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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo BCE Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Modelli di business e modelli di valutazione.

Ma proprio perché esiste questa opportunità, è importante che anche le banche si concentrino sulle imprese del futuro, evitando di continuare a supportare aziende con modelli di business non sostenibili“. Così Claudio Torcellan, partner della società di consulenza Oliver Wyman, ripreso in un articolo di Alessandro Graziani sul Sole 24Ore on line di oggi, parlando delle leve per rilanciare la redditività delle banche e delle opportunità offerte al sistema delle imprese e al sistema bancario dalle misure previste nel Recovery Fund.

Se è vero, come pare, che Oliver Wyman sia la società di consulenza della stessa BCE in materia di vigilanza, ci sarebbe più di un motivo per riprendere in mano la questione del modello di business, e non solo perché è scritto nelle metriche degli Orientamenti EBA e diventa oggetto di vigilanza ispettiva: saper valutare il proprio business model, per le imprese e per le banche che le finanziano, diventa un elemento fondamentale del processo del credito, ovvero del processo di conoscenza reciproca che ruota intorno alla misurazione del rischio ma è, sicuramente, molto di più.

Nel prosieguo dell’articolo, che invito tutti a leggere, vi sono molti spunti di riflessione, alcuni dei quali sono veri e propri ossimori da risolvere, o se si preferisce, da sciogliere: si pensi, tra gli altri, al rapporto tra lavoro umano, indispensabile nel modello della banca di relazione, e intelligenza artificiale, capitolo non più eludibile, anche alla luce della marcata preferenza, ormai ben chiara, espressa dal regolatore per la grande banca a dimensione nazionale. Non c’è industrializzazione del processo del credito che possa prescindere da solide conoscenze e da una capacità di lettura che riesce difficile immaginare di appaltare a un robot; così come riesce difficile immaginare che le stesse riflessioni sul modello di business dell’impresa possano essere lasciate all’imprenditore senza che la banca condivida le proprie, sull’impresa stessa, sul settore e/o sulla filiera.

Prima ancora che sia la banca a razionare, di fatto, il credito a quelle imprese e a quei settori destinati inevitabilmente a diventare marginali o ancora più competitivi e quindi con una marginalità in progressiva, costante erosione, la riflessione dovrebbe essere agevolata da un ceto professionale che appare ancora un po’ troppo impaurito o forse preso alla sprovvista dalle novità (quando non “affonda” nella miriade di pratiche, dal 110% alle moratorie) e dalle banche stesse, unitamente alle associazioni di categoria, anche se al momento la preoccupazione principale sul tema è spostare in avanti le scadenze, prolungando le moratorie. Anche perché ogni allungamento delle moratorie aiuta a spostare in avanti il problema del credito deterioratosi a causa della crisi indotta dalla pandemia…

Bisogna intendersi: è difficile immaginare un mondo dove si possa fare a meno del commercio al dettaglio e della distribuzione retail, ma non è evidentemente pensabile che cessata l’emergenza, sia business as usual per tutti e amici come prima. Ovvero, un business model che nella distribuzione al dettaglio ignori le conseguenze della digitalizzazione e/o dei mutamenti nei comportamenti dei consumatori è destinato inevitabilmente a soccombere, così come quello di un classico terzista la cui formula competitiva sia tuttora basata sul body rental, senza offrire un reale valore aggiunto.

Dunque, guardando avanti, occorrerà agire ed agire in fretta; e se in questo ambito non è sicuramente il caso di occuparsi del policy maker e delle sue scelte –trop vaste programme-, non ci si può non fare, per l’ennesima volta, interpreti della necessità di un dialogo che riempia di contenuti la necessaria partnership tra banca e impresa, mai come in questo momento storico così importante e così decisiva per il nostro Paese e il suo sistema economico. E allora si deve dire chiaro e forte che non ci servono meno banche di relazione perché quello è un modello adatto a banche piccole, ma banche che sappiano crescere in maniera profittevole senza perdere il contatto con la realtà dei territori e delle imprese che vi lavorano: l’intelligenza artificiale elimina la relazione solo se viene concepita in un’ottica fine a sé stessa, non come strumento. Siamo uomini, non caporali.

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Alessandro Berti Banche BCE Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese

Intervista: le norme UE sul credito faranno bene al mercato.

