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ABI Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa

Il credit crunch? Non esiste (La gestione del credito deteriorato 2).

Il credit crunch? Non esiste. (La gestione del credito deteriorato 2).

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Mentre si fa un gran parlare di TFR e gli imprevidenti (ovvero, quasi tutti gli imprenditori) si scagliano contro l’idea renziana, perché “metterà in ginocchio milioni di imprese“, qualcuno dovrebbe chiedersi come mai, senza pagare un centesimo di TFR, vi siano già ora imprese indebitate fino al collo. In una banca locale della Lombardia, non più tardi di qualche giorno fa, mi sono imbattuto in una situazione a loro dire “delicata“, rappresentata da un’impresa “cliente storico“, “buon nominativo“, con palese mancanza di equilibrio economico e capacità di rimborso, perlomeno negli ultimi tre anni. Poiché di rado le crisi scoppiano all’improvviso e, di norma, nascono lontano nel tempo, mi sono messo a guardare con gli addetti dell’ufficio fidi sia il magazzino (gonfiato all’inverosimile: trattasi di Società per azioni, con collegio sindacale di avventurieri=difesa dell’Inter contro il Cagliari) sia l’andamento storico dei bilanci: scoprendo quello che purtroppo viene fuori sempre più spesso, ovvero che le difficoltà non solo pre-esistevano rispetto agli anni più duri della crisi, ma già all’epoca venivano nascoste. Quei bilanci sono manifestamente gonfiati -perlomeno dal 2005- alla voce magazzino, ma nessuno ha avuto mai il coraggio di dirlo: e, soprattutto, nessuno ha mai avuto il coraggio prima di staccare la spina.

Con il risultato paradossale che il mor(to)ibondo, pronto per essere imbustato dal coroner, si ribella, quasi che il rigor mortis fosse un’opinione. Incomincio a pensare che il credit crunch, quello sì, sia un’opinione. E che, come afferma un mio collega, forse dovremmo cominciare a chiamare le cose col loro nome e smettere di pensare alla crisi come qualcosa di passeggero, ma al momento attuale come qualcosa che certifica stabilmente un mutamento. Prima cominciamo a chiamare le cose con il loro nome, prima affronteremo la realtà, secondo la totalità dei suoi fattori.

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The developers (gli sviluppatori).

The developers (gli sviluppatori).

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L’arrivederci, è vero, era per la prossima season. Ma una rete produttrice di “series” che si rispetti diffonde sempre, astutamente , quelli che io mi ostino a chiamare “provini” (sono nato negli anni ’50 e vivo nella profonda provincia padana). Adesso, i nativi–digitali li chiamano “spoiler”.
Ecco quello della season 2014-2015 della serie “The Developers” .
A dispetto del titolo, sceneggiatura, cast e regia sono italiani. Produttori , inconsapevoli, una pletora di soci, titolari ciascuno di un numero variabile di certificati azionari.
La camera stringe sulla finestra della sede di una piccola banca Cooperativa ( come si riconosce? Dai vetri bronzati e dalla esposizione a sud – sud – ovest, che garantisce agli impiegati un irraggiamento che nemmeno un vigneto della Franciacorta.)
Viene inquadrato un cinquantenne stempiato e grigio, con occhialini da presbite, cravatta allentata su colletto discutibilmente pulito. Veste un completo grigio scuro liso sui gomiti, decorato dalla regolamentare spruzzata di forfora sulle spalle.
Dato l’irraggiamento di cui sopra, suda, malgrado il calendario (quello del sindacato) sulla scrivania indichi che siamo a marzo 2015. Accanto al calendario, un cavalierino indica che questa figura dickensiana appartiene all’ufficio “istruttoria fidi imprese ” .
Attorno, un turbinio di abbronzati trentacinquenni in completi/tailleur avvitati, carta da zucchero o neri ( “The developers” del titolo). Occhi stretti, bocche serrate in una smorfia determinata. Si muovono intorno alla scrivania con eleganza da tangueros.
Ognuno di loro getta un dossier cartaceo (non dimenticate che siamo in una piccola banca cooperativa) sulla scrivania del malcapitato.
Tutti ripetono la stessa battuta: “da fare per il Consiglio di dopodomani!!!”.
La camera stringe sulle copertine dei dossier, a inquadrare intestazioni ed importo:
“immobiliare …. ; Apertura di credito in c/c chirografaria € 1.500.000”
“…. Costruzioni ; Mutuo ipotecario a S.A.L. € 5.000.000”
“ Napo ti Svapo Sigarette Elettroniche : mutuo chirografario € 50.000 “
In breve il mucchio di pratiche raggiunge dimensioni condominiali.
Il povero impiegato apre e sfoglia le cartelline.
La domanda non è firmata. I certificati risalgono a due anni prima, l’ultimo bilancio è del 2012. Tutte le operazioni ipotecarie sono prive di perizia.
Il Bob Cratchit cooperativo guarda in macchina con occhi sbarrati sopra gli occhialini da presbite e balbetta:
“ Ma… ma … , non ce la farò mai ! Manca metà della roba ! Devo riclassificare i bilanci ! Fare l’analisi ! scrivere il commento …”
Una voce fuori campo chiosa:
“Di cosa ti preoccupi ? tanto, praticamente sono già deliberate. Qui dobbiamo fare sviluppo e stare sul pezzo, non riempire scartoffie !”

