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Guardie e ladri.

Guardie e ladri.

C’è un rincorrersi quasi malinconico nelle notizie di queste giorni, memori della Grande Crisi 2008-2018 (molto più lunga e devastante, a mio avviso, di quella del ’29), come se si scoprisse all’improvviso che le banche (i ladri) rischiano e quando lo fanno, coefficienti patrimoniali o no, lo fanno perlopiù con i soldi degli altri, ovvero dei risparmiatori, con le autorità di vigilanza (le guardie) che spesso intervengono a misfatto ormai compiuto.
Dalla constatazione che le banche lavorano con i soldi degli altri nasce l’atteggiamento un po’ “feroce”, almeno all’apparenza, del regolatore americano, che gli istituti di credito li lascia fallire, e non per distrazione, anche se si tratta della 16ma banca degli USA (SVB), quasi che ciò servisse naturaliter a educare i risparmiatori a scegliere la propria banca in base alla comunicazione trasparente che la banca fa (?) e alla percezione che di essa ha il cliente del grado di rischio medio ponderato contenuto nelle attività delle banche.
In poche parole, se ti scegli una banca, prima dovresti averne letto i bilanci e compreso il grado di rischio, compreso il CET 1 ratio o il Texas Ratio.
Velleitario o ingenuo che sia, questo è l’atteggiamento a stelle e strisce, che funzionerebbe meglio, forse, se fossero praticate maggiormente la trasparenza e la cooperazione: nel caso americano, ma non solo, questo vuol dire applicare effettivamente le regole degli accordi di Basilea, che anche gli USA hanno sottoscritto (la trasparenza e la comunicazione sul grado di rischio) ovvero erigere il pilastro da sempre -perlomeno da Basilea 2- mancante nella costruzione degli assetti volti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari.
Trasparenza sul grado di rischio che tuttora manca anche nel Belpaese (in Italia la comunicano nella pubblicità solo Mediolanum e Mediobanca, a mia notizia, e pochi altri: e la comunicano perché hanno requisiti di capitale assai elevati) così come manca la cooperazione. Se Miss Universo dichiara di essere una bella donna, oltre che volere la pace nel mondo, nessuno le dirà nulla, semplicemente perché è vero. Se la figlia del rag.Fantozzi facesse altrettanto, la smentita sarebbe altrettanto unanime e, probabilmente, più fragorosa.
Ricordo come, nel corso di un viaggio di studi presso la British Banks Association, il funzionario che mi ricevette mi donò, con giusto orgoglio, il report contenente una classifica che la stessa associazione promuoveva, basata sul livello della qualità dei servizi offerti dalla banca così come percepito da un cliente tradizionalmente debole sotto il profilo finanziario, le PMI.
Trasparenza e cooperazione -le banche, in competizione tra loro, rendevano tuttavia possibile la compilazione della classifica, aspirando a primeggiare in essa
-, in un sistema bancario dove già all’epoca (1998) si facevano i mutui on line: questa vicenda, che purtroppo non ho più seguito, insegna che non può trattarsi di una semplice questione di regole, ma di una attitudine e di una cultura che non si creano per legge o per normativa regolamentare.
Direi piuttosto che il tema è di cultura ed educazione finanziaria, quella che dobbiamo trasmettere quando spieghiamo in università ma anche quella che si respira nel sentire comune, quella che viene fuori dalla cosiddetta economia civile, dall’impresa, dal lavoro.
La fatica che ho notato presso le banche nell’accettare la normativa degli EBA-LOM, la sua scarsa o nulla conoscenza presso le imprese e spesso presso gli stessi lavoratori bancari, riflettendo che nel documento si invoca “la diffusione di una forte cultura del rischio di credito”, mostrano che le regole non funzionano se non sono fatte proprie all’interno di una visione e di una concezione del fare banca (e del fare impresa) che chiariscano in modo trasparente la missione e lo scopo dell’agire dell’impresa stessa, bancaria e non, e che lo sottopongono al mercato.
Non si tratta solo di sottolineare l’importanza della comunicazione non finanziaria nei bilanci di imprese, le PMI italiane, che faticano a spiegare il minimo sindacale, ma di qualcosa di maggior spessore, che va al di là degli adempimenti formali. La trasparenza e la cooperazione sono un lavoro quotidiano, che non si insegna: si impara praticandole.
Abbiamo di che lavorare, nelle università, nelle banche, nelle imprese.

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Capitalismo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

300 imprese al giorno non levano il medico di torno.

300 imprese al giorno non levano il medico di torno.