LPN-INTERVISTA

L’economista Berti: Norme Ue su credito faranno bene a mercato

Di Laura Carcano

Milano, 29 dic. (LaPresse) – “Le banche fra 6 mesi dovranno essere molto più rigorose nel prestare soldi. Nulla sarà più come prima nel sistema del credito. E la musica dovrà cambiare per le ‘imprese zombie’, cioè aziende che non dovrebbero stare sul mercato e invece ci restano e sono per giunta sussidiate a spese di quelle sane”. È lo scenario tracciato con LaPresse da Alessandro Berti, professore associato di tecnica bancaria e finanza aziendale presso la Scuola di Economia dell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo.

DOMANDA Cosa succederà nel 2021?

RISPOSTA. Dal 30 giugno entrano in vigore le nuove regole EBA (European Banking Autority) che affianca BCE nel regolamentare il mercato del credito. L’EBA ha disposto provvedimenti destinati letteralmente a rivoluzionare non solo il rapporto banca-impresa, ma la stessa organizzazione interna di banche affidanti e imprese clienti, stimolando inevitabilmente cambiamenti nel controllo di gestione delle imprese, nella loro capacità di fare analisi previsionale e di fare una corretta comunicazione finanziaria.

D. Più in concreto?

R. L’autorità bancaria europea chiede di applicare una regola, che in fondo è una banalità: le banche devono prestare denari solo a chi può restituirli. Quelle che entreranno in vigore dal 30 giugno sono regole che finalmente impongono di effettuare analisi molto più approfondite che in passato (sulla base di bilanci storici e prospettici, progetti di investimento, business plan) con un salto di qualità nelle relazioni tra banca e cliente proiettate alla partnership. Cose normali in altri Paesi, che però in Italia finora non erano state normate, né facevano parte della cultura del rapporto banca-impresa. In altre parole, o il cliente, grande o piccolo che sia, si adeguerà a essere più trasparente, insomma meno raffazzonato e più organico nella comunicazione finanziaria, oppure è probabile che otterrà meno credito o a più caro prezzo. A mio parere finisce il tempo in cui si andava in banca a chiedere un prestito e in cui in assenza di adeguate garanzie poteva bastare – in certi casi – una pacca sulla spalla, finisce l’epoca dei localismi ma anche delle valutazioni del merito di credito molto discutibili.

D. Quante saranno le imprese che potranno non ottenere più denaro in prestito?

R. Non è un calcolo facile, ma si può stimare che un 25% delle pratiche potrà andare incontro a un ‘no’ della banca.

D. Ma le associazioni imprenditoriali chiedono alla Ue di intervenire sull'”eccesso di automatismi”, paventando il rischio di compromettere la ripresa dalla crisi Covid….

R. Mi è capitato spesso di pensare che il credito deteriorato si gestisce all’inizio, evitando di prestare denari a chi non li può restituire. Quelli che si lamentano devono essere, probabilmente, gli stessi che solo pochi mesi fa portavano un improvvido commercialista a lamentarsi sulle pagine di un quotidiano economico delle richieste “lunari” da parte della sua banca, che per concedere un fido per quasi 5 milioni a fronte di investimenti ‘pretendeva’ un business plan, il bilancio al 31.12.2019 e una situazione intermedia. Richieste che invece con le nuove norme Eba saranno (dovrebbero già essere) normali. Non si può fare credito a tutti: selezionare il merito di credito serve alla “efficiente allocazione delle risorse”.

D. Crisi economica per la pandemia e regole più severe nel prestare denaro …. non c’è il rischio che il sistema salti?

R. No, anzi può essere l’occasione buona per arrivare, attraverso una maggiore serietà reciproca, a costruire finalmente qualcosa insieme, banche, imprese, professionisti. Il sistema economico non era in buona salute già prima del Covid e la situazione richiedeva che molte aziende dovessero uscire dal mercato, soprattutto di micro-imprese e piccole imprese, i settori più tradizionali e meno capitalizzati e digitalizzati, dal commercio al dettaglio, alla subfornitura. Ma la selezione ci deve essere perché se le aziende che non restituiscono i prestiti sono sostenute a spese di quelle sane, il mercato non fa bene il suo mestiere e brucia risorse che sono e restano comunque scarse. L’Eba in pieno lockdown ha regolamentato le moratorie, ma non ha mai detto che le banche non dovessero esaminare bene i conti di chi ha chiesto denaro in prestito. C’è in Italia un ceto professionale e imprenditoriale per il quale non è mai l’ora di mettere mano al rapporto banca-impresa e per cui si doveva rinviare il Codice delle Crisi di Impresa e si doveva rinviare la nomina del revisore. Insomma rinviare rinviare, rinviare. E invece, finalmente, il tempo dei rinvii sembra finito.