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L’inquadratura inizia a sfumare.
In sottofondo, Ignazio Visco all’assemblea nazionale dell’ABI del 10 Luglio 2014:
La capacità di valutare il merito di credito va rafforzata; non deve basarsi solo sugli automatismi di modelli quantitativi, ma avvalersi del contributo di personale esperto e competente , con patrimonio di consolidata e approfondita conoscenza della clientela, che deve essere valorizzato e accresciuto”.
La camera allarga e cambia, inquadra un appartamento in zona semi residenziale e stringe sul nostro Bob Cratchit, addormentato.
E’ stato tutto un sogno? Oppure …

Ciao, John Maynard. In attesa di vedere pubblicata una veduta delle Dolomiti di Brenta, presa da una finestra dell’ Hotel Beverly di Pinzolo, ti auguro una buona estate.

Tuo Brett Sinclair

 

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La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

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Il tema del razionamento o credit crunch ha tenuto banco tra gli addetti ai lavori praticamente dall’inizio della crisi, con punte particolarmente accese nella prima fase delle operazioni di LTRO della Banca Centrale Europea, quelle che hanno fatto dire a taluni geni della finanza che le banche si tenevano i soldi anziché destinarli alle imprese. Ricordo in proposito una esemplificazione, peraltro assai efficace, apparsa sul Sole 24 Ore, che stimava nel 2 per mille il residuo effettivamente a disposizione del mondo delle imprese, una volta terminati tutti i passaggi di 1000 euri messi a disposizione da parte della BCE.
Effettivamente un po’ pochini, se si guarda alla proporzione, in realtà, probabilmente quello che ci voleva perché il sistema non andasse al collasso e si materializzasse l’incubo (quello che tutti fingono di dimenticare quando parli loro di salvataggi bancari) del bank run o corsa agli sportelli.
Mentre si salvavano le banche –o meglio, si metteva in sicurezza il sistema finanziario europeo, del che si deve ringraziare Mario Draghi, che Dio ce lo conservi a lungo- si irrobustivano i requisiti di capitale, con buona pace di Sebastiano Barisoni e si sistemavano le regole. Del che abbiamo dato conto nelle puntate precedenti di questa serie di considerazioni incentrate sulla misurazione del rischio di credito.
Ora la tentazione potrebbe essere quella di dire “Bene, siamo a posto, tutto è come deve essere, a questo punto nulla più può ostacolare l’afflusso di credito alle imprese”. Probabilmente qualcuno lo ha già detto o lo sta dicendo. Niente di più sbagliato.
Le regole, e con loro l’ispessimento dei requisiti di capitale per le banche, non fanno la cultura del rischio; non garantiscono una cultura delle relazioni di clientela basta sulla trasparenza reciproca; non impediscono a imprenditori avventati di compiere passi più lunghi della gamba, non in omaggio agli spiriti animali, ma molto più banalmente alla ricerca di scorciatoie per la ricchezza o di sistemazioni personali o di capannoni inutili; soprattutto le regole non possono impedire che il mercato faccia il suo lavoro, ovvero cacci via le imprese decotte, inefficienti, incapaci.
Non si può invocare il mercato nei giorni pari ed in quelli dispari, come hanno fatto i c.d. “forconi”, chiedere interventi statali, sussidi, finanziamenti bancari. Se a qualcuno piace ancora il mercato, ricordi quanto diceva Schumpeter circa le banche “agenti della contabilità sociale” nonché, più recentemente, Zingales descrivendole efficacemente come “beccamorti del sistema economico.”
Le banche devono fare istruttorie fatte bene, molto migliori di quelle attuali, per non parlare di quelle in cui siamo stati abituati in tempi passati: e devono scegliere, dicendo dei sì e dicendo dei no, ma anche spiegandoli. E devono, molto più velocemente che in passato, far saltare le imprese a cui hanno prestato denari che non ritorneranno.
Ma le imprese devono mettere le banche in condizioni di sceglierle, ovvero devono raccontare sé stesse ed i propri progetti.
E per spiegare sé stesse c’è solo un sistema: capire a che punto si è, valutare seriamente e realisticamente quello che si sta facendo, misurare la correttezza del proprio operato confrontandosi. Non c’è insieme di regole che possa far nascere la cultura d’impresa, per soggetti che pensano che il mercato sia far nascere 10 bar nel giro di 200 mt. (provare per credere, basta venire nel mio quartiere a Rimini. N.B.: non sto al mare…) pensando che tutti sopravviveranno tra ricchi premi et cotillons. Non ci sono regole, per quanto bene scritte, che possano impedire a qualcuno di sognare che acquistare un tabacchino, un’edicola, la pensione Iris-con-vista-ferrovia, una rosticceria o un bar: ci possono essere solo i no delle banche, ma ad evidenza non possono bastare.
Su questo punto, soprattutto pensando alle Pmi, la palla è nel campo di professionisti ed associazioni: e, a quanto pare, è ancora tutto da dissodare.