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Unioncamere ha comunicato che fra aprile e giugno le nuove imprese aperte da giovani di età inferiore ai 35 anni sono state ben 32.000, oltre 300 al giorno. Le note dolenti, come al solito, vengono dai settori e dalle motivazioni che hanno portato alla creazione d’impresa. Sostiene Il Sole di oggi a firma R.I.T.: “Che la risposta dell’impresa alla ricerca di un lavoro sia tra le principali motivazioni di questa crescita è confermato dalla prevalenza di micro-iniziative (nel 76% dei casi le neo-imprese giovanili nascono come impresa individuale) e dalla quota con sede al Sud: le nuove iniziative dei giovani meridionali rappresentano infatti il 40,6% del totale delle nuove imprese in quell’area del paese, con punte superiori o vicine a questa quota in Calabria, Campania e Sicilia. I settori in cui i giovani hanno scelto di puntare sono stati il commercio, i servizi di alloggio e ristorazione e le costruzioni.

Ecco appunto, i settori: commercio, servizi (alloggio e ristorazione) e soprattutto edilizia sono inseriti dall’ISTAT tra i settori che uniscono basse performance a modestia di investimenti, innovazione e crescita. Se a questo si aggiunge che le motivazioni “deboli” alla creazione di impresa (crearsi un posto di lavoro) sono fortemente correlate alla mortalità delle imprese nei primi tre anni di vita, si comprende come i numeri di Unioncamere non siano particolarmente positivi: si tratta di micro-imprese, verosimilmente marginali e destinate a rimanere tali, a bassa intensità di capitale investito ed a bassi margini.

Proprio per questo, a queste imprese non serve credito, ovvero il peso di oneri finanziari che probabilmente assorbirà quasi del tutto i margini: servirebbe, oltre che una politica industriale che “veda” il dopo-crisi (anche se mi accontenterei di una politica industriale pur sia, una qualunque, purché ci sia) anche un grande elavoro di educazione nei confronti di persone che, criticabili quanto si vuole, si stanno muovendo, stanno provando a fare qualcosa. E con le associazioni di categoria praticamente sfasciate dalla crisi è un lavoro che tocca fare in altri ambiti, a cominciare dall’università. Altrimenti mettere su un bel negozio da sciampista continuerà ad essere chiamato start-up: con rispetto parlando per le sciampiste.

 

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Università USA

Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

In una società in crisi economica e sociale: il ruolo del commercialista.

Il codice deontologico

Relazione a cura del

Prof.dr.Alessandro Berti

Associato di Tecnica Bancaria ed Economia degli Intermediari Finanziari

Scuola di Economia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

 

Buongiorno a tutti.

Ringrazio anzitutto l’Ordine che mi ha invitato, nella persona della Collega Silvia Cecchini, dandomi l’opportunità di riflettere, per preparare questa mia relazione, su un tema così importante. Ringrazio ognuno di Voi che, in queste giornate così convulse, come da tradizione, ha deciso di investire un po’ del proprio tempo per condividere queste riflessioni.

Mentre pensavo all’ordine del mio intervento, avevo ben chiare due affermazioni, che ho spesso sentito riecheggiare nella mia esperienza ma che, per la prima volta, ho udito in un’aula dell’Università Cattolica, quando ero matricola a Economia.

Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo le menzogne, noi che non sappiamo cosa sia la verità.” Così si esprime André Malraux, sottolineando una vera e propria disperazione rispetto alla propria impotenza etica.

E Franz Kafka afferma: ”Anch’io come chiunque altro ho in me fin dalla nascita un centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscito a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma in un certo qual modo non c’è più il corpo relativo.” Il che è come dire che l’uomo ha un’esigenza di significato unitario, per sé e per le cose che fa, per tutto, ma che la vita è distante dall’ideale, il “corpo relativo”, appunto, è altrove.

Perché parlare di ideale, se in finale dobbiamo semplicemente discutere il significato (penso che usare il verbo “illustrare” sarebbe offensivo per ognuno di Voi, quasi che io, pure iscritto all’Albo, debba spiegare a dei Colleghi un elemento così importante del proprio lavoro e della propria appartenenza professionale) di un codice il cui scopo è sintetizzato nella definizione di deontologia, ovvero un neologismo coniato dal filosofo inglese J. Bentham, che appare per la prima volta nel 1834 in un suo trattato postumo; dal greco: [deon] dovere e [logos] discorso, studio. Ovvero, ad essere letterali e riduttivi, un insieme di regole comportamentali.

