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Darglieli, o non darglieli, toglierli o non toglierli: questo è il problema (Amleto per bancari).

Darglieli, o non darglieli, toglierli o non toglierli: questo è il problema (Amleto per bancari).

Amleto

Darglieli (ancora), o non darglieli (più), questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
i mancati rientri e gli sconfini dell’oltraggioso cliente
o prendere provvedimenti contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine?

Morire, dormire…
nient’altro, e con un decreto ingiuntivo dire che poniamo fine
al dolore del prestito e ai mille tumulti naturali
di cui è erede l’impresa: è una conclusione
da desiderarsi devotamente.

Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci riflettere.

È questo lo scrupolo
che dà al cliente storico una vita così lunga.

Ad. da W.Shakespeare (Amleto)

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Default è quando Banca Centrale Europea dice (La misurazione del rischio di credito 3: quello che le imprese neppure lontanamente immaginano).

Default è quando Banca Centrale Europea dice (La misurazione del rischio di credito 3: quello che le imprese neppure lontanamente immaginano).

Vujadin-Boskov

Riassunto delle puntate precedenti: come si misura il rischio di credito? E cosa comporta tale misurazione nei comportamenti e nei rapporti bancari?
Dopo gli incagli oggettivi, le sofferenze oggettive: ovvero se ci sono criteri per rendere meno opinabile la constatazione dello stato di difficoltà temporanea, devono esisterne altrettanti per dichiarare lo stato di insolvenza irreversibile e conclamato.
In altre parole, la dichiarazione dello stato di insolvenza non a sentimento, non dopo un bel “parliamone”, non in una riunione del consiglio di amministrazione nella quale si dice che “però poi i suoi dipendenti sono “mutualizzati” da noi” o ancora “però così poi smette di pagare i fornitori”. No, semplicemente una bella definizione di default oggettivo, rispetto alla quale non resta che prendere atto che la posizione del cliente è da svalutare, portare a sofferenza etc…
Anche in questo caso, se ci si chiede la genesi di un simile provvedimento (per amor di precisione il tutto trovasi all’art.178, regolamento UE 575/2013) è facile rintracciarla nella ritrosìa delle banche –in questo sempre incoraggiate da imprese altrettanto restìe a prendere atto della realtà- a dichiarare lo stato di deterioramento di crediti derivanti da operazioni spesso nate male e proseguite peggio.
E poiché la discrezionalità in materia implica, molto semplicemente, la sostanziale falsità dei bilanci bancari e l’inconsistenza del patrimonio in rapporto ai rischi, meglio eliminare la discrezionalità.
Ecco come:
“Il default di un debitore:
1. Si considera intervenuto un default in relazione a un particolare debitore allorché si verificano entrambi i seguenti eventi:
a) la banca giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quale l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alle sue obbligazioni creditizie verso la banca stessa;
b) il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni su una obbligazioni creditizia rilevante verso la banca (n.d.a.: ovvero è in situazione di incaglio oggettivo).”
E ancora:
• “la rilevanza di un’obbligazione creditizia in arretrato è valutata rispetto a una soglia fissata dalle autorità competenti. Tale soglia riflette un livello di rischio che l’autorità competente ritiene ragionevole;
• gli enti hanno politiche documentate in materia di conteggio dei giorni di arretrato (una banca popolata da genii, recentemente commissariata, si vantava di aspettare 99 rate di impagato per dichiarare l’incaglio NdA) Queste politiche sono applicate in modo uniforme nel tempo e sono in linea con i processi interni di gestione del rischio e decisionali dell’ente”.
Inoltre, a parte ovviamente incagli, fallimenti e ristrutturazioni del debito con saldo e stralcio, si ha default quando:
• “la banca riconosce una rettifica di valore su crediti specifica derivante da un significativo scadimento del merito di credito successivamente all’assunzione dell’esposizione (traduzione dell’autore: bisogna monitorare il credito, sempre, e soprattutto bisogna evitare che scada…);
• la banca cede il credito subendo una perdita economica significativa”.

Infine, tanto per non dimenticare che il merito di credito non è un’opinione, la stessa direttiva disciplina all’articolo 179 “i requisiti generali per il processo di stima”, e in particolare, stabilisce che:
• “Le stime di basano sull’esperienza storica e su evidenze empiriche e non semplicemente su valutazioni discrezionali (…) Quanto più limitati sono i dati di cui dispone una banca, tanto più prudente deve essere la stima”.