Ultima puntata. La puntata precedente è stata pubblicata il 2 luglio 2014)

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Banca d'Italia Banche Vigilanza bancaria

Come una sentenza.

Come una sentenza.

The good the bad and the ugly_2 Un articolo di Maximilian Cellino sul Sole 24Ore di ieri rammenta a tutti che dal primo gennaio è entrata in vigore “Basilea 3”, ovvero l’insieme di regole che mutano il quadro regolamentare riguardo ai rischi che le banche possono assumersi. Coerentemente all’impostazione del giornale per cui scrive (ed a tante filippiche ascoltate su Radio 24, per esempio da parte di Sebastiano Barisoni) Cellino dipinge un quadro molto pessimistico, nel quale è facile riconoscere un colpevole, il regulator (ed i politici in generale) ed una vittima designata, ovvero le Pmi. Basilea 3, alla stregua di una sentenza già scritta, condanna le Pmi al credit crunch, con tutte le conseguenze immaginabili. Può essere certamente così, anche se le stesse preoccupazioni, più di dieci anni fa, occupavano le pagine dei giornali riguardo a Basilea 2 e poi quello che accadde fu credito più facile per tutti. Le imprese talvolta sembrano avere la memoria corta: quando invocano più mercato e più selezione dimenticano (forse?) che la selezione riguarda anche il merito di credito, ovvero la capacità di reddito e di rimborso. E che sostenere aziende decotte, da parte delle banche, sottrae risorse a quelle sane e falsa il mercato. Riparliamone.

Buon 2014.

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Banche Banche di credito cooperativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Mini-bond e illusioni sviluppiste.

Mini-bond e illusioni sviluppiste.