La deontologia parte dal presupposto che il fine non giustifica i mezzi, ma che il fine è il mezzo. La questione sarebbe ingiustamente relegata a codici etici per professioni ad elevato rischio morale –psicologi, medici, avvocati-  che pure offrono un campo amplissimo di indagine, se non si tenesse conto che essa sorge sulla base di un presupposto molto più grande.

Il presupposto di tutto sta come sempre nella libertà individuale (e per conseguenza nella posizione di potere che questa attribuisce a chi esercita una determinata professione), ponendo la necessità di un fondamento etico che stia a monte del libero arbitrio del singolo. Ho detto fondamento etico, e non regole, di proposito: più avanti spiegherò il perché.

Quale sia il fondamento etico del nostro codice, ciò che ci viene proposto dall’Ordine Nazionale (secondo me ad un livello minimo, elementare: che non significa ridurne la portata, ma semplicemente porre la questione della responsabilità personale, che va ben oltre il rispetto di tale livello minimo di regole) è ben sintetizzato nell’articolo 5, che mi permetto di rammentarvi:

 

Articolo 5

INTERESSE PUBBLICO

1. Il professionista ha il dovere e la responsabilità di agire nell’interesse pubblico.

2. Soltanto nel rispetto dell’interesse pubblico egli potrà soddisfare le necessità del proprio cliente.

Il tema dell’interesse pubblico coincide, a mio parere, con quello che mi sembra più rispondente al sentire di ognuno, non appena in questa fase storica ma più in generale, del bene comune. È facile individuare, agli antipodi del bene comune, il bene individuale o meglio, l’esasperazione della soddisfazione di quest’ultimo, l’individualismo.

“L’individualismo” -afferma Juliàn Carròn in un intervento del 2009- “è un tentativo di risolvere i problemi vecchio come l’uomo, implicando il rapporto tra il proprio bene e il bene altrui, la tensione tra io e comunità. Il fatto di non vivere da soli, bensì di essere sempre all’interno di una comunità, ci costringe a decidere in continuazione il modo di affrontare questo paradosso.

Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus.

Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente, non è una vera soluzione.

Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole permettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi. Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri. Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo.

In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo. Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.” (J.Carròn, 2009)

Vi sono numerosi esempi di quanto affermato da Carròn, a partire dal più elementare, e drammatico, di tutti: la pena di morte, negli Stati degli USA dove è in vigore, non ha eliminato il crimine, né lo ha disincentivato. La più severa sanzione posta a tutela delle regole, la perdita della propria vita, non impedisce che l’uomo possa violarle.

Ancora, e venendo ad esempi più vicini alla sensibilità di chi è presente oggi, alla sensibilità di chi deve paragonare etica ed affari quotidianamente: le pene, per certi versi bizzarre (ergastoli plurimi, condanne secolari), ancorché severissime in vigore negli USA (45 anziché 150 anni di galera, come nel caso rispettivamente di Kenneth Lay –Enron- e di Bernie Madoff, truffatore da 47 mld. di €) non impediscono che si commettano reati finanziari. E Worldcom, con il fondatore Bernie Ebbers che a 63 anni ne prende 25 di galera, ovvero l’ergastolo, non è da meno.

Lo scrittore inglese G.K.Chesterton affermava che “l’errore è una verità impazzita.” L’individualismo, sotto questo profilo, risponde alla definizione chestertoniana, laddove esaspera, mettendola al primo posto, la ricerca di benefici individuali, anche a scapito del benessere collettivo, danneggiando altre persone o i loro beni.

Alcuni esempi, tratti dall’esperienza di un lavoro, quello che svolgo personalmente, spesso giocato nella terra di nessuno che sta tra la banca e l’impresa, tra il finanziatore e il debitore. Penso che parlare della propria esperienza personale valga più di mille esempi teorici, perché fa riferimento a qualcosa che si conosce direttamente.

Personalmente mi occupo di modelli per la valutazione del rischio di credito e di analisi del merito di credito, lavorando prevalentemente dal lato bancario nell’esame di situazioni aziendali sovente borderline, ovvero squilibrate sia sotto il profilo economico, sia sotto quello finanziario. In tale veste vengo spesso in contatto con documenti contabili la cui rispondenza ai requisiti di verità, chiarezza e precisione è del tutto inverosimile. È altrettanto frequente che, nel corso di seminari o di corsi di formazione, soprattutto in banca, ma anche nell’ambito di consessi imprenditoriali, si verifichino discussioni, in sede dell’analisi di casi aziendali, nelle quali il dottore commercialista, o presunto tale, sia chiamato in ballo con frasi del tipo: “La colpa se hanno così tanti debiti è dei commercialisti, che li hanno convinti a scaricare gli interessi passivi” oppure ancora “Sono i commercialisti che fanno i bilanci e sono loro che li presentano in banca”. Tralascio i commenti e le facili ironie, perché penso che sia opportuno riflettere ulteriormente, e proprio a partire dalla deontologia applicata, se volete, in modo pedestre.