Ringrazio Laura Carcano de La Presse per avermi consentito la riproposizione dell’intervista.

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Il faut toujours épater le bourgeois (*).

Il faut toujours épater le bourgeois (*).

In un articolo comparso su Italia Oggi si menziona, sin dal titolo, che serve, appunto, a stupire a buon mercato, uno degli effetti più devastanti non già del Covid-19, quanto piuttosto della legislazione emergenziale che ne è seguita, soprattutto il famoso Decreto Liquidità. Ovvero, l’improcedibilità dei fallimenti, il divieto di licenziare, l’estensione sino agli estremi confini della terra della Cassa Integrazione, la dichiarata impossibilità di mettere a sofferenza posizioni della clientela da parte delle banche e così via.

Il fallimento, anzi, la liquidazione giudiziale, come lo definisce il codice delle crisi d’impresa, la cui entrata in vigore è stata posticipata a settembre 2021, non è solo una punizione per i reprobi, un castigo divino, una distruzione morale e materiale: senza voler imitare gli USA, la nostra legislazione, che pure dal 2005 mira a recuperare, salvare, proteggere anche i valori dell’azienda, deve fare il lavoro sporco di “ripulire” il mercato dai cadaveri, evitando, insieme con le banche, che si decompongano e “infettino l’aria” e coloro che ancora sono sani. Che i fallimenti si siano dimezzati non è affatto un buon segnale, né per le casse dello Stato -che nel frattempo ha pagato stipendi a gente che non lavorava in imprese sostanzialmente fallite- né per quelle delle banche e, che piaccia o no, neppure per le imprese: perché qualcuno che non avrebbe dovuto ha continuato a vivacchiare, ai margini del mercato, impedendo al mercato di funzionare, probabilmente senza neppure pagare i fornitori.

Purtroppo, dall’articolo di Italia Oggi, emerge una sola certezza, al di là del titolo davvero deplorevolmente ingannevole (si fa informazione anche con i titoli), ovvero che il dopo sarà peggio, i fallimenti più dolorosi, le crisi d’impresa più devastanti, il credito deteriorato maggiore di prima, perché, oltretutto, qualcuno che non avrebbe dovuto avrà comunque ottenuto qualche prestito garantito FCG. Nel frattempo, i bilanci al 31.12.2019 sono sempre “provvisori”, i business plan sono fantasie di consulenti e, come ho potuto ascoltare in un webinar settimana scorsa, le banche sono un fornitore come un altro, e quindi bisogna scegliere quella che fa pagare di meno, “mettendole in concorrenza (sic)“. Tante care cose.

(*) Dall’enciclopedia Treccani: locuz. fr. (propr. «sbalordire il borghese»). – Meravigliare a buon mercato la gente, con parole e affermazioni paradossali, con atteggiamenti anticonformistici o spregiudicati, per il gusto di stupire e scandalizzare.

 

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Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio…

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio…

No, non penso che mi piacerebbe l’odore del napalm al mattino e non gioco a golf, memore peraltro dell’ammonimento di G.B.Shaw. Ma la citazione vera, quella che mi viene in mente mentre il lavoro sta diventando sempre di più ascoltare qualcuno che ti chiede di rappresentare come situazioni “sostenibili” quelle che già non lo erano, anche prima del 2019, la citazione è quella del filo del rasoio e della lumaca.

