disperate “truffate” da Pop.Etruria sono ancora là che urlano perché in fin dei conti prendere solo il 3,5% quando i tassi erano zero, be’, cosa vuoi che sia? Non si fanno fallire le banche, non quelle troppo grandi per fallire: può non piacere, ma è così. Non lo farebbe un governo normale, non dovrebbe farlo neppure questo governo di analfabeti funzionali.

Per cui, per quale motivo processare una cordata, vera o presunta, perché ragiona di entrare nel capitale di Carige? Chi decide la destinazione del capitale di rischio? Gli aumenti di capitale si fanno per essere “in bolla” ma anche per cogliere opportunità. o teniamo i quattrini in un cassetto, così salvaguardiamo i risparmiatori?

Un pochino, appena appena,  di sguardo positivo sulle cose, non guasterebbe: in fin dei conti nel programma elettorale di Giggino c’era che la Guardia di Finanza si occupasse della Vigilanza al posto della BCE o di Bankitalia. E probabilmente questo governo di idioti ancora in materia bancaria non ha fatto nulla perché non ci capisce nulla. Per cui teniamoci stretto chi sta lavorando, chiunque esso sia: perché, oltre alle normali difficoltà del fare impresa bancaria, deve avere a che fare con Bitonci e soci. Auguri.

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Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Ricevo dall’ottimo Fabio Pavesi, un grande giornalista oltre che un amico, con il quale abbiamo condiviso l’interesse per il caso Mariella Burani Fashion Group, l’articolo apparso sul Fatto Economico nella giornata di ieri, 24 luglio. Pavesi parla di “cura” Mustier per Unicredit, rammentando i due ultimi esercizi in utile che hanno ristorato azionisti “stremati” (ma che quando le cose andavano bene passavano alla cassa senza battere ciglio), come una cura, cioè un piano industriale, basato solo sulla riduzione del personale. D’altra parte se l’unica politica che hai attuato in tutti questi anni è stata vendere i gioielli di famiglia, da Pekao Bank a Pioneer fino all’ultima, Fineco Bank, e facendo cassa hai rafforzato patrimonialmente la banca, se latitano i ricavi devi ridurre i costi. e gli unici costi, in una banca che ha già chiuso centinaia di filiali (per i non riminesi: venite farvi un giro in centro a vedere la ex sede centrale di Unicredit a Rimini, desolatamente vuota da almeno due anni, immobile sfitto e amenità simili…) sono rappresentati dal personale.

Il ragionamento, sotto il profilo gestionale, non fa una grinza, salvo essere il mantra che spesso il banchiere medesimo ripete all’imprenditore, ovvero che si devono tagliare i costi ma che non basta tagliare i costi, occorre avere riguardo ai ricavi e alla redditività. Proprio perché non fa una grinza, si inceppa al momento di immaginare un percorso di sviluppo e di ripresa della redditività: Pavesi, nel caso specifico, ipotizza una soluzione finanziaria, con Unicredit al centro di una maxi fusione europea con Commerzbank etc…, poiché Mustier viene dalla finanza e questo è un imprinting indelebile. Ma mentre Unicredit pensa a licenziare, intorno cresce il fintech, e non solo per Unicredit. Ovvero, dum Rome consulitur Saguntum expugnatur: le banche stanno perdendo il lavoro più redditizio (anche se adesso molto meno) e facile che abbiano mai fatto, l’anticipo fatture e la gestione del cosiddetto autoliquidante. E dopo aver deciso di vendere i mutui di qualcun altro e le assicurazioni fabbricate altrove, continuano a latitare nelle proposte per le imprese, soprattutto PMI. Per questo continuo a pensare che, sebbene forzata da una riforma voluta dal legislatore, la scelta delle Bcc/CRA riunite sotto l’egida di ICCREA e di Cassa Centrale Banca dall’altra possa diventare vincente: perché l’economia ha certamente bisogno della finanza, ma non di qualunque finanza.

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Semplificazioni (?).

Semplificazioni (?).