Nella veste di consulente di alcune banche, peraltro, mi è capitato spesso di ascoltare, nell’ambito di riunioni di Consigli di Amministrazione o in altre circostanze, frasi del tipo: “Non possiamo andare contro i commercialisti, soprattutto se sono nel collegio sindacale: e poi rischieremmo che portino i loro clienti in un’altra banca”. La crisi si è incaricata, progressivamente ma inesorabilmente, di incrinare questa concezione improntata ad un rapporto banca-impresa incentrato esclusivamente sulla copertura del fabbisogno, anziché sulla sua valutazione in termini di natura, qualità e durata (secondo gli insegnamenti del mio Maestro, mio e Vostro Collega, il caro prof. Attilio Giampaoli, mancato proprio quest’anno): ma resta tuttora diffuso un atteggiamento che vede nella sola ricerca di finanziamenti a tutti i costi l’unico problema da risolvere per tante imprese in difficoltà.

Valga un esempio fra i tanti. Un’impresa “storica”, da molti anni sul mercato all’ingrosso dei prodotti casalinghi in plastica, con margini operativi in progressiva diminuzione, ha visto improvvisamente flettere il fatturato del 25%, causa concorrenza estera. Facile arguire che, a seguito di tale contrazione, il risultato operativo sia diventato negativo e con esso sia venuto meno l’equilibrio economico e di conseguenza quello finanziario: a causa di tali circostanze, una delle principali banche italiane ha ridotto le proprie linee di credito di circa 6 mln. di € (l’azienda era peraltro già sovra-indebitata, con un debito pari a circa il 50% delle vendite, evidentemente eccessivo per il settore).

Il piano di salvataggio, presentato da un noto studio professionale associato nel nordest, contemplava le seguenti ipotesi:

·   richiesta di nuove linee di credito per cassa, sostitutive, per circa 6 mln. di €, da erogarsi immediatamente da parte delle altre banche;

·promessa di vendere, tramite incarico irrevocabile, due capannoni vuoti (ovviamente poiché nel frattempo ne era stato realizzato/acquistato un terzo molto più grande ed altrettanto inutile) ad un prezzo quasi coincidente con la nuova linea di credito sostitutiva;

·rientro dell’esposizione e “ripristino della continuità aziendale”.

 

Posso giudicare del piano che vi ho sommariamente descritto unicamente in base a quanto mi è stato mostrato da una delle banche delle quali ero e sono consulente. Ma non vi era, in alcun modo, la benché minima menzione di quali aspetti, sotto il profilo economico e reddituale, fossero stati individuati per agire su di essi al fine di ripristinare l’equilibrio economico: evidentemente assente a prescindere dal rientro, solo sperato, rispetto al nuovo fido di cassa. Il piano non aveva alcun requisito di sostenibilità, apparendo, come in realtà era, unicamente un escamotage per ottenere nuova finanza, attraverso i buoni uffici di uno studio prestigioso: non si prospettava alcuna possibilità di ritrovare l’equilibrio economico che anzi, a ben guardare, sarebbe mancato già alla fine dell’anno in corso, a prescindere dalla vendita dei cespiti. Che ne è della deontologia, in questo caso? Che concezione della crisi d’impresa sottende un intervento professionale teso, né più e né meno che prima della crisi, a trovare nuova finanza? Quanto c’è di accondiscendente in un rapporto professionale che si esplica in piani di ristrutturazione (senza offesa per i piani) di questo tenore ed evita accuratamente di guardare in faccia la realtà per quella che essa è, ovvero che l’impresa è decotta ed occorre non appena nuova finanza, ma un piano di risanamento che contempli tagli, sacrifici, ripensamenti profondi della filosofia aziendale?