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La convalescenza lascia tempo alla lettura e il Corriere della sera di oggi era bello robusto. Nelle pagine economiche Fabio Savelli riporta la storia della Caar, società piemontese di ingegneria, con 80 dipendenti e 4,5 mln.di € di fatturato, che ha collocato un mini-bond a 5 anni di 3 mln.di €. Non ci è dato di sapere a quanto ammontasse l’indebitamento senior, ma nuovo debito pari a 2/3 del fatturato non sembra proprio uno scherzo: nell’articolo non si parla di Mol o di redditività, ce ne faremo una ragione. Tuttavia, il responsabile finanza della Bcc di Cherasco –arranger dell’operazione- giura che la situazione patrimoniale fosse di prim’ordine (con buona pace dell’analisi della capacità di reddito, che evidentemente non è più di moda, o forse non lo è mai stata: che abbiano guardato il current test ratio? o forse il margine di struttura?) e, soprattutto, che fosse convincente il business plan, elaborato nei minimi dettagli. Il titolare della Caar, a sua volta, giura che nessuna banca avrebbe finanziato l’operazione (ma chissà se è stata veramente presentata a qualcuna di esse).
L’emissione del mini-bond ha consentito nuove assunzioni in Caar per un numero di 4 unità, e di questo non possiamo che rallegrarci, così come del superamento del ben noto “vincolo-finanziario-allo-sviluppo-delle-Pmi“, poiché, almeno nella fattispecie, i denari arrivati dal mini-bond serviranno a nuove acquisizioni e ad una crescita per linee esterne.
Mancano alcune notizie, non secondarie, dal momento che dopo l’emanazione del decreto sviluppo sono solo 6 (sei) le imprese che in tutta Italia hanno fatto ricorso ai c.d. mini-bond; e se lo strumento funziona così bene, in modo da consentire ad un’impresa di indebitarsi fino ad 2/3 del proprio fatturato, come mai è così poco diffuso in tempi di lamento sul credit crunch?
Quanto è costata l’operazione, a parte la trasformazione in SpA? Chi sono i sottoscrittori dei mini-bond (perché qualcuno se li deve essere comperati: e se non sono le banche, che sono cattive per definizione e non finanziano i progetti, chi è stato? risparmiatori rimbambiti? speculatori? indonesiani nerazzurri)? Quanti e quali collaterali sono serviti? E, infine, come era la situazione economico-finanziaria della Caar al momento dell’emissione? Proporre strumenti di mercato mobiliare come panacea per la soluzione dei problemi finanziari, senza tenere conto degli altri pezzi della realtà, assomiglia molto alla conclusione del film di Sergio Leone che amo di più, C’era una volta in America: quando Robert De Niro si stende a fumare l’oppio, dimenticando tutto il resto.

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Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Un articolo dell’ottimo Fabio Pavesi sul Sole 24Ore on line di ieri riporta le stanche considerazioni del Centro Studi Confindustria su come (sperabilmente) uscire dalla stretta creditizia. JM forse è incattivito dalla crisi e dalle circostanze -e la cattiveria induce talvolta al cinismo- ma leggere che la finanza innovativa, i mini-bond, i bond di distretto e le cartolarizzazioni (sic) potrebbero essere, secondo Confindustria, una soluzione al credit crunch non offre nemmeno il brivido di una promessa elettorale allusiva ed affascinante, ma che non può essere mantenuta. Leggere che secondo il Csc nuovi finanziamenti «vanno trovati aprendo canali alternativi a quello bancario, da tempo individuati ma mai diventati realmente efficaci» e «bisogna superare i tradizionali limiti di accesso delle aziende italiane ai mercati»; che maggiori risorse «devono venire dal capitale proprio delle imprese. Ciò richiede il rilancio di vari strumenti. La crisi ha frenato in Italia lo sviluppo del mercato del private equity, importante per le PMI che non accedono alla Borsa. Anche l’espansione degli strumenti ibridi di capitale, come il mezzanine finance, va rilanciata»; ecco, leggere tutto questo è deprimente. Deprimente come l’avvertire la vacuità di parole d’ordine che Confindustria ripete stancamente da anni, pensando che il problema siano gli strumenti e non, per esempio, la mancanza di trasparenza delle Pmi, la loro modestissima -quando non assente- propensione al to go to market, la chiusura al capitale esterno, tranne che per il debito. Il private equity è invocato ritualmente, come la manna da cielo; ma mentre la manna era per tutti, il private equity è per pochi e in Italia si fa solo per operazioni che non riguardano la fase iniziale del ciclo vitale dell’impresa. Ciò di cui il Csc, al solito, non parla è ciò che è più faticoso, ovvero rilanciare il rapporto banca-impresa, coinvolgere entrambi i protagonisti della relazione di clientela in un rapporto trasparente e fiduciario, provando a condividere giudizi, culture, tecniche e, vivaddio, anche strumenti. Anche: perché  non c’è mercato dei capitali che tenga per chi non voglia attingervi con coscienza e responsabilità.

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#disperatimai 2, come rendere tutto inutile.

#disperatimai 2, come rendere tutto inutile.

Un’imprenditrice su Twitter mi ha segnalato questo manifesto della CNA: che faccio fatica a guardare per quanto è terribile, che faccio fatica a commentare. Anche se è difficile tacere.