L’ultimo punto merita un piccolo commento, rimandando altre considerazioni alla prossima puntata.
Esperienza storica ed evidenze empiriche fanno rientrare dalla porta l’analisi fondamentale, quella che i rating avevano scacciato nelle grandi banche e quella che la conoscenza diretta (e la storicità del rapporto) avevano fatto accantonare nelle piccole.
Non solo: appare evidente come la conoscenza del cliente non possa che essere fondata su dati (bilanci, performance, etc…) e non su mere opinioni di confidenza: “In Dio infatti noi confidiamo, ma tutti gli altri ci portino dei dati”, ci ricorda uno studioso USA.
Ne deriva che (chissà se di queste cose Sebastiano Barisoni ne parla a Radio 24?) minori sono i dati disponibili, scarni i bilanci e semplificate le contabilità, minori dovranno essere i rischi assunti: in altre parole, le idee le finanzi qualcun altro.

(segue: la puntata precedente è stata pubblicata il 1 luglio 2014)

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La misurazione del rischio di credito 2 (quello che le imprese ignorano completamente).

La misurazione del rischio di credito 2 (quello che le imprese ignorano completamente).

Aspirina
Riassunto della puntata precedente: come si misura il rischio di credito? E, soprattutto, sulla base di quali unità di misura?
Più di una volta, in carriera, mi è capitato di imbattermi in imprenditori che raccontavano di un rapporto banca-impresa vissuto quasi religiosamente, con il cappello in mano appena si entrava in filiale. Impressione corroborata, come le profezie auto-avverantisi, da una percezione della misurazione del rischio di credito quasi esoterica, legata a volontà soprannaturali e/o a fattori imponderabili, giammai a criteri oggettivi e condivisi.
Facile immaginare come migliore la percezione della catena di comando nelle banche di credito cooperativo (nelle quali puoi parlare con tutti e rompere le scatole a tutti, anche il presidente, anche se non meriti credito…) ma, soprattutto, lamentarsi, perché immancabilmente “ottime idee” venivano cassate, perché “le banche sanno solo valutare/vogliono solo le garanzie”, perché “in Italia non c’è concorrenza e invece le banche estere…”.
L’ottimo Sebastiano Barisoni di Radio 24, sempre lui, e con lui tutte le associazioni di categoria (ma Confindustria è più colpevole di altre, per autorevolezza, sia pure declinante, e per dimensioni dell’organizzazione) non solo preferiscono continuare a lamentarsi di Basilea 3, ma continuano a trascurare un piccolo particolare: che nel rapporto banca-impresa occorre sicuramente scegliere (la banca), ma anche farsi scegliere. E per farsi scegliere sarebbe opportuno conoscere i criteri della scelta di chi decide.

Pare a chi scrive che tuttora tali criteri siano:
• perlopiù ignoti alle imprese, soprattutto se Pmi, anche se noto ultimamente, nel mio turismo finanziario, una maggiore sensibilità al riguardo;
• quasi mai condivisi dalle banche (che confondono la riservatezza sui rating con quella relativa alla valutazione del fabbisogno finanziario) che vogliono mantenere la loro totale ed insindacabile discrezionalità;
• lasciati in mano a pessimi ingegneri informatici, ovvero agli unici responsabili, nel bene e nel male, delle scelte dei modelli di analisi che le banche usano: oddio, ci sono un bel po’ di Colleghi che collaborano alle scelte dei modelli, ma non hanno mai visto una Pmi e, soprattutto, non hanno mai visto un ufficio fidi.

Nel dubbio di non essere sufficientemente chiari, la questione di cui ci stiamo occupando non è un capriccio accademico da vecchi aziendalisti, né una mera vicenda classificatoria o, come si suol dire, di tassonomia.
Attiene le banche per quanto riguarda la dolorosa storia della voce 130 del conto economico, quella che raccoglie le perdite su crediti ed annessi: ma soprattutto attiene le imprese per quanto riguarda la corretta classificazione a voce propria, ovvero l’appostazione di un credito in bonis, in osservazione, a incaglio o a sofferenza. In altre parole, a seconda del grado di deterioramento del credito, ci sono diverse classificazioni, diversi gradi di assorbimento di capitale, nel caso delle sofferenze diverse evidenze “esterne”. Se infatti incagli e sofferenze assorbono la medesima quota di patrimonio, delle sofferenze sono resi edotti tutti, attraverso la Centrale dei Rischi, mentre degli incagli si ha contezza solamente in Banca d’Italia.
Facile immaginare che ogni istituto di credito abbia ritardato la “corretta appostazione a voce propria”: altrettanto facile immaginare quanto i verbali ispettivi di Banca d’Italia siano pieni, negli ultimi tempi, di rilievi -e di sanzioni- proprio sulle “mancate corrette appostazioni”.
Stante la dura cervice di banche (ed imprese) nel prendere atto della crisi, Banca d’Italia ha pensato bene di applicare, con soli 12 (sic) anni di ritardo, la normativa europea in materia di “incagli oggettivi”.
Chissà se a Viale dell’Astronomia sanno cosa sono? Gli “incagli oggettivi” sono le posizioni scadute e sconfinanti dopo 90 giorni, ovvero le posizioni di difficoltà ritenuta temporanea ma che, allo scadere del 59esimo secondo della 23esima ora dell’89esimo giorno, che la banca voglia o no, sono segnalate a incaglio.