Potrei andare avanti, raccontando di aziende palesemente indebitate ultra vires, la cui unica preoccupazione, condivisa purtroppo con il commercialista, non era quella di ritrovare la strada maestra dell’equilibrio economico e finanziario, ma quella di trovare nuova finanza. Ovvero, di trovare debiti nuovi, e maggiori, per pagare quelli vecchi. Nel mese di giugno ho visitato una banca nella quale non mi recavo, per consulenza, da circa 7 anni. Con l’occasione ho chiesto loro notizie di un cliente al quale io stesso avevo fatto visita, per spiegare, da terzo esterno e non coinvolto, che l’indebitamento che avevano era insostenibile (una volta e mezzo il fatturato, naturalmente con un bel capannone nel mezzo: ma si sa, si scarica il capannone, gli interessi passivi, tutto è scaricabile, quindi tutto è buono…). I debiti, allora pari a 1,2 mln. di €, erano lievitati a 3,5 mln. di €: e non riesco a darmi risposte, se non quelle della cecità più bieca e schematica, di come ciò sia potuto accadere. Nessuno ha goduto di quei maggiori debiti, che ora, molto più di prima, strangoleranno l’imprenditore, la sua famiglia e, in proporzione, i conti della banca in questione: l’imprenditore è sopravvissuto a sé stesso, indebitandosi per mangiare, non certamente per vivere alla grande. A chi è servito tutto questo? E chi, se non il commercialista, avrebbe potuto fermare questo degrado?

Difficilmente avrebbe potuto lo stesso commercialista, peraltro, che nel piano presentato 7 anni prima e rifiutato formalmente dalla banca (ma poi accettato nei fatti), spiegava che il fatturato, pericolosamente in bilico, si sarebbe poi ripreso crescendo del 50% all’anno nei tre anni successivi. In che modo? Mistero.

Così come è un mistero che tuttora mi accada, ed anche di recente in una primaria azienda della provincia, di essere richiesto di fare una consulenza, un check-up aziendale in sintesi, su dati aziendali palesemente falsi, soprattutto per quanto riguardava il magazzino. Sconsigliabile, con il sottoscritto, trattandosi del mio pane quotidiano. Ma non tanto per la vicenda in sé, evidentemente assurda, quanto piuttosto per il prosieguo: il lavoro non si è mai concluso e la consulenza non è mai stata erogata perché il dato del magazzino, depurato dell’alterazione contabile, non mi è mai stato comunicato. La rinuncia all’incarico non è tristemente necessaria, sarebbe un’ovvietà affermarlo: il retrogusto amaro che ti rimane è quello di una visione talmente distorta della realtà da divenire essa stessa più vera del vero, al punto che, come in un social network di moda qualche anno fa, Second Life, si può immaginare qualunque cosa, purché lontana dal reale.

Cito ancora un caso. In una banca del Centro-Sud ci è stato chiesto una consulenza in termini di assessment sulla qualità del processo del credito. Abbiamo proceduto verificando l’intero processo, dalla fase istruttoria, a quella dei controlli, controllando anche i compiti del Collegio Sindacale. La verifica dell’attività svolta dal Collegio ha condotto alla conclusione imbarazzante che il Collegio stesso, in una banca, non in un’impresa qualsiasi, si limitava, letteralmente, alle verifiche trimestrali. Il problema non è stato tanto nell’evidenza tecnica di quanto analizzato, quanto piuttosto nel modo di condividerlo. Il consiglio di amministrazione (composto da altri Colleghi) non ha ritenuto di dover prendere atto ufficialmente di quanto emerso nella consulenza, chiedendo piuttosto al sottoscritto di condividere il giudizio stesso, con i membri del Collegio. Cosa che ho accettato –non so quanto correttamente sotto il profilo deontologico- solo a patto di poter esprimere integralmente il mio giudizio ai Colleghi. Vi lascio immaginare l’imbarazzo: ma credo che il silenzio sarebbe stato ben peggiore.

Se l’educazione è essere introdotti alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, tutte queste storie ci insegnano che è mancata la volontà di educare. Non di insegnare, non di ammaestrare, di ammannire consigli impancandosi a sapientoni: educare, ovvero essere responsabili, in termini di giudizio che qualcuno dà sulla realtà. Conosco la facile battuta su “Chi sa fa, e chi non sa insegna” e proprio perché la conosco non la sopporto, perché fa fuori tutta la fatica di chi, invece, si coinvolge nella fatica di stare di fronte alla realtà.

Ma se è vero che ci sono clienti che non si muovono di un passo senza prima avere fatto una telefonata, forse è proprio degli altri che dovremmo sentirci maggiormente responsabili, senza pensare che tutto si esaurisca in una parcella pagata. E se provassimo ad immaginare, proprio ora, proprio ora che c’è la crisi, ed in maniera così violenta, che il compito del commercialista sia, letteralmente, “educativo”, ovvero capace di introdurre alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, senza edulcorarla, alterarla, stravolgerla, ma soprattutto, appunto, senza eliminarne nessun pezzo?