Perché non c’è un’impresa che non abbia richiesto il prestito Covid cash da 25 o 30mila euro che non si ritrovi, adesso, a chiederne molti, molti di più: dovendo presentare business plan che non ha (che non ha mai fatto, che non sa fare, che non vuole fare, perché costano…) a banche che nel frattempo non possono smettere di fare il loro lavoro. Non perché lo dice l’European Banking Authority, l’EBA, e lo dice, lo ha detto anche di recente, delineando il processo di valutazione e monitoraggio del rischio di credito a far data dal 30 giugno prossimo: la vera questione è che tu non puoi smettere di pensare alle inadempienze probabili perché il fabbisogno finanziario delle imprese è sempre lì. Dapprima da sole perdite Covid (magari con altre perdite dormienti nel magazzino, as usual), poi per altre perdite, perché ho riaperto ma non raggiungo il punto di pareggio. Perdo di nuovo, come versare l’acqua nella sabbia. Il fabbisogno finanziario aumenta e la questione non è il prestito garantito dal Fondo Centrale di Garanzia e neppure la moratoria. La questione è che io non ho i soldi per pagare le bollette, i fornitori, e a dicembre la CIG finisce. Come una lumaca sul filo del rasoio.

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio, e’ un sogno che faccio, è il mio incubo, strisciare scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.” Monologo del Colonnello Kurtz, Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, 1979.

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Alessandro Berti Banche BCE Mario Draghi Moratoria dei debiti Vigilanza bancaria

Cosa minaccia davvero le banche italiane?

Cosa minaccia davvero le banche italiane?


 

Un articolo del prof.Onado sul Sole 24 Ore di ieri torna sul tema del credito deteriorato, prendendo, fin dal titolo, una chiara posizione, apparentemente assai ragionevole: “L’eccesso di zelo minaccia le banche italiane”.

L’occasione è quella ben nota della (per ora) mancata proroga dei termini di flessibilità accordati alle banche dalla European Banking Authority, scadenti il 30 settembre. Mentre appare certamente condivisibile la preoccupazione dell’Autore, che sottolinea il perdurare della pandemìa e l’attesa per l’adozione di misure, Recovery fund e non solo, che sono di fatto in divenire, appaiono più opinabili le conclusioni alle quali giunge, sicuramente dettate da buon senso e ragionevolezza ma che sembrano dimenticare, nei fatti, un dato di realtà: il credito deteriorato è tale anche se non correttamente classificato, magari con l’avallo delle regole della moratoria.

Al riguardo è bene rammentare che l’EBA ha invitato le banche “a non rinviare l’emersione di perdite altamente probabili” e proprio su questo punto il prof.Onado afferma che, usando tali parole, l’autorità di vigilanza Europea implicitamente ammette che, cito, “l’eccesso di severità è un’arma a doppio taglio, che può penalizzare indebitamente famiglie e imprese e lascia opportuni margini di discreziona-lità“.

I lettori minimamente addentro ai segreti del “bancariese” e ai cosiddetti Orientamenti dell’EBA (che sono in realtà vere e proprie prescrizioni alle quali ci si deve adeguare) sanno bene che l’EBA utilizza sempre il condizionale mentre rilascia i propri, appunto,  Orientamenti, usando fino in fondo un potere che è sì di prescrizione ma è anche di moral suasion. Ne ho già parlato in questo blog in altre occasioni, ma il tema delle inadempienze probabili (UTP) e degli sconfinamenti ed esposizioni scadute non aspetta le moratorie per manifestare fino in fondo gli effetti devastanti della crisi da Covid-19. In altre parole, non chiedersi che ne sarà di un certo numero (purtroppo elevato) di imprese, spesso piccole e piccolissime, destinate a fallire non appena cesseranno il divieto di licenziare e l’erogazione perinde ad cadaver della CIG, significa chiudere gli occhi mentre si sta andando a sbattere.

D’altra parte Marco Onado ha ragioni da vendere quando afferma che assimilare inadempienze probabili, sconfinamenti ed esposizioni scadute “svilisce il contributo che il banchiere può dare” nel risolvere i problemi delle imprese in difficoltà. La questione vera però è: in che modo? Con quali carte alla mano? Su quali piani, progetti, business plan? Su quelli che finora quasi nessuno ha portato (ma anche quasi nessuno ha chiesto e continua a non chiedere)?

Ovvero, è peggio la cecità di chi affida imprese di cui neppure conosce bene i conti a consuntivo -e figuriamoci a preventivo- oppure quella che, per dirla con Giorgio Gaber, fa “fingere di essere sani“?

