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Crisi finanziaria PMI Ripresa

Lo schema Ponzi del bagnino re-load.

Lo schema Ponzi del bagnino re-load.

Alcune chiacchiere domenicali mi inducono a ripubblicare, in forma ampliata per favorire la comprensione, un breve articolo apparso settimana scorsa su http://www.inter-vista.it. L’articolo in questione, occupandosi degli effetti delle liberalizzazioni sul mercato turistico riminese, segnatamente quello del prezzo delle concessioni demaniali, giungeva a conclusioni “obbligate” a partire da una constatazione realistica ed oggettiva: l’evasione fiscale è la cornice obbligata delle cifre e dei numeri forniti. Precisato quanto sopra, nell’articolo in questione mancavano proprio i numeri, per mancanza di spazio: nei documenti si riportano le tabelle utilizzate per la verifica, mediante foglio elettronico, dei calcoli di convenienza.

Lo schema Ponzi dei bagnini (ovvero, del perché liberalizzare le concessioni di spiaggia infastidisce qualcuno).

Charles Ponzi era un immigrato negli Stati Uniti origine italiana (di Lugo, per la precisione) che agli inizi del ‘900 divenne famoso per aver realizzato una truffa di enormi dimensioni.

La truffa, secondo uno schema che ha preso il nome dal nostro e che è stata più volte attuata negli anni , prevede che attraverso la promessa di extra-rendimenti, un numero sempre crescente di persone sia indotto a partecipare, versando somme cospicue, ad un investimento “alternativo”, i cui proventi, nella realtà, non esistono. I denari di coloro che man mano sono coinvolti nella truffa, infatti, servono a liquidare coloro che vogliono monetizzare l’investimento e, soprattutto, ad arricchire il truffatore di turno. In sostanza, l’investimento, se così può essere definito, frutta solo se si trova qualcuno che subentra al posto di chi vuole uscire.

Era necessario parlare di Charles Ponzi prima di parlare del mercato delle concessioni di spiaggia, ovvero le concessioni demaniali che consentono ad un bagnino di gestire uno stabilimento balneare. Com’è noto, nella proposta di riforma presentata dal Governo Monti, la durata delle concessioni è stata ridotta e portata ad 8 anni (4+4), novità che ha fatto insorgere i bagnini medesimi e le loro associazioni e cooperative; la motivazione consisterebbe nell’insufficiente tempo a disposizione per ammortizzare gli investimenti, recuperando il capitale.

Per capirci di più, siamo andati a verificare i conti di uno stabilimento balneare riminese,

in zona semi-centrale, con otto file di ombrelloni (a detta di alcuni commercialisti, di grandezza media). È passato di mano, fra il 2006 e il 2007, per la modica cifra di 700mila €, di cui 100mila dichiarati e tutto il resto in nero. Come è noto, il passaggio avviene davanti al notaio mediante cessione di azienda, consistente in avviamento e attrezzature (sdrai, ombrelloni, lettini etc…). Da tale investimento deriva un reddito annuo al lordo di imposte, per i due soci acquirenti, pari a 90.000 €. Poiché risulterebbe fuorviante ragionare in termini di cifre nette, il ragionamento che segue sarà fatto nell’ipotesi di assenza di imposte (per la cronaca: i due soci acquirenti non dichiarano come dovrebbero 45mila € a testa, ma poco meno di 15mila), quindi al lordo.

Alla domanda: “Quanto rende uno stabilimento balneare?” risponderemo con alcune semplici valutazioni di convenienza, sulla base di un ragionamento economico noto e basilare, che afferma che il reddito d’impresa dovrebbe essere superiore a quello ottenibile da un’attività priva di rischio (risk-free), normalmente rappresentata da un BTP a 5 anni (pari al 3,77% nel 2007). Se si ipotizza che il premio al rischio richiesto nel settore alberghiero sia pari a circa l’8,3% si può concludere che, affinché ne valga la pena, l’investimento nello stabilimento balneare dovrebbe rendere almeno il 12% annuo lordo: altrimenti, sarebbe meglio stare a casa ed aspettare che maturino gli interessi, senza rischiare. Nell’effettuare il paragone, è importante ricordare che, se alla scadenza un BTP sarà rimborsato al valore nominale o in alternativa, venduto sul mercato e liquidato, lo stesso non può dirsi dello stabilimento balneare, per il quale occorre trovare un acquirente disposto a pagare perlomeno quanto versato a suo tempo dal venditore. La liberalizzazione pone un termine all’investimento, fissando in 8 anni l’orizzonte dell’investimento stesso, scaduti i quali si deve ipotizzare di non poter più ottenere redditi di sorta, tantomeno quelli legati alla cessione. Snodo cruciale della riforma, pertanto, è l’abrogazione, de facto, della possibilità per l’investitore di rientrare attraverso la rivendita della concessione, perché dopo 8 anni sarebbe  comunque messa all’asta; tutti quelli che hanno comprato prima della riforma non avrebbero più nulla da rivendere.