Credevo di poter volare, ma la mia banca mi ha tagliato le ali. Un’impresa senza credito è un’impresa senza futuro. Ho tentato di leggere in quella foto una sorta di volo di Icaro malriuscito, un decollo difficile, qualcosa che non fosse quello che è: una donna che si ammazza. Il messaggio è chiaro ed inequivocabile, ed è anche molto manicheo: i sogni muoiono all’alba, e li uccidono le banche. La gente si ammazza per colpa delle banche, non ci sono altre cose da aggiungere, non ci sono altre spiegazioni da dare. Persino Oscar Giannino lancia un messaggio ambiguo, richiamando il D-day degli edili, che protesteranno contro lo Stato che non paga; come se lo Stato fosse l’unico cliente di tutti quanti, come se dipendesse tutto e solo dallo Stato, come se le imprese fossero solo buone e virtuose, non avessero commesso mai errori, non si fossero gettate, per prime, nella pazzesca corsa alla bolla immobiliare.

Ho avuto pudore a parlare dei suicidi, mi sembra sempre di entrare a gamba tesa laddove bisognerebbe entrare in punta di piedi: e pregare, nulla di più. Qualche tempo fa sul Foglio, Cristina Giudici scrisse articoli sui primi suicidi degli imprenditori veneti che dovrebbero essere riletti e mandati a memoria, per capire meglio. Ma era la prima parte della crisi, quella che non pensavamo sarebbe durata fino ad ora, senza la W, il double dip. Ora siamo nella parte discendente della seconda v, e non se ne vede la fine: lo Stato non paga, le banche tolgono il credito, gli imprenditori si ammazzano.

Bisogna dirlo, fare manifesti così non serve a nulla: non educa nessuno, non aiuterà nessuno a riprendere in mano la propria responsabilità personale, chiedendosi per cosa valga la pena vivere e, dunque, anche fare impresa. Fare manifesti così serve solo a dare la colpa a qualcuno ed a questuare: non a chiedere, a questuare, insistentemente, come un mendicante che fa questo come mestiere, come lavoro. Come professione, come le prèfiche che piangevano a pagamento nei funerali romani. Fare manifesti così non aiuterà nessuno a chiedersi da cosa potrebbe ripartire ed in che modo, eliminerà le domande e lascerà solo il lamento, perché tanto è colpa di qualcun altro. Non servono gli amici, i consulenti, il prete, figuriamoci le associazioni (già, le associazioni: la CNA lo è); non serve confrontarsi, non serve farsi aiutare, non serve nulla, perché tanto la colpa è delle banche. Oggi mi parlavano di una coppia di imprenditori che ha chiesto, con suprema disinvoltura, alla propria banca, un prestito di quasi 80mila € per comprare l’auto nuova, senza possedere né capacità di reddito, nè capacità di rimborso: qual’era il sogno di questi signori? Che nel frattempo si sono comprati un capannone, ovviamente. Qualche anno fa la professoressa decana della mia Facoltà, in uno scatto d’ira per lei assai frequente, disse che il guaio dell’Italia era il troppo cattolicesimo: perché si perdonava tutto. Si sbagliava. Ce ne vorrebbe molto di più, molto più di quanto immaginiamo. Per imparare dal cristianesimo come incominciare a guardare con misericordia almeno noi stessi.

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Banche BCE Bolla immobiliare Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

#disperatimai, una risposta a Flavio.

#disperatimai, una risposta a Flavio.

Dal blog di Simone Spetia traggo la lettura di una lettera che mi permetto di commentare e, commentandola, vi rispondo. Ricorda Spetia che “oggi Radio24 dedica la sua programmazione a artigiani, professionisti, imprenditori e lavoratori schiacciati dalla crisi. A Prima Edizione la lettura di una delle prime lettere che ci sono arrivate a disperatimai@radio24.it”.

Ed ecco la lettera, in corsivo. I commenti-risposte sono in grassetto.