Conosciamo gli effetti delle moratorie e dei rinvii, lo abbiamo sperimentato con la crisi scoppiata nel 2008: si allungano le scadenze ma non si mette mano al business model, alla formula competitiva, al conto economico: è già successo allora, rischia di riaccadere anche oggi, e non possiamo dimenticare che è proprio per questo atteggiamento che è nata e cresciuta a dismisura la montagna di credito deteriorato di cui ci stavamo faticosamente liberando.

Infine, se posso permettermi di chiosare (e solo quello: extra ecclesiam nulla salus e Marco Onado è per me un punto fermo e un riferimento costante) l’Autore: il mestiere del banchiere si rivaluta fino in fondo certamente con un atteggiamento elastico e attento di tutti i decisori, prima di tutto quelli politici, come il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini ha fatto ben capire. Ma la diligenza che occorre in questo momento nel valutare il merito di credito richiede straordinarie capacità di intelligenza della situazione, anche in termini evolutivi: pensare che questo possa accadere lasciando che tutto prosegua come se nulla fosse, mi pare perlomeno irrealistico.

C’è da lavorare, e molto, ancora una volta, sul tema delle relazioni di clientela.

 

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ABI Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Prima, dopo e durante un prestito Covid-19 (senza speranza).

Prima, dopo e durante un prestito Covid-19 (senza speranza).

Si è già discusso abbondantemente in questa sede sul fatto che un prestito Covid-19 con garanzia pubblica, laddove per tale si intende quella prestata dalla SACE o dal Fondo Centrale di Garanzia, non è un prestito che la banca è tenuta a erogare, tanto meno senza valutare approfonditamente il merito di credito del richiedente. A parte i motivi già illustrati, riguardanti le best practices in materia di affidamento e le prescrizioni della Circ.285 di Bankitalia, è ormai noto l’orientamento EBA circa il fatto che un prestito in moratoria possa divenire tranquillamente un’inadempienza probabile o comunque analizzato come tale. E se da un lato non si possono segnalare sofferenze da parte delle banche (quid juris quando dopodomani riapriranno i tribunali fallimentari?), come sancito dal Decreto Liquidità, che fine faranno le valutazioni che de plano devono essere fatte sulla incapacità di adempiere se non tramite escussione delle garanzie, ovvero le UTP?

Detto questo, l’audizione del Direttore Generale del Fondo Centrale di Garanzia ha bene illustrato quello che accade qualora la fideiussione, senza eccezioni e a prima richiesta, venga escussa: il FCG verificata la sussistenza dei requisiti, paga. Nello stesso istante, tuttavia (e per comprenderlo non serviva un’audizione parlamentare) si surroga negli stessi diritti che aveva il creditore originario, cioè la banca e per recuperare il proprio credito è autorizzato ad emettere cartelle esattoriali per l’importo dovuto, più interessi e spese. Con tutta evidenza, nulla di più distante da un contributo a fondo perduto: direi, poco rassicurante.

Ma un aiuto di Stato? Si. Autorizzato? Forse (ma probabilmente no, almeno in moltissimi casi di piccole e micro-imprese).  Come ricorda un ottimo articolo apparso sul Sole 24 Ore di oggi a cura di Paolo Meneghetti e Gian Paolo Ranocchi, per quel che riguarda il contributo a fondo perduto la circolare 15/E della Agenzia delle Entrate precisa che l’aiuto non può essere concesso alle imprese che si trovavano in una situazione di difficoltà al 31 dicembre 2019, in base alla definizione di cui all’articolo 2, punto 18 del regolamento (UE) n. 651/2014. Le 4 condizioni per le quali -ne è sufficiente anche una sola- una impresa è considerata in difficoltà e quindi non può essere aiutata sono le seguenti:

1)-nel caso di srl diverse dalle neo-costituite, il patrimonio netto ridottosi del 50% a causa di perdite cumulate;

2)-nel caso di sas o di snc, i fondi propri (ovvero il patrimonio netto) ridottisi del 50% a causa di perdite cumulate;

3)-assoggettamento a procedure concorsuali;

4)-interessi passivi superiori all’Ebitda.