Il Sole 24 Ore di oggi nella sezione Finanza e Mercati riporta un articolo di Davide Colombo dal titolo significativamente attrattivo “Bankitalia lancia la semplificazione per banche minori”. Si tratta delle nuove modalità con cui saranno attuati gli orientamenti e le raccomandazioni delle autorità europee in materia di banche less significant, appunto, le banche minori. Premesso che di banche minori ne esistono e ne esisteranno sempre di meno, stante una legislazione (vedi leggi di riforma delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo, tutte di fatto confluite in Gruppi “significant”) ed un indirizzo del regolatore palesemente orientati alla concentrazione del mercato e all’uso degli strumenti di Vigilanza strutturale, la semplificazione pare più di tipo formale che sostanziale.

Chi ha avuto modo di lavorare con e dentro le banche, soprattutto di minori dimensioni, sa bene che il principio di proporzionalità cui doveva essere informata tutta l’attività di vigilanza e la relativa compliance(ovvero l’adesione alle regole) è stato più che altro enunciato ma mai effettivamente applicato, sia per il “profluvio regolatorio” di cui parla Colombo nel suo articolo, sia per la chiara volontà di BCE e Bankitalia di non mollare la presa sul sistema bancario, riducendo il numero dei competitor.

La semplificazione, in poche parole, consisterebbe nel fatto che gli “orientamenti di vigilanza” a differenza degli “atti aventi natura normativa” potrebbero essere disattesi in quanto non vincolanti, a condizione che la banca che usi modalità diverse dimostri che le stesse soddisfano le disposizioni di legge e regolamentari cui gli “orientamenti” stessi si riferiscono. La comunicazione di Bankitalia relativa alla semplificazione, d’altra parte, dimentica un piccolo-grande particolare, ovvero che lo strumento della moral suasion, da sempre insegnato in tutte le aule universitarie dove si parla del ruolo della Banca Centrale, non solo non passa mai di moda ma è stato sempre più utilizzato negli ultimi tempi. BCE e Bankitalia sanno come farsi rispettare ma, soprattutto, sanno come farsi ascoltare: io non semplificherei.

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Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

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La notizia comparsa sul Sole 24 Ore di oggi, che riporta il dato relativo al volume dei prestiti a medio-lungo (sostanzialmente triplicati a dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) non può che rallegrare chiunque abbia a cuore il percorso di fuoriuscita dell’Italia dalla crisi e cerchi di cogliere i segnali di ripresa; segnali che non hanno mai cessato di manifestarsi anche in momenti meno recenti, ma che i dati, finalmente, confortano. Fino a non molti anni fa i prestiti a medio-lungo richiesti dalle imprese sarebbero stati destinati, con fin troppa facilità, ad acquisizioni immobiliari nella migliore delle ipotesi inutili, quando non dannose, perché distoglievano risorse e competenze dalla competitività, dalle strategie, dal mercato.

Leggere la notizia mi ha fatto pensare che se questa è la fotografia dal lato della domanda, non meno interessante sarebbe conoscere chi siano i protagonisti dal lato dell’offerta: ovvero, in un Paese banco-centrico come l’Italia, certamente le banche, ma quali banche? La domanda non è oziosa, né riconducibile ad un puntiglio accademico, ma ad alcune recenti esperienze di fidi “offerti”, in senso letterale, a grandi aziende che ne avrebbero fruito poco o nulla, da piccole banche, in particolare Bcc. Quelle stesse banche che dovrebbero sostenere la crescita delle Pmi, offrono prestiti ad aziende di grandi dimensioni, a tassi ultra-competitivi, verosimilmente con una marginalità nulla o ridottissima.

Perché?

Fino a non molti mesi fa, dialogando con chiunque mi fosse capitato nell’ambito delle banche locali, mi sarei sentito dire che il problema del credito era il credito deteriorato, “tanto nuovo credito non ne facciamo“. Il peso del credito deteriorato, prima ancora che un fardello economico, è divenuto un fardello culturale: per non sbagliare, meglio non fare nulla, ovvero il grillismo applicato al credito. Ma poiché qualcosa si deve fingere di fare, allora si eroga credito alle grandi imprese, anziché alle Pmi: perché è più facile e dunque meno costoso valutarle, perché sono meno rischiose, perché anche se guadagno poco, non si genereranno altre svalutazioni. Mi vengono in mente espressioni come miopia, mancanza di coraggio, visione di corto respiro, ma temo che sia molto peggio: temo che molte banche locali stiano pensando che, pur di sopravvivere, sia meglio venire meno alla propria vocazione. Questo fattore, molto più della riforma ormai avviata, rischia di cancellare la cooperazione di credito Italia; ma soprattutto rischia di cancellare un riferimento storico per il mondo delle Pmi, tuttora incapaci di comprendere cosa fare per ripartire e chi siano i loro interlocutori. Non è un problema tecnico, è un problema culturale, di visione, di consapevolezza. Proviamo a lavorarci?