La mia è una storia uguale a mille altre, che condivido con altri miei colleghi. Ho una piccola impresa nel settore del commercio edile, -il primo aspetto: un settore in bolla da tanti anni, che qualcuno pensava potesse solo crescere- con un giro d’affari di circa 4 milioni di euro. Nel 2008, prima della crisi, avevamo affidamenti bancari per 2 milioni, -secondo aspetto: un’attività commerciale, con margini di norma non molto elevati, che ha debiti bancari pari alla metà del fatturato; come li ripagherà?  con i quali  abbiamo finanziato investimenti -temo di sapere di che investimenti si tratti: è una commerciale, non una manifatturiera, non trasforma nulla, non servono investimenti particolari: temo che Flavio e soci abbiano comprato un inutile capannone-. Dal 2009 è iniziato a cambiare il mondo. I nostri clienti (costruttori) hanno cominciato andare in crisi, poi a non essere regolari con i pagamenti e le cose sono andate peggiorando. Poi sono arrivate le perdite sui crediti con i fallimenti e le chiusure (un nostro cliente si è suicidato il 31 dicembre). Da lì sono iniziate le tensioni finanziare, il rating bancario è peggiorato e le banche hanno ridotto gli affidamenti. Dalla crisi al panico. Oggi (aprile 2012) abbiamo affidamenti per 850mila euro, gli ultimi 100mila ci sono stati ridotti 1 mese fa (alla faccia dei finanziamenti della Bce alle banche italiane). -qualcuno che non sia il prof.Berti, il quale non conta notoriamente nulla, può cominciare a guardare in faccia la realtà e spiegare a tutti che i quattrini BCE servono a non far diventare illiquide le banche che non hanno ancora messo a rientro tutti quelli che avrebbero dovuto, ovvero a salvaguardare i risparmiatori?- Siamo nel panico … la continua diminuzione dei fidi ci sta facendo fallire. -mi spiace, ma non si può dire questa cosa senza riflettere: non è la continua diminuzione dei fidi che sta facendo fallire l’azienda di Flavio, ma il mercato nel quale lavorano, che è in crisi di sovrapproduzione strutturale: ovvero di eccesso di offerta sulla domanda, irrimediabile, irreversibile. Dire che la bolla è colpa delle banche è troppo facile: che le banche l’abbiano assecondata, non c’è dubbio, ma a questo punto, se mai qualcuno non l’avesse capito, il problema è del mercato immobiliare in sè, non delle banche cattive- Non riusciamo ad onorare i fornitori, e gli stessi ci bloccano le forniture finché non paghiamo il debito. Stiamo vivendo alla giornata e non so quanto riusciremmo a sopravvivere. Stiamo ristrutturando, riducendo i costi più possibile, risparmiamo anche sul toner della stampante e fra licenziamenti e cassa integrazione permanente abbiamo ridotto di 5unità su 16. Altre ne verranno in futuro. -Forse sarebbe anche il caso di ripensare radicalmente al business in sè: l’edilizia in quanto tale non va più, e non andrà più a lungo, per tanto tempo. Ci sono troppe case, poco spazio, poche persone per abitarle. Non basta? Tagliare i costi non basta, si deve ripensare al lavoro, a farne un altro, letteralmente- Abbiamo proprietà immobiliari che valgono più del doppio del nostro debito, -no Flavio, non valgono, valevano più del doppio del vostro debito: ora valgono solo se vi decidete ad abbassare, e di molto, i prezzi, se accettate di perdere su beni il cui mercato è caratterizzato da troppa offerta e nessuna domanda.-   ma ad oggi non siamo riusciti a vendere e realizzare per autofinanziarci. –Fatevi una domanda sui prezzi che esigete e chiedetevi se prevale l’esigenza di autofinanziarvi, realmente, o quella di non perdere rispetto al valore che avete fissato dentro di voi per quegli immobili, che è puramente teorico.- Se non succede un miracolo prima delle ferie di Agosto abbiamo chiuso. A mio modesto modo di vedere la politica è lontana dalla realtà! … per noi non è un problema dei costi della politica, … dei benefit dei politici, .. dei finanziamenti pubblici, .. dell’art. 18, .. per noi il problema è la crescita!!! … è il finanziamento alle PMI!!! .. il mercato non c’è!! … e le banche!!!!!!!! Sono quelle che ci hanno rovinato dandoci affidamenti in momenti di abbondanza. -ma, Santiddio, quando chiedete i finanziamenti non vi chiedete mai se potrete renderli?? Davvero avete firmato le pratiche pensando che il debito fosse una passeggiata di salute? Ma siete imprenditori o cosa?? Chi deve preoccuparsene? Di chi è l’azienda??- Con tali affidamenti ci siamo esposti, e nel momento di crisi ci obbligano al rientro. Per noi è una batosta!!! … pensate che se le banche non avessero chiesto il rientro, nonostante la crisi e le perdite su crediti “staremmo ancora bene”  -no Flavio, non stareste ancora bene: semplicemente sareste ancora più indebitati e, probabilmente, i vostri debiti, supererebbero il fatturato: è pensabile una simile follia?ma così non si può andare avanti
Saluti, Flavio