Non è evidentemente questa la sede per discutere, per esempio, dell’inclusione o meno nella categoria delle imprese in difficoltà delle ditte individuali -come parrebbe pacifico- né dell’esclusione dei liberi professionisti, che pure non pare in discussione. La questione vera, che il legislatore pasticcione del Decreto Liquidità e del Decreto Rilancio pare avere scordato, riguarda il fatto che tutti i prestiti e le moratorie rischiano di configurarsi come aiuto di Stato proprio per quelle imprese che più ne hanno bisogno, le tantissime snc,, sas ed srl, che hanno da tempo il patrimonio netto negativo e che versano da tempo in condizioni di squilibrio economico, finanziario e patrimoniale.

Ma se queste imprese, a seguito del cumularsi di perdite, hanno ridotto la dotazione di capitale di oltre il 50% -e ci riferiamo a imprese, quelle italiane, normalmente sotto-capitalizzate- e non solo per perdite ma, per esempio, per prelievi soci c/utili anticipati, si stanno erogando finanziamenti a soggetti che quasi certamente non rimborseranno nulla di quanto dovuto. Con le conseguenze di cui sopra. Con l’aggravante che molte di esse, destinate a fallire, avranno tuttavia nel frattempo anche ricevuto contributi a fondo perduto. Che più perduto non si può.

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Quadri.

Quadri.

“(…) Ma è davvero questo il quadro più realistico? Secondo Equita no. L’Eba per ammissione esplicita non considera ad esempio i potenziali effetti benefici legati alle moratorie e alla garanzie, che di certo rallentano il processo di deterioramento del credito. Da qua il tentativo della Sim di incorporare il set di «indicazioni, input e feedback ricevuti durante questi mesi senza precedenti al fine di produrre la stima più accurata, affidabile e realistica degli effetti» dell’improvviso crollo del sistema, si legge nell’analisi.

Lo studio è partito dall’assunto che, nell’incertezza sugli effetti da Coronavirus, la cosa più ragionevole è che ciò che «era traballante prima del Covid-19, cada a causa della crisi». L’attenzione in particolare si è concentrata sui «prestiti ad alto rischio», quelli che più realisticamente passeranno a default. Lo stock di prestiti che secondo Equita è in bilico è pari a 184 miliardi, ovvero il 13% del portafoglio prestiti, bacino che comprende i prestiti in bonis “forborne” (che evidenziano primi segnali di difficoltà), gli Unlikely to pay e i prestiti oggetto di moratoria.

Ipotizzando che il 50% dei forborne diventi Utp, che ci sia un raddoppio del tasso di decadimento rispetto al 2019 (ovvero del passaggio da Utp a sofferenza) e che il 10% dei prestiti in moratoria diventi Utp, dalla crisi potrebbero dunque emergere per Equita 22 miliardi di crediti malati in più, con un Npe ratio che passerebbe dal 6,9% attuale all’8,4%. Da qua, la necessità come detto di 12 miliardi di accantonamenti extra, pari a 75 punti di Cet 1.

Così l’ottimo Luca Davi sul Sole 24 Ore on line di oggi, in relazione a un report di Equita Sim sugli effetti della pandemia. Difficile non concordare su un assunto incontrovertibile a parere di chi scrive: la crisi impatterà, anzi, ha già impattato in maniera devastante su chi, già prima del suo verificarsi, presentava andamenti economici incerti, indebitamento elevato, insostenibilità degli impegni assunti. Il Governo attualmente in carica, nel tentativo disperato di buttare la palla in tribuna, ha vietato i licenziamenti, i fallimenti e già che c’era, ha vietato pure la classificazione a sofferenza delle posizioni che tali sarebbero. Leggere nel report di Equita Sim, il cui contenuto sarebbe più ottimistico delle stime dell’EBA, che i prestiti in Bonis forborne manifestano già segnali di difficoltà significa evidenziare quello che ha già detto qualcuno parlando in generale del cosiddetto  new normal, ovvero che non saremo migliori, “perché gli uomini non imparano mai” (Francesco Guccini).
Un prestito classificato forborne, come è noto, è tale perché la concessione, l’aiuto, la forbearance che dir si voglia è stata concessa in relazione a difficoltà temporanee (o presunte tali) che grazie al prestito potrebbero essere superate. Il buon senso, prima ancora che le buone prassi, imporrebbero che tale status (forborne e in bonis) sia assegnato sulla base di documenti, carte, piani, progetti, business plan, budget di tesoreria che documentino, appunto la temporaneità. Temo che, come nel 2008 e a seguire, nulla di tutto questo si sia verificato. E temo che, questa volta molto più velocemente di allora, il credito deteriorato emergerà, perché le regole sono molto più chiare e stringenti, senza dimenticare che l’impatto del Covid non è solo sui livelli del CET1 ratio ma anche sulla liquidità (dunque non solo ICAAP ma anche ILAAP). Occorrerà una soluzione di sistema, a livello europeo e internazionale, certamente: la ricapitalizzazione, anche solo “formale” delle banche -attraverso i ratios patrimoniali- è comunque un problema di policy. Ma come si eroga credito in questo momento e come lo si valuta, resta un problema di best practices, che, a quanto pare, nessun decreto riesce a imporre.
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La La Bank