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Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo PMI

Riformare il credito cooperativo non è solo questione di regole.

Riformare il credito cooperativo non è solo questione di regole.

L’approdo alla versione finale del Decreto Legge che ha riformato il credito cooperativo dopo una lunga gestazione ed una sostanziale imposizione dal centro (su questo, e solo su questo, a parere di JM, hanno ragione i vari “colonnelli” che hanno fatto veri e propri pronunciamenti latino-americani sul tema) non può che far riflettere non solo tutti coloro che hanno a cuore la democrazia economica e la “biodiversità” mutualistica, ma anche chi, più semplicemente, si interroga sul futuro delle relazioni di clientela nel nostro Paese, soprattutto per quel che riguarda le Pmi. Su Linkiesta ci sono le considerazioni di Luca Barni, che riesce a sintetizzare efficacemente il vero pregio della riforma: l’avere accolto le linee principali dell’autoriforma che Federcasse stava discutendo, riuscendo, nello stesso tempo, a rafforzare patrimonialmente le Bcc senza far loro perdere il nesso col territorio.

Ovviamente, non è mai stata una questione di regole in passato e non lo può essere nemmeno ora: la riforma rimette in gioco per tutti i valori, ovvero la cultura, il modo che hai di leggere la realtà, con buona pace di coloro (p.e.l’ottimo Sebastiano Barisoni di Radio 24) che dal crac delle 4 banche avevano tirato giudizi frettolosi e sommari sulle banche locali. La mutualità ed il localismo possono venire distorti così come la grande dimensione extra-nazionale: Deutsche Bank, ma non solo, rappresenta l’esempio più lampante di come la grande dimensione non garantisca comportamenti virtuosi, non eviti conflitti di interessi, non impedisca il moral hazard.

Mi piace, invece, ricordare due esempi che in una sola settimana ho potuto ri-conoscere ed incontrare di nuovo: una piccola Bcc, con un record di sofferenze irrisorie (talmente basse da sembrare quasi insultanti, visti gli elevati accantonamenti prudenziali comunque effettuati) che lavora strettamente sul territorio ma che osserva continuativamente le buone prassi in materia di valutazione del merito di credito. E poiché ho lavorato e lavoro per questa banca, evito di nominarla, sapendo che non me ne vorranno.

Il secondo esempio è sul lago di Ledro, dove la Cassa Rurale ha riunito -indubbiamente senza alcun merito del sottoscritto- ben 80 imprenditori per incontri serali (dalle 20 alle 23!) sulla cultura d’impresa, il bilancio ed il fabbisogno finanziario. Si può decidere di rimettersi in gioco su ciò che si ha di più caro, i propri conti aziendali, se chi te lo chiede è la banca che da sempre ti è accanto nelle tue scelte sul territorio: per giunta venendo ad ascoltare un illustre sconosciuto, che ti parla senza fare sconti, o almeno ci prova, nonostante l’ora. Cultura d’impresa e buone prassi, non solo regole: su queste basi la riforma del credito cooperativo non è appena una normativa illuminata, ma l’occasione per tutto il Movimento di riformarsi ritrovandosi.

 

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Alessandro Berti Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo BCE

Io non voglio pagare per qualche idiota.

Io non voglio pagare per qualche idiota.

Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco  a Roma il  14 novembre 2012. L'incontro tra i vertici dell'Abi e il governatore della Banca d'Italia Visco di oggi è stato "molto approfondito e di forte soddisfazione": lo ha detto all'ANSA il neopresidente Antonio Patuelli precisando che "abbiamo avuto conferma dai vertici di Bankitalia della stabilità del mondo bancario italiano"ANSA/CLAUDIO PERI
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a Roma il 14 novembre 2012.