Infatti così non si può andare avanti. Si può e si deve chiedere allo Stato, alle associazioni, ai commercialisti, alle università, di lavorare su percorsi di ristrutturazione e riconversione, di formazione, mai abbastanza predicata e frequentata. Perché non si possano più dire certe cose, senza riflettere, perché certe cose servono solo a dire che la colpa è di qualcun altro, banche in particolare. Perché, soprattutto, si cominci a pensare all’impresa in termini di responsabilità personale: sull’antropologia, sul modo di essere e di vedere il mondo delle persone si può lavorare solo a livello personale, con l’educazione. Fra l’altro, a non pensare che si sia definiti, come parola ultima, da un fallimento. Noi valiamo molto di più degli immobili nei quali riponiamo le nostre speranze.

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Banco ex machina.

Banco ex machina.

Come nelle tragedie greche si aspetta l’intervento finale del deus ex machina, cioè di una divinità che interviene a dipanare una matassa ingarbugliata al punto tale da poter essere sbrogliata solo da mani “superiori”, così anche nella travagliata storia tutta italiana del rapporto tra banche ed imprese si invoca un intervento dall’alto. Sia esso della BCE, sia esso del Governo, sia la c.d. “frustata sviluppista” per la quale servirebbe un domatore (o un negriero? o un sadico?), nessuna delle parti ci mette il suo: le imprese chiuse nella litania dell’ abbiamo già dato, le banche che negano l’evidenza del credit crunch e che, soprattutto, sono illiquide. Venerdì scorso, durante una giornata di formazione sugli aspetti di prevenzione del deterioramento dei crediti, man mano che la lezione procedeva i partecipanti continuavano a commentare, in maniera sempre più ampia, gli argomenti trattati. Fino a che, richiesti di giustificare la loro “agitazione” una delle partecipanti mi ha detto:”Non c’è un singolo argomento che lei abbia trattato per il quale io non abbia in mente nomi e cognomi, facce e situazioni dei miei clienti“. E un’altra collega, alla fine della lezione, ha testualmente affermato di essere stanca di ascoltare cose che sa già: e di essere, letteralmente, stanca della realtà.

Così le banche ripetono la stanca litania che non ci sono più soldi, omettendo di ricordare le pessime operazioni fatte nel recente passato, soprattutto per quanto riguarda la bolla immobiliare, che esse hanno contribuito a gonfiare a dismisura. E le imprese lamentano di avere già dato, di non farcela più, di essere strangolate.

Dal dibattito restano lontane le questioni della responsabilità personale, ovvero delle scelte che sono state fatte e che sono da fare. Nelle banche, per quanto riguarda il personale tecnico ma, a questo punto, anche quello direttivo e, soprattutto nelle bcc, gli amministratori, la capacità di misurare correttamente il rischio di credito e di conseguenza il fabbisogno finanziario delle imprese. Per queste ultime, la questione delle carenze in materia gestionale e finanziaria, la mancanza di consapevolezza circa natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario, la mancanza di coscienza circa le leve da azionare. Non ci si può parlare se non ci si sa raccontare: e ascoltare senza capire, non serve a nulla.

Nessuna banca può rimediare un conto economico con il risultato operativo che segna rosso: nessuna banca può licenziare per te, esportare per te, innovare per te. Devi farlo tu. Ma nessuna impresa può fare il mestiere della banca, istruttorie chiare, efficaci ed efficienti. La questione non è appena tecnica, perchè riguarda la posizione umana, anche sul lavoro, fare impresa o banca che sia. La questione, al solito, è educativa.

 

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Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Grazie all’ottimo Carlo Alberto Carnevale Maffè e con il contributo fattivo di Fabio Bolognini (e l’intenso appoggio morale del sottoscritto) è stata organizzato nella giornata di ieri, a Milano, un incontro di discussione sul tema del credit crunch e del problematico rapporto banca-impresa. Poiché gli interlocutori, riuniti solo l’egida dell’associazione The Ruling Companies, erano di assoluto spessore (fra gli altri, Davide Croff, Franco Keller e il direttore di Confindustria Bergamo, Venturini), le riflessioni che ne ho tratto sono tanto più rilevanti perché provengono da osservatori qualificati, personaggi del mondo dell’imprenditoria e della finanza attenti alla realtà, leader non banali nel loro settore.