Si badi bene, non sto sottovalutando l’importanza del lavoro. Ma mi chiedo quanto siano compatibili col decoro della professione non certi onorari, quanto piuttosto i contenuti di certe prestazioni, come quelle svolte dagli anonimi Colleghi di cui sopra. Che vengono svolte, ricordando la frase di Kafka con cui ho iniziato, letteralmente senza alcun centro di gravità.

Credo allora di poter condividere con voi una conclusione, sicuramente non l’unica, e per la brevità dei tempi e per l’inadeguatezza del relatore che avete scelto. Mi piace concludere ricordando quello che, tra tante altre cose, mi ha insegnato un Maestro dei tempi dell’Università Cattolica, Mons.Luigi Giussani: Egli sosteneva che “chi non ha sensibilità non ha etica”. Io credo che in queste parole si possa ben riassumere il senso della mia riflessione odierna, che vorrei diventasse condivisa, personalmente, da ognuno di noi. Ovvero, non ci sono regole, né codice etico, che possano sostituirsi alla sensibilità personale, intesa come lettura che della realtà viene data dalla propria libertà, sia pure filtrata da cultura, temperamento, circostanze. In questo, la crisi, che pure ha messo così gravemente alla prova noi ed i nostri clienti, rimette al centro, caricandola di nuovi compiti, la nostra responsabilità personale che non è appena professionale, e ci mancherebbe, ma, letteralmente, educativa, ovvero di realismo. Vi ringrazio per l’attenzione.

 Urbino, 17 dicembre 2013.

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Alessandro Berti Educazione Università

In morte di Attilio Giampaoli.

In morte di Attilio Giampaoli.

attillo_giampaoli Ieri è mancato il prof.Attilio Giampaoli. E’ stato il mio Maestro, mi ha insegnato tutto quello che io, a mia volta, ho insegnato. Quando ci ritrovammo, all’inizio degli anni ’90, rimessi in contatto dopo l’esperienza milanese in Cattolica, io da studente, lui da assistente del grande Confalonieri, mi chiese cosa volevo fare, cosa mi piacesse, cosa mi interessasse. E ricordo bene la sua faccia quando gli dissi che volevo occuparmi di bilanci (credevo ancora all’analisi per indici) delle imprese, di valutazioni di equilibrio e solvibilità: stesse inclinazioni, strumenti sbagliati. Ha avuto pazienza, ne ha avuta tanta con me, basterebbe pensare alle prime, illeggibili cose, che scrivevo: mi ha insegnato il mestiere, mi ha insegnato a vedere persone e imprese, anche e soprattutto attraverso l’incontro, nell’essenza del loro fattore umano, senza tuttavia dimenticare mai i “numeri duri“, quelli dei bilanci.

Mi diceva, peraltro, che il sistema bancario era non riformabile, riponeva la sua speranza nelle Pmi. Spesso mi ha detto che mi illudevo di poter riformare le banche dal di dentro: non ho smesso di crederci, ma talvolta penso che abbia avuto ragione lui. Non si è mai stancato di correggermi, senza mai farmi sentire un somaro, come certamente ero, quando all’inizio arrancavo dietro alle sue parole ed alla tecnica bancaria, che mi stava insegnando.

Se amo così tanto insegnare, lo devo a lui, che me lo ha fatto ammirare, che mi ha coinvolto, che mi ha fatto capire perché c’era la fila degli studenti per avere la tesi da lui. Quando faccio la somma di tutti quelli che si laureano con me, e sono tanti, alla fine di ogni anno accademico, penso che lui avrebbe fatto lo stesso. Sapeva valorizzare tutti, anche quelli cui tu non avresti dato un centesimo, anche quelli che, seppure non per colpa loro, non sapevano scrivere in italiano: e mi diceva, ricordandomi la sua storia di uomo che si era fatto, letteralmente, da solo, che quelli che studiano e lavorano fanno una fatica inimmaginabile.

Non mi ha mai trattato come un servo: conosco molti Colleghi che, in assoluta buona fede e consci di dovere pagare lo scotto della gavetta, trattano ricercatori ed assistenti come carne da macello. Attilio non l’ha mai fatto, chiamandomi sempre amico e trattandomi come tale. Di questo, e di avermi insegnato il mio lavoro, non lo avrò mai ringraziato abbastanza.