Inoltre si dovrebbe tenere presente che il reddito lordo annuo di 90mila € non dovrebbe essere considerato reddito d’impresa, se non per la parte non imputabile al lavoro dei soci: nell’ipotesi è presumibile che tale lavoro valga almeno 20mila € l’anno per ognuno di essi e, di conseguenza, il reale reddito d’impresa sia pari a 50mila € ((90.000-(20.000×2)=50.000).

Le conclusioni alle quali si giunge usando un semplice foglio elettronico su Excel, applicando le funzioni Tir (tasso interno di rendimento) e Van (Valore attuale netto) sono molto istruttive (la tabella generata mediante foglio elettronico è riportata, come detto, fra i documenti)

Date le ipotesi di cui sopra, alla fine degli 8 anni, i nostri bagnini:

1.         rientrerebbero a malapena dell’investimento solo se riuscissero a vendere l’azienda allo stesso prezzo al quale l’hanno pagata (700mila €), con un rendimento sul periodo pari al 12,857%, leggermente superiore a quanto richiesto dal settore,  facendo finta di lavorare gratis;

2.         se, al contrario, lo stabilimento non fosse più cedibile al termine degli 8 anni, il rendimento dell’investimento sul periodo sarebbe pari allo 0,63% annuo, ampiamente inferiore persino all’inflazione; se poi si considerasse che una parte di quei 90mila € è reddito da lavoro dipendente, cioè non si lavora gratis, l’investimento NON sarebbe più conveniente, non consentendo mai il recupero del capitale investito, se non in un arco di tempo molto più lungo;

3.         in sostanza, converrebbe fare il bagnino solo pagando un prezzo di ingresso, in sede di asta per la concessione demaniale, molto più basso, non superiore, nell’esempio, a 250.000 €;

4.         infine, volendo rispettare il tasso di rendimento obiettivo del settore senza fare finta di lavorare gratis, se continuasse lo schema Ponzi del bagnino, il prezzo al quale dovrebbe avvenire la cessione al termine degli 8 anni dovrebbe essere incrementato rispetto all’originale di almeno il 70%; nel nostro caso il bagno dovrebbe passare di mano per 1,2 mln.di €, ovvero si dovrebbe trovare qualcuno disposto a pagare tale cifra.

E’ conveniente, allora, investire in uno stabilimento balneare? Lo è solamente a due condizioni concomitanti e connesse:

a)        che sia possibile rivendere ad un prezzo almeno pari a quello di acquisto (e la riforma abolisce questa possibilità);

b)        che i redditi ottenuti ed il capitale investito siano assoggettati ad imposte il meno possibile, ovvero massimizzando l’evasione fiscale.

Se questo è vero, date le ipotesi che si sono illustrate, allo schema Ponzi del bagnino si deve aggiungere un elemento non quantificabile ma molto importante nel valutare perché i prezzi siano così elevati e nell’immaginario collettivo siano anche giustificati: nel prezzo pagato, in effetti, vi sono motivazioni extra-economiche riassumibili nel concetto “fare-il-bagnino-è-il-lavoro-dei-sogni”. Il prezzo pagato misura quanto saremmo disposti a pagare per il-lavoro-dei-sogni. E le liberalizzazioni delle concessioni, impedendo l’eventualità che si possa rientrare del prezzo pagato alla scadenza, interrompono lo schema, soprattutto per chi vi è già coinvolto, facendo scoppiare la bolla dei prezzi: perché nessuno sarà più disposto ad investire ingenti capitali, sia pure per svolgere il-lavoro-dei-sogni, con contratto a tempo determinato non rinnovabile (gli 8 anni fissati dal Governo), sapendo che non sarà più in grado di recuperare i denari esposti al rischio d’impresa.

 

 

 

 

 


[1] Fra gli altri da Vincenzo Cultrera, a.d. dell’Istituto Fiduciario Lombardo, poi fallito e coinvolto in una bancarotta fraudolenta, che negli anni ’80 comprò il Grand Hotel di Rimini per poi rivenderlo sotto forma di certificati immobiliari.