La prima riflessione marziana che emerge dal pomeriggio di ieri riguarda quelle che Akerlof e Shiller chiamano “narrazioni“, ovvero il modo di rappresentare la realtà che qualcuno utilizza. Le narrazioni sono personali, ad evidenza, pretendere che siano oggettive è negare il valore dell’esperienza di chi le condivide: ma ascoltare, per esempio, che “ormai quasi tutte le imprese adottano processi di programmazione e pianificazione economica e finanziaria” mi ha fatto domandare se vivere nella metropoli sia così distorsivo della realtà. La programmazione finanziaria, come emergeva da una ricerca che il sottoscritto, il prof.Comana ed altri colleghi dell’Università di Bergamo e non solo presentammo nel 2004, proprio a Confindustria Bergamo, veniva adottata, anche in quel caso lì (non proprio una zona sottosviluppata e periferica) da n.2 (due: two; deux; zwei; dos) imprese sul totale del nostro campione, di cui non poche quotate. Che riferimento alla realtà è quello che è stato offerto ieri? Come hanno fatto certe imprese ad inguaiarsi se non per mancanza di programmazione economico finanziaria? Di cosa stiamo parlando?

Seconda riflessione marziana. Mentre si afferma che le banche hanno smarrito la capacità di analizzare e valutare il merito di credito (sacrosanto), incolpandone la delega ai computer per la valutazione del rischio (qualcuno di quelli che hanno creato valore in quel modo c’era ieri? se c’era, si vergognava? o si è dimenticato? Croff, presidente di due banche brillantissime?), si sostiene, con impunità degna di miglior causa, che in questo modo non emergono gli intangibles, così decisivi nella valutazione delle imprese. Ancora gli intangibles? Un disco rotto, che nemmeno la creazione di valore si porta più, eppure qualcuno ci prova. Domanda corrosiva di JM fatta via twitter, e non amplificata perché corrosiva: ma se gli intangibles sono così importanti, chi càspita ha comprato tutti i tangibles che intasano il mercato immobiliare, quello delle garanzie e la liquidità bancaria?

Terza riflessione marziana. In palese spregio al principio di non contraddizione, il dir.gen. di Confindustria Bergamo afferma  che: a)-se si reca nelle valli e lungo i litorali (come la nebbia) a parlare con gli associati, non può parlare loro di finanza e di fabbisogno finanziario, perché non ne capiscono nulla; b)-che alla faccia di tutto ciò, fra i 4 punti principali che la sua associazione enfatizzerà, vi è, oltre alla globalizzazione, ai tempi accelerati, all’internazionalizzazione, la responsabilità sociale dell’impresa. La responsabilità sociale dell’impresa: detto dal dir.gen.dell’associazione territoriale che ha espresso il neo-presidente di Confindustria, non fa bene sperare per la soluzione dei problemi del rapporto banca-impresa. Probabilmente, come ha affermato uno dei relatori, esiste il credit crunch ed il credit crunch “percepito”: a Bergamo non percepiscono (scommettono sulle partite di calcio?).

Quarta riflessione. Uno dei principali cattivi pagatori quotati alla borsa italiana, che afferma di avere tempi lunghi ma di essere sempre regolare (regolare nel tirare il collo ai fornitori, per esempio contestando regolarmente l’ultima tranche di pagamenti) se ne viene fuori affermando che la crisi di liquidità del circolante è causata dall’inasprimento dei requisiti patrimoniali imposta dalla BCE e dalle regole di Basilea 3, quelle che entreranno in vigore nel 2019. Any suggestion is welcome.

Infine. In un soprassalto di crudo realismo, quello che ho notato essere talvolta chiamato cinismo o “essere corrosivi”, qualcuno ha detto che

  1. i margini delle imprese di sono compressi e che non è più conveniente investire per gli imprenditori nelle imprese;
  2. per risolvere le crisi ci vogliono i soldi.

E che i soldi sono finiti. Bene. Se è così, qualcuno è in grado di spiegare perché ai salvataggi dovrebbero pensare solo le banche? Con i soldi dei risparmiatori?