La misurazione del rischio di credito 2 (quello che le imprese ignorano completamente).

Riassunto della puntata precedente: come si misura il rischio di credito? E, soprattutto, sulla base di quali unità di misura?
Più di una volta, in carriera, mi è capitato di imbattermi in imprenditori che raccontavano di un rapporto banca-impresa vissuto quasi religiosamente, con il cappello in mano appena si entrava in filiale. Impressione corroborata, come le profezie auto-avverantisi, da una percezione della misurazione del rischio di credito quasi esoterica, legata a volontà soprannaturali e/o a fattori imponderabili, giammai a criteri oggettivi e condivisi.
Facile immaginare come migliore la percezione della catena di comando nelle banche di credito cooperativo (nelle quali puoi parlare con tutti e rompere le scatole a tutti, anche il presidente, anche se non meriti credito…) ma, soprattutto, lamentarsi, perché immancabilmente “ottime idee” venivano cassate, perché “le banche sanno solo valutare/vogliono solo le garanzie”, perché “in Italia non c’è concorrenza e invece le banche estere…”.
L’ottimo Sebastiano Barisoni di Radio 24, sempre lui, e con lui tutte le associazioni di categoria (ma Confindustria è più colpevole di altre, per autorevolezza, sia pure declinante, e per dimensioni dell’organizzazione) non solo preferiscono continuare a lamentarsi di Basilea 3, ma continuano a trascurare un piccolo particolare: che nel rapporto banca-impresa occorre sicuramente scegliere (la banca), ma anche farsi scegliere. E per farsi scegliere sarebbe opportuno conoscere i criteri della scelta di chi decide.
Pare a chi scrive che tuttora tali criteri siano:
• perlopiù ignoti alle imprese, soprattutto se Pmi, anche se noto ultimamente, nel mio turismo finanziario, una maggiore sensibilità al riguardo;
• quasi mai condivisi dalle banche (che confondono la riservatezza sui rating con quella relativa alla valutazione del fabbisogno finanziario) che vogliono mantenere la loro totale ed insindacabile discrezionalità;
• lasciati in mano a pessimi ingegneri informatici, ovvero agli unici responsabili, nel bene e nel male, delle scelte dei modelli di analisi che le banche usano: oddio, ci sono un bel po’ di Colleghi che collaborano alle scelte dei modelli, ma non hanno mai visto una Pmi e, soprattutto, non hanno mai visto un ufficio fidi.
Nel dubbio di non essere sufficientemente chiari, la questione di cui ci stiamo occupando non è un capriccio accademico da vecchi aziendalisti, né una mera vicenda classificatoria o, come si suol dire, di tassonomia.
Attiene le banche per quanto riguarda la dolorosa storia della voce 130 del conto economico, quella che raccoglie le perdite su crediti ed annessi: ma soprattutto attiene le imprese per quanto riguarda la corretta classificazione a voce propria, ovvero l’appostazione di un credito in bonis, in osservazione, a incaglio o a sofferenza. In altre parole, a seconda del grado di deterioramento del credito, ci sono diverse classificazioni, diversi gradi di assorbimento di capitale, nel caso delle sofferenze diverse evidenze “esterne”. Se infatti incagli e sofferenze assorbono la medesima quota di patrimonio, delle sofferenze sono resi edotti tutti, attraverso la Centrale dei Rischi, mentre degli incagli si ha contezza solamente in Banca d’Italia.
Facile immaginare che ogni istituto di credito abbia ritardato la “corretta appostazione a voce propria”: altrettanto facile immaginare quanto i verbali ispettivi di Banca d’Italia siano pieni, negli ultimi tempi, di rilievi -e di sanzioni- proprio sulle “mancate corrette appostazioni”.
Stante la dura cervice di banche (ed imprese) nel prendere atto della crisi, Banca d’Italia ha pensato bene di applicare, con soli 12 (sic) anni di ritardo, la normativa europea in materia di “incagli oggettivi”.
Chissà se a Viale dell’Astronomia sanno cosa sono? Gli “incagli oggettivi” sono le posizioni scadute e sconfinanti dopo 90 giorni, ovvero le posizioni di difficoltà ritenuta temporanea ma che, allo scadere del 59esimo secondo della 23esima ora dell’89esimo giorno, che la banca voglia o no, sono segnalate a incaglio.
Con tutto quello che ne segue: non possono ritornare in bonis perché “si tratta di un cliente storico”, non possono ritornare in bonis neppure per le garanzie che avessero fornito, non possono ritornare in bonis se non vi siano elementi oggettivi che indichino che la difficoltà è stata superata. Non possono ritornare in bonis se non si presenta un piano di ristrutturazione serio e credibile, come diceva il Maestro prof.Giampaoli, che contenga significativi elementi di discontinuità rispetto al passato e non, come al solito, come ho sempre visto fare in questi anni, promesse finanziarie basate su ipotesi di consolidamento del debito e sull’ennesimo immobile da vendere.
In altre parole, il divieto di accanimento terapeutico e, soprattutto, il divieto di somministrare aspirine quando servirebbero antibiotici, sono stati sanciti ufficialmente: chissà se a Radio 24 lo sanno?
(segue: la puntata precedente https://johnmaynard.wordpress.com/2014/06/30/la-misurazione-del-rischio-di-credito-quello-che-le-imprese-non-sanno/ è stata pubblicata il 30 giugno 2014)
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