E’ proprio vero che da qualcuno si impara ciò che si insegna. E che si conosce solo quello che si ama. Addio Attilio, grazie di tutto quanto. Che Dio ti benedica.

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don Giussani Educazione

Se ci fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio.

Se ci fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio.

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Che Dio aiuti tutti noi a riprendere in mano questa esortazione di don Giussani, che non cessa mai di essere attuale. Qualunque lettura di quanto accaduto oggi, infatti, non può che interrogarci, al di là dei lamenti e delle recriminazioni, oltre che degli schemi così facili da utilizzare: su quale sia il compito di ognuno e come costruire sopra macerie che, stasera, sembrano davvero molto alte.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo Educazione Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

Risvegli.

Risvegli.

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Credo non accadesse da almeno 5 o forse 6 anni. Una banca mi chiede di rifare ProgettoImpresa, ovvero quell’iniziativa che nell’ormai lontano 2001 o 2002 era partita da una piccola Bcc della provincia di Ascoli a partire da una semplice, realistica, constatazione: il problema del rapporto banca-impresa è prima di tutto culturale, di modo di concepire i rapporti, di pregiudizi da eliminare, di partnership da (ri)costruire. L’idea era elementare, perché realistica: mettiamo in aula le imprese insieme con gli stessi bancari, condividiamo le valutazioni che chiunque, banca e impresa, potrebbe fare su performance, risultati, problemi, nel presupposto che visioni ambigue non servono e non conducono da nessuna parte. Dopo aver condiviso cultura aziendale, ore di aula, esame di casi aziendali la relazione cambia: potrei accettare di farmi consigliare dalla banca, prima di fare qualcosa, potrei fare consulenza alle imprese clienti, anziché vendere loro qualcosa. E le imprese pagarla, come tutto quello che vale, come il progetto stesso, lungo, impegnativo, pieno com’è di strumenti e metodi.

Funzionò, ha funzionato: è un progetto che mi ha dato grandi soddisfazioni, in Veneto, in Toscana, nelle Marche, in Lombardia e in Valle d’Aosta. Poi, all’improvviso, più nulla, altre cose premevano. Bisognava inseguire la bolla, in modo che scoppiasse meglio (una delle slide più contestate riguardava la sostanziale inutilità, ai fini del progetto industriale, degli investimenti immobiliari), bisognava occuparsi di altro. Ho continuato a proporre ProgettoImpresa, ma non era cosa: maiora premebant, la tattica faceva premio sulla strategia.

Poi succede che ne parlo a quelli della Bcc di Pratola Peligna, quelli del convegno di gennaio: e che dopo il convegno, nei giorni successivi, le imprese hanno, finalmente, voglia di mettersi in discussione ed in gioco, di ripensare a se stesse, di farlo con la banca. Non una banca qualunque, una banca pur sia: la banca locale, la banca del territorio, la banca di riferimento. Così accade che, a quanto pare, si riparte, a fine mese, con una prima edizione; ed è un risveglio di coscienza che non potevo non annotare.

Poi, come sempre, perché accada qualcosa occorre la libertà di tutto coloro che sono chiamati a viverle, certe circostanze: la banca, che ha fatto una mossa per prima, l’impresa, che è andata a vedere il gioco, ma potrebbe non rilanciare. E, infine, la libertà di coloro che terranno l’aula ed a cui è dato, grazie al Cielo, di continuare a fare il mestiere più bello del mondo.

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Educazione

E’ semplice vivere ed è semplice morire: basta affidarsi.

E’ semplice vivere ed è semplice morire: basta affidarsi.

Oggi alle 14 abbiamo accompagnato Daniela Baraghini all’ultimo viaggio, consegnando il corpo alla terra, sapendo che Dio aveva già abbracciato la sua anima grande.I suoi studenti (perché Daniela insegnava, come me: ed eravamo compagni di banco al liceo) le hanno scritto le parole di Bob Dylan, quella strofa di Forever young che dice:

Possa tu sempre fare qualcosa per gli altri E lasciare che gli altri facciano qualcosa per te Possa tu costruire una scala verso le stelle E salirne ogni gradino Possa tu restare per sempre giovane Per sempre giovane per sempre giovane Possa tu restare per sempre giovane“.

Quando, alla fine della Messa, qualcuno dei presenti ha parlato, testimoniando quanto Daniela fosse stata una presenza per ognuno di noi e per il mondo, una sua studentessa ha detto che lei ripeteva sempre:”E’ semplice vivere ed è semplice morire: basta affidarsi.” Vorrei essere degno della grazia di averla conosciuta: e la prego di starmi accanto dal Cielo ogni giorno mentre faccio il mestiere più bello del mondo.

