Quello che le banche hanno dimenticato.

Un gran bell’articolo “Le banche dimenticano uomini (e credito)” di Dario Di Vico, giornalista attento alle vicende di banche e Pmi, ha segnato il dibattito dell’anno che si è appena concluso. Vale la pena rileggerlo (si trova nei documenti) per riflettere e ragionare su quello che (non) stanno facendo le banche in questo momento. Mi si perdonerà l’esegesi del testo, ma credo serva a capire meglio quanto sta accadendo, e perché.
Vi sono due punti chiave nella lettura dell’articolo, entrambi all’inizio: il primo riguarda il differenziale fra i tassi attivi, applicati alla clientela (che arrivano a sfiorare il 12%) e quelli passivi, riconosciuti alla BCE e pari all’1%; il secondo punto riguarda la capacità della banca di selezionare il merito di credito dei prenditori, in questo momento quasi automaticamente negativo.
Sul primo punto osservo che non si può ignorare che la raccolta presso la BCE non solo è una frazione del totale dei fondi intermediati ma, soprattutto, è destinata a fornire di liquidità istituti sempre più illiquidi a causa dei prestiti che hanno concesso, soprattutto nell’immobiliare. E che non diventeranno liquidi a breve, sia per la ritrosia delle banche a spingere per l’esecutività dei loro