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Crisi finanziaria Disoccupazione fiducia Imprese

Se ne occupa il ragioniere, io resto sempre un falegname.

Se ne occupa il ragioniere, io resto sempre un falegname.

Un bel pezzo di Mario Gerevini sul Corriere del giorno di San Silvestro accende i riflettori, rigorosamente tenuti spenti dal coraggioso quotidiano locale, Il Resto del Carlino, sul riminese Luigi Valentini, uno dei più grandi produttori europei di mobili in kit. Valentini, le cui industrie metteranno lunedì prossimo 215 dipendenti in CIG, ha “scudato” la modica cifra di 20 milioni di euro, serviti, a quanto pare, per investire nella INVAG e attraverso una fiduciaria sammarinese in un significativo pacchetto di azioni Generali (1,35%). Suggeriamo all’ottimo Gerevini di approfondire ulteriori interessanti aspetti del capitalismo relazionale all’italiana. Quello per cui lo stesso Valentini è socio della principale impresa di costruzioni di Rimini, quella che non risente mai di crisi di sorta, la Ge.Cos. spa, quella che ha realizzato la Darsena (ma soprattutto la parte commerciale della medesima), quella che trasforma in oro tutto ciò che tocca: quella che riuscirebbe a costruire sopra Atlantide, se mai la ritrovassero. Quella alla quale nessuna amministrazione, rigorosamente democratica, della capitale del turismo, ha mai negato alcuna autorizzazione ad edificare. Valentini, alle domande maliziose del giornalista sulle fiduciarie, ha risposto che lui non se ne occupa, se ne occupa il ragioniere, lui resta un falegname.  Ah, il Rettore dell’università di Urbino, quella che gli ha conferito la laurea honoris causa, è un politico riminese, il Magnifico e Chiarissimo prof.Sergio Pivato.

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Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Imprese marginali 1.

Imprese marginali 1.

Il comandante della Guardia di Finanza di Bologna, Minervini, parlando qualche giorno fa dei risultati raggiunti dall’arma nella lotta all’evasione, ha affermato che “molte imprese evadono per sopravvivere“. Ora, poiché questa è la solita tuba che viene propinata ad anni alterni dalle associazioni di categoria e da chiunque cerchi di giustificare i pessimi risultati di molte aziende oramai marginali, forse sarebbe il caso di riflettere su un dato molto semplice: che se un’impresa non riesce a pagare le imposte, forse dovrebbe chiudere, così come quando non riesce a pagare i debiti (il seguito alla prossima puntata). Se non si riescono a pagare le imposte e questo serve per sopravvivere -s’intende, non a caviale e champagne, guidando una Bentley e viaggiando in prima classe- significa che c’è un problema prima delle tasse, ed anche prima degli oneri finanziari. Si chiama risultato operativo, e probabilmente non c’è più, o non c’è mai stato. Nel frattempo, quando imprese come queste evadono, il resto dei contribuenti fa un’opera di carità, mantiene posti di lavoro: ottima cosa, ma bisognerebbe dirlo.

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PMI Stato Sud

Pensione Iris, cucina casalinga.

Pensione Iris, cucina casalinga.


Salari a due velocità.

Vengo dal Mezzogiorno e lavoro in Romagna, sono uno chef di cucina e guadagno duemila euro al mese dei quali più della metà in nero. E’ così e direi che non posso farci niente: o accetto queste condizioni o vado a casa. Ho degli amici che fanno il mio stesso mestiere al Sud, guadagnano 400-500 euro in meno ma tutto in busta e tutto dichiarato…

Lettera di commento di un lettore sul Corriere della Sera del 4 aprile 2011 ai dati sull’evasione fiscale.

Non è questione di differenziali salariali, come adombra il titolista del Corriere, o perlomeno non si tratta solo di quello. Basterebbe, al riguardo, osservare la diversità del costo della vita fra Nord e Sud per rendersene conto. No, non è appena questione di salari diversi: è che pagare in nero serve a comprimere i costi, per continuare ad offrire servizi e prodotti al ribasso, la pensione completa a 29 € al giorno più biglietto di Mirabilandia, per inseguire sempre e soltanto il turismo povero e non crescere mai. Il turismo di coloro che non si rendono conto che pagare 29 € al giorno è completamente fuori dalla realtà. L’evasione fiscale serve, fra l’altro, a distruggere la qualità: se mai c’è stata, la qualità.

 

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Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese Liquidità PMI

Ultime file.