Con tutto quello che ne segue: non possono ritornare in bonis perché “si tratta di un cliente storico”, non possono ritornare in bonis neppure per le garanzie che avessero fornito, non possono ritornare in bonis se non vi siano elementi oggettivi che indichino che la difficoltà è stata superata. Non possono ritornare in bonis se non si presenta un piano di ristrutturazione serio e credibile, come diceva il Maestro prof.Giampaoli, che contenga significativi elementi di discontinuità rispetto al passato e non, come al solito, come ho sempre visto fare in questi anni, promesse finanziarie basate su ipotesi di consolidamento del debito e sull’ennesimo immobile da vendere.
In altre parole, il divieto di accanimento terapeutico e, soprattutto, il divieto di somministrare aspirine quando servirebbero antibiotici, sono stati sanciti ufficialmente: chissà se a Radio 24 lo sanno?

(segue: la puntata precedente https://johnmaynard.wordpress.com/2014/06/30/la-misurazione-del-rischio-di-credito-quello-che-le-imprese-non-sanno/ è stata pubblicata il 30 giugno 2014)

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Da dove cominciamo?

Da dove cominciamo?

federico_ghizzoniCi sono due domande che mi sento rivolgere quasi ogni volta che mi capita di parlare in banca di credito deteriorato. La prima è praticamente automatica ed arriva dopo avere detto che occorre porre mano alle posizioni incancrenite, quasi sempre appartenenti a “clienti storici”, “nominativi sperimentati”, “gran lavoratori”, “ottima moralità”: come facciamo a dirglielo? Risposta: in italiano.

La seconda domanda, che segue lo sconcerto nell’apprendere che la lingua italiana è ricca di espressioni per dire ad un cliente insolvente che deve rientrare è, invece: da dove cominciamo? Anche oggi ho risposto con un’ovvietà: dai peggiori. D’altra parte, persino un’idiota capirebbe che mettere a rientro i migliori non è cosa, così come non funziona, nel dubbio, il lasciare tutto com’è. Soprattutto nelle piccole banche, dove il localismo viene troppo spesso scambiato per assistenzialismo, è naturale che non ci si decida, in particolare se si è sempre deciso di non decidere, ma le regole di Basilea 3 e le ispezioni di Bankitalia urgono, dunque si deve scegliere. Sul tema sarà opportuno ritornare, perché il ruolo delle banche come “agenti della contabilità sociale” di schumpeteriana memoria non può essere troppo a lungo tralasciato: diversamente sarebbero vuota retorica le frequenti invocazioni al mercato proprie di tanti che, tuttavia, al momento di staccare la spina si distinguono per doti insospettabili di misericordia economica.

Tant’è. Ma quanto comunicato da Unicredit, i cui conti sono stati affossati da accantonamenti per 13,7 miliardi (+46,8 miliardi su base annua) dimostra due cose, ovvero a)-che si può fare pulizia nei conti: b)-che dai conti ripuliti si può ripartire per generare reddito, perlomeno nelle intenzioni. Riporta Il Sole 24Ore che “per quanto riguarda il Piano Strategico 2013-18, che prevede un utile netto di 2 mld nel 2014 e di 6,6 mld a fine periodo, questo «è basato su fondamentali solidi, una forte cultura del rischio e uno scenario macro-economico in miglioramento» ha sottolineato Ghizzoni.”
C’è, soprattutto, una componente fortissima di riduzione dei costi del personale nel piano strategico di Unicredit, e questo non può essere dimenticato (nemmeno dalle imprese alla ricerca di una banca di “relazione”: non si fanno relazioni senza il personale); al contempo, intervenire sui costi operativi e sulla famigerata voce 130 del conto economico delle banche libera patrimonio ed aiuta il reddito solo se tali azioni sono accompagnate dalla volontà di sostenere le imprese, attraverso quella “forte cultura del rischio” menzionata da Ghizzoni. La sfida raccolta da Unicredit, in anticipo su molti concorrenti, consiste allora nel sapere gestire le relazioni con meno personale ma più preparato, più attento al rapporto con il cliente e maggiormente in grado, almeno sperabilmente, di valutarne correttamente il fabbisogno finanziario. Se Unicredit non tornerà a vendere derivati, come ai tempi di Profumo, la sfida lanciata con la pulizia dei conti ed i progetti per il dopo riguarda non solo le altre banche, ma tutto il sistema delle imprese, chiamato a scegliere e a farsi scegliere da finanziatori inevitabilmente più selettivi: nella consapevolezza che l’asticella, rispetto al passato, è molto, molto più in alto.