Io non voglio che le tasse che pago vadano a coprire i buchi nelle tasche di risparmiatori il cui comportamento non merita altro appellativo che quello di dabbenaggine. Perché a dispetto degli alti strilli dei risparmiatori di ieri di fronte ai palazzi del potere di Roma, di dabbenaggine si tratta (anche se la parola giusta sarebbe un’altra: idiozia). La dabbenaggine di chi pensa che solo a lui sia apparsa la luce di rendimenti elevati quando persino lo Stato paga in negativo. Il rischio è connesso al rendimento: capre, capre, capre. Capre: solo una capra può pensare che a lui spettino rendimenti superiori a quelli del mercato.

Non voglio pagare perché Libero, Il Giornale, Brunetta e soci, sempre allegramente assenti quando Tremonti litigava con Bankitalia e quando c’era da avere una politica del credito (avrà tanti difetti, ma questo governo una politica ce l’ha: non vi piace? Non votateli.) che nessuno ha mai nemmeno concepito, delegando tutto a Banca d’Italia, che ha fatto quel che vuole ogni vigilatore. Ha sterminato più banche che poteva, lasciandole cuocere a fuoco lento, per poter avere meno soggettida vigilare.

E infine, proprio per questo, non voglio pagare perché la Banca d’Italia che fa le ispezioni selettive (risk focused le chiamano), non si è accorta di nulla, così come la Consob, che per definizione non si accorge mai di nulla. Non voglio pagare per evitare class action a qualcuno: fate finalmente queste class action. Fatele e piantatela di strillare. Capre.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

Del margine disponibile (saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro).

Del margine disponibile (saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro).

Ricominciare a lavorare ad agosto, per giunta di sabato, ha qualche vantaggio: è un inizio soft, il sabato lo rende meno pesante, ti abitui a quelli che saranno ritmi ben più intensi. Ma, soprattutto, sei riposato e dunque attento: e così riesci a cogliere meglio alcune perle. La perla, come in una canzone di Stefano Rosso, arriva dopo aver discusso di problemi dello Stato. E dopo “cliente storico“, “socio“, “favorevolmente conosciuto“, “esistenza di patrimonio responsabile” arriva il grande colpo di fine estate: “ampio margine disponibile“. I grandi colpi arrivano solo dai vecchi lupi di mare, da quelli che hanno percorso tutte le strade del credito ed hanno dovuto spiegare che Gesù Cristo era (almeno) morto di freddo a gente che negava fosse morto.

Così un amico mi spiega che il margine disponibile, unitamente a tutte le frasi dette sopra, ha rappresentato (purtroppo, a quanto pare, rappresenta ancora in talune realtà) un’eccellente giustificazione per crediti che non dovevano essere erogati: ciò che la giurisprudenza in materia di concessione abusiva di credito chiama “fido irregolare“, in quanto non determinato sulla base delle buone prassi, ma di altri criteri. Apprendo così che, contrariamente alle mie credenze (per anni ho ritenuto che il suddetto rappresentasse la differenza fra fido accordato e fido utilizzato come da Bollettino Statistico di Bankitalia) il margine disponibile consta invece della differenza tra valore delle garanzie rilasciate ed ammontare del credito effettivamente utilizzato, magari sconfinando. Ci sono molti modi per aggirare la corretta determinazione del fabbisogno finanziario d’impresa, la misurazione della capacità restitutiva e dunque il valore o merito di credito: fermo agli insegnamenti del Maestro Giampaoli, pensavo fosse colpa degli indici di liquidità e dell’analisi della solvibilità a breve. Invece no, sono i muri, ancora loro. Saremo noi che abbiamo nella testa un maledetto muro.

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Vadi per deduzione, adesso ho gente, non ho tempo per guardarci…

Vadi per deduzione, adesso ho gente, non ho tempo per guardarci…

Ugo-Fantozzi

Questo è l’incipit di una mail ricevuta in ufficio da un vice-preposto della filiale di una banca locale per la quale lavoriamo; se qualcuno non dovesse credere, siamo disposti ad esibire le pezze d’appoggio ed ogni più idonea documentazione, nel rispetto della privacy (lo sciagurato ha diritto all’anonimato, anzi, direi che ha diritto all’oblìo…).