La La Bank

Oggi, su ilsussidiario.net “Le aziende hanno smesso di chiedere soldi agli istituti non perché stiano bene come stanno, perché non ne abbiano bisogno, bensì perché Governo, Abi e istituti di credito hanno dato vita all’ennesimo, indegno rimpallo di responsabilità durante la crisi Covid. E non parlo solo della questione Cig, parlo dell’erogazione di credito diciamo “ordinario”. L’esecutivo ha peccato di incompetenza, scrivendo i decreti con i piedi, perché ha sciorinato cifre inesistenti da un lato e ingestibili dall’altro, se non si garantiva alle banche la manleva penale rispetto a eventuali, future insolvenze sui prestiti concessi a soggetti “a rischio”. Le banche, dal canto loro, hanno usato questa ultima criticità come ennesimo alibi strutturale per dare soldi solo a chi volevano loro e alle loro condizioni: altrimenti, venivi gentilmente invitato ad aspettare che il peggio fosse passato. Ovvero, aspetta di fallire o di metterti in mano agli strozzini. Lo sanno tutti, banche in testa. Le quali, lo ripeto a scanso di equivoci, non sono enti di beneficienza, quindi è giusto che si tutelino e tutelino i loro azionisti, visto che le performance di bilancio pesano su quelle di Borsa.

A firma di Mauro Bottarelli, un giornalista che non ho mai amato e che probabilmente neppure mi conosce. il nostro ama i complotti e il pessimismo, talvolta venato da catastrofismo e da una solida avversione al potere, di qualunque tipo. Potere che alla fine sempre guadagnerà qualcosa a scapito del poveretto di turno. Questa volta sono di turno, lato potere, le banche (e quando mai!) che insieme al Governo e all’ABI (ABI: chi era costui?) sono colpevoli di un “indegno rimpallo“. Però…però se la norma è scritta con i piedi e l’hanno fatta al Governo, non è un rimpallo quello che sta andando in scena: è una presa d’atto, ti hanno messo in mezzo alla pista e devi ballare. Lo scudo penale ci vuole e Bottarelli lo sa benissimo, in questo Paese di avvocati in cerca di cause temerarie, che tali non sono mai contro le banche. Quanto all’ABI, basti vedere chi ne è il Presidente per comprenderne il peso politico.

Insomma, ho la sensazione che il nostro in una banca non sia mai entrato e che non abbia la più pallida idea di come vi si lavori. E, secondo me, neppure di come funzioni un conto economico, uno stato patrimoniale e i requisiti di vigilanza: perché nel frattempo che non si può mettere a sofferenza nessuno, il credito si deteriora lo stesso. E dubito che le banche stiano facendo utili con la raccolta a tassi negativi (sì, per carità, bellissimo) e facendo quali impieghi? A quali tassi?

P.S.: Bottarelli, c’hai presente la voce 130?

 

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Vigilanza bancaria

Perché fare istruttorie? I bilanci non servono (l’impresa vista dalla banca, secondo alcuni).

Perché fare istruttorie? I bilanci non servono (l’impresa vista dalla banca, secondo alcuni).