Stefano Fassina, responsabile economia del Pd: “Sì: il centrodestra fa davvero poco per dimostrare di non essere il partito che aiuta gli evasori – e il caso dei condoni resta a mio avviso una scelta politica che non potrà mai essere apprezzata da un vero partito di centrosinistra – ma dall’altra parte una realtà riformista come la nostra non può dimenticare che la storia dell’Italia dimostra che in molti casi l’evasione fiscale, oltre che patologica, è stata anche condizione di sopravvivenza di una parte consistente del pulviscolo di imprese individuali e delle moltitudini di lavoratori autonomi. Per questo, bollare come ‘ladri’ gli evasori, come fanno invece troppe persone a sinistra, è un’assurda generalizzazione; astrattamente condivisibile, ma sbagliata sul piano etico e perdente sul piano politico: perché mette insieme l’artigiano stressato da quattordici ore di lavoro al giorno, e costretto all’evasione per rimanere – o, almeno, illudersi di essere – nelle ultime file delle classi medie e l’imprenditore con yacht e case per le vacanze sparse per l’Italia che magari evade le tasse solo per profondo egoismo sociale”.

Così Claudio Cerasa su Il Foglio.

Sull’imprenditore con yacht e case non ho nulla da dire, penso abbia ragione il Governatore quando afferma che l’evasione fiscale è la vera “macelleria sociale” del nostro Paese. Mi lasciano perplesse le affermazioni di Fassina, peraltro sostanzialmente condivise da Claudio Cerasa, perché non rispondono ad un interrogativo di fondo: siamo sicuri che tutte queste micro-imprese, spesso poco più che posti di lavoro auto-creati, meritassero di restare in piedi? Siamo sicuri che il problema non sia la non sostenibilità ab origine di certe scelte o iniziative imprenditoriali, talmente deboli da necessitare di non pagare le imposte? Ovvero, per dirla con linguaggio da analista,  siamo sicuri che il problema non sia l’inconsistenza del risultato operativo?


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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese

Evadere per sopravvivere: qualche riflessione dall’analisi di bilancio.

banconote

Le dichiarazioni del Presidente della Camera di Commercio di Rimini, l’industriale Manlio Maggioli, che ha affermato che le imprese evadono per sopravvivere, oltre a fungere da foglia di fico per la scoperta che, proprio in provincia di Rimini, tante famiglie, in numero superiore alla media nazionale, sarebbero sotto la soglia di povertà, fornisce uno spunto di riflessione troppo spesso accantonato nell’analisi della tenuta del sistema delle Pmi, non solo in Romagna.

Le imposte, nella riclassificazione dei bilanci delle imprese, si collocano alla fine: prima di esse vengono tutti gli altri costi d’esercizio, che sottratti al fatturato, danno luogo a quella fondamentale misura di equilibrio economico che è il risultato operativo. Ovvero quel risultato che dipende solo ed esclusivamente dalla bravura o dalla incapacità dell’imprenditore, perchè tutti i costi ed i ricavi che ad esso danno luogo sono merito, o colpa, dell’imprenditore. Nel risultato operativo non entrano le banche avide e rapaci -gli interessi passivi e gli oneri finanziari- e neppure gli accadimenti che derivano dall’accanirsi del destino cinico e baro -le minusvalenze, le sopravvenienze passive e tutti gli oneri, e talvolta i proventi, straordinari: non entrano, infine, le imposte che l’esoso fisco italiano impone ai poveri imprenditori. Insomma, il risultato operativo è un po’ ciò che per la regina cattiva della fiaba era “lo specchio delle mie brame”: dice all’imprenditore se davvero egli è il “più bello del reame” oppure si tratta di una volgare sciacquetta.

Parlare di sopravvivenza come fine ultimo, in quanto tale nobile (chi non vorrebbe salvare imprese e posti di lavoro?) è, tuttavia, leggermente mistificatorio: così come lo è il discorso che spesso ci si sente ripetere che le banche “strangolano” le imprese con il peso degli interessi, quasi che i finanziamenti fossero stati accesi obtorto collo, sotto costrizione. Molto spesso, nel corso del lavoro che quotidianamente affronto, mi capita di annotare che il risultato operativo è tutto eroso dagli oneri finanziari, ovvero che manca l’equilibrio economico, condizione indispensabile non solo perchè vi sia autofinanziamento, ovvero equilibrio finanziario, ma per la prosecuzione stessa dell’attività. In altre parole, molte imprese non ce la fanno non perchè pagano troppe tasse, ma perchè sono imprese marginali, destinate ad uscire dal mercato, alle quali l’evasione fiscale allunga un’agonia che, in un mercato efficiente, durerebbe molto meno.