Ciao Daniela.

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Alessandro Berti Crisi finanziaria don Giussani Educazione

Twittando dal #meeting 2012.

Twittando dal #meeting 2012.

L’incontro inaugurale del Meeting 2012 lo trovate qua su YouTube.

e non serve che io aggiunga nulla. Fare il volontario nel settore dove lo faccio io consente di partecipare agli incontri, almeno a quelli dove vanno coloro che accompagni o quelli dove serve che tu aiuti; e così è stato. Mi ha colpito, per l’impeto di libertà e per la domanda che pone alla politica ciò che ha detto Giorgio Vittadini, invocando libertà di educazione, di impresa, di iniziativa, in tutti i settori. E mi ha colpito, anche se ho fatto l’università con lui e lo conosco da trent’anni, il suo voler costruire, il suo essere positivo, il suo porre in risalto tutto ciò che di buono sappiamo fare, abbiamo fatto e possiamo fare. Così invito a vedere la Mostra sui giovani da lui curata, e di cui ha parlato il Sole 24 Ore qualche giorno fa.

Il Presidente del Consiglio, con il suo linguaggio, ha detto cose che servono a costruire, decodificando, anche in chiave culturale, il momento attuale e vedendo l’uscita alla fine del tunnel: può non piacere ciò che ha detto, ma l’uomo c’è tutto, ed è sul pezzo. Ed ha fatto cose che né il Presidente del Milan, né il suo ineffabile Ministro dell’Economia, che aveva parlato lo scorso anno, si sono mai sognati di fare. Anyway, il discorso è lì, su YouTube.

Mi ha colpito, infine, anche la violenza esarcebata di molti, mai sentiti né visti prima, che su twitter, reagendo, hanno scritto cose tristi non tanto per il contenuto, né per il linguaggio, ma perché mostravano solo chiusura e pregiudizio. Nella migliore delle ipotesi, molto moralismo, un’etica del tutto distaccata dalla realtà. La cosa migliore da fare, in tutti i sensi, è invitarli al Meeting: venire a vedere perché valga la pena impegnarsi (e spendere, tempo, denaro, ferie) per fare il volontario. Testimoniando quell’inesorabile positività del reale che don Giussani ci ha insegnato. Se qualcuno vuole venire, mi cerchi, qua o su twitter: sarei felice di incontrarlo.

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Crisi finanziaria don Giussani Educazione

Irriducibili e protagonisti (La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito #Meeting 2012).

Irriducibili e protagonisti (La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito #Meeting 2012).

“La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. La crisi non imporrebbe richiami più concreti?

No, anzi. proprio perché c’è la crisi diciamo che l’uomo non può lasciarsi determinare dalle circostanze. Nè rassegnati né ribelli, dobbiamo invece essere irriducibili e protagonisti di fronte agli eventi. Abbiamo vissuto per troppi anni al di sopra delle nostre possibilità e al di sotto delle nostre responsabilità.

Dall’intervista di A.Senesi a B.Scholz, Corriere della Sera, 18 agosto 2012.

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Perché la musica che mettono in continuazione non mi dice nulla della mia vita (Hang the DJ).

Perché la musica che mettono in continuazione non mi dice nulla della mia vita (Hang the DJ).

Mentre la Guardia di Finanza di Rimini rileva l’irregolarità di quasi il 60% degli scontrini, mentre si discute se sia meglio trivellare per ricercare il petrolio, oppure installare l’eolico in mare (già ora non particolarmente limpido), la locandina di un giornale locale spara la notizia di una “lista civica per rilanciare il turismo“. Il giornale medesimo equivale al Sun, ma con molto meno appeal e, ovviamente, diffusione. Ma la notizia merita un commento, in una città che ha fatto un piano strategico (finito non si sa dove), una molo street parade, una Notte Rosa, una app per i chioschi di piadina ma che non riesce a disegnare il suo futuro, tantomeno per la sua banca principale, la Carim.

Una lista civica per fare cosa? Con quali contenuti? La questione dell’educazione, intesa come valori, come cultura condivisa, come capacità di leggere ed affrontare la vita, come introduzione alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori rimane tuttora fuori: così come rimane sempre fuori la domanda sul perché tanta gente venga in Riviera, senza (quasi) mai vedere il mare, con tutto il carico culturale e comportamentale che questo comporta.

La musica che mettono in continuazione non mi dice nulla per la mia vita (hang the DJ).