Sorge solo il dubbio se, dopo i piani formativi su credito, compliance, risk management e Risk Appetite Framework, noi ci si debba occupare anche di congiuntivi.

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ABI Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo

I cattolici si muovono (?) per le banche popolari. Ne vale la pena?

I cattolici si muovono (?) per le banche popolari. Ne vale la pena?

Scudo_Crociato

Secondo l’Huffington Post la riforma delle popolari realizzata per decreto legge (siamo ansiosi di conoscere i requisiti di necessità ed urgenza del medesimo) ha smosso l’associazionismo cattolico, pronto a “smontare” la riforma in parlamento. Dai vecchi democristiani fino al Ministro Lupi sarebbe tutto un tramare dietro le quinte per evitare la riforma. Ne vale la pena?

Ieri mattina, sul Sole 24 Ore, Marco Onado evidenziava l’ambiguità dell’intervento di Renzi, il quale nel sottolineare “l’eccesso di banchieri” sembrava parlare a nuora, le popolari, perché intendesse suocera, le bcc. Ad essere realisti, infatti, non sembrano le popolari essere troppe quanto piuttosto, se questo fosse il criterio, le banche di credito cooperativo, quelle che “nessuno (sic) le tocca”. Poiché grande è la confusione sotto il cielo, oltre a rimandare all’ottimo intervento del professor Onado, forse vale la pena fare qualche riflessione sull’opportunità di una battaglia pro o contro il modello cooperativistico che, almeno sulla carta, è messo sotto scacco con l’intervento legislativo sulle popolari.

A dispetto di tante affermazioni di facciata succedutesi nel corso degli anni, in effetti tale modello non ha mai goduto di grande favore presso le lobbies europee, che lo hanno sempre ritenuto contrario ad un’idea di mercato basato sulla contendibilità (che il principo del voto capitario, ovvero una testa un voto a prescindere dalle quote possedute impedirebbe di realizzare) e sull’efficienza. La proposizione è non solo non dimostrata nella teoria finanziaria, ma palesemente disattesa nella pratica: ovvero, maggiori dimensioni ed un modello capitalistico non comportano, automatically, maggiore efficienza ed una migliore managerialità. Basti pensare, per citare un caso macroscopicamente noto, al Monte dei Paschi di Siena, spa.

Il principio del voto capitario, come tutti gli strumenti, può essere male utilizzato o può esaltare la democrazia economica: i padri-padroni (Fiorani in Popolare Lodi, per esempio) così come il sindacato dei bancari in Popolare Milano sono pessimi esempi non già di un principio errato quanto piuttosto di una sua distorsione. Altrimenti non si spiegherebbero altri eccellenti esempi di cooperazione di credito, anche su grandi dimensioni territoriali: tra gli altri il Credito Cooperativo Ravennate e Imolese o la Cassa Rurale di Treviglio.

Il principio del voto capitario è dunque un falso colpevole e l’intervento del Primo Ministro Renzi sembra solo rappresentare una ripresa di iniziativa della politica rispetto ad un settore dove domina incontrastata, e senza alcuna accountability, l’autorità di Vigilanza, lasciata libera di distruggere il Credito Cooperativo in nome dell’indipendenza delle autorities. Non so cosa possano concludere di buono i cosiddetti politici cattolici in materia, e forse ignoro i meccanismi della comunicazione in materia. Ma ritengo che quanto sta accadendo, prima ancora che rappresentare un campanello d’allarme per un modello di democrazia economica che affonda le sue radici nella cultura cattolica, dovrebbe richiamare un’altra, più pressante questione: la politica ha qualcosa da dire sul mondo del credito? O anche quest’ultimo, come quello delle imprese, orfano da decenni di una politica industriale degna di questo nome, può tutt’al più formare oggetto di lamentele per il credit crunch?

Aspettando la risposta, godiamoci il dibattito: magari estendendolo agli interventi al napalm della Banca d’Italia sul credito cooperativo.