Oggi, parlando con un collega, mi sono sentito dire che un capo Area Crediti di una banca significant, avendo ascoltato/letto qualcuno dei miei numerosi interventi degli ultimi mesi, ha affermato perentorio che i bilanci non servono a niente. Non più tardi di ieri sera, peraltro, parlando in tema di credito deteriorato (a proposito: ultimo intervento regolamentare significativo nel 2015. Nel frattempo siamo immersi nella bolla del Decreto Liquidità che vieta le sofferenze, i licenziamenti, i fallimenti, l’erosione del capitale per perdite e chi più ne ha più ne metta) ho affermato che il problema del credito deteriorato non è più classificarlo e nemmeno liberarsene, come è stato fino al 2018. Da sempre il vero problema del deteriorato è evitare che divenga tale, e questo può avvenire solo con una politica del credito rigorosa e un processo del credito di qualità: la famigerata “qualità degli affidamenti”. Ma poiché questo non è chiaro, ne parliamo in un webinar (con crediti formativi e a pagamento) che si terrà in due parti, nella mattina del 24 p.v. e del 1 luglio, con l’intervento, fra gli altri di Pier Paolo Poggi, Cino Ripani e Fabio Bolognini.

Di seguito come fare per iscriversi: http://www.reaconsulting.com/dopo-il-covid-l-impresa-vista-dalla-banca#b1076

Nel frattempo vorrei dire a quel signore che afferma che i bilanci non ci vogliono che, se avesse ragione lui, presto il suo posto di lavoro potrebbe essere in pericolo: a cosa mi serve pagare qualcuno per analizzare il fabbisogno finanziario se tanto i bilanci non servono?

 

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Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

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La notizia comparsa sul Sole 24 Ore di oggi, che riporta il dato relativo al volume dei prestiti a medio-lungo (sostanzialmente triplicati a dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) non può che rallegrare chiunque abbia a cuore il percorso di fuoriuscita dell’Italia dalla crisi e cerchi di cogliere i segnali di ripresa; segnali che non hanno mai cessato di manifestarsi anche in momenti meno recenti, ma che i dati, finalmente, confortano. Fino a non molti anni fa i prestiti a medio-lungo richiesti dalle imprese sarebbero stati destinati, con fin troppa facilità, ad acquisizioni immobiliari nella migliore delle ipotesi inutili, quando non dannose, perché distoglievano risorse e competenze dalla competitività, dalle strategie, dal mercato.

Leggere la notizia mi ha fatto pensare che se questa è la fotografia dal lato della domanda, non meno interessante sarebbe conoscere chi siano i protagonisti dal lato dell’offerta: ovvero, in un Paese banco-centrico come l’Italia, certamente le banche, ma quali banche? La domanda non è oziosa, né riconducibile ad un puntiglio accademico, ma ad alcune recenti esperienze di fidi “offerti”, in senso letterale, a grandi aziende che ne avrebbero fruito poco o nulla, da piccole banche, in particolare Bcc. Quelle stesse banche che dovrebbero sostenere la crescita delle Pmi, offrono prestiti ad aziende di grandi dimensioni, a tassi ultra-competitivi, verosimilmente con una marginalità nulla o ridottissima.

Perché?

Fino a non molti mesi fa, dialogando con chiunque mi fosse capitato nell’ambito delle banche locali, mi sarei sentito dire che il problema del credito era il credito deteriorato, “tanto nuovo credito non ne facciamo“. Il peso del credito deteriorato, prima ancora che un fardello economico, è divenuto un fardello culturale: per non sbagliare, meglio non fare nulla, ovvero il grillismo applicato al credito. Ma poiché qualcosa si deve fingere di fare, allora si eroga credito alle grandi imprese, anziché alle Pmi: perché è più facile e dunque meno costoso valutarle, perché sono meno rischiose, perché anche se guadagno poco, non si genereranno altre svalutazioni. Mi vengono in mente espressioni come miopia, mancanza di coraggio, visione di corto respiro, ma temo che sia molto peggio: temo che molte banche locali stiano pensando che, pur di sopravvivere, sia meglio venire meno alla propria vocazione. Questo fattore, molto più della riforma ormai avviata, rischia di cancellare la cooperazione di credito Italia; ma soprattutto rischia di cancellare un riferimento storico per il mondo delle Pmi, tuttora incapaci di comprendere cosa fare per ripartire e chi siano i loro interlocutori. Non è un problema tecnico, è un problema culturale, di visione, di consapevolezza. Proviamo a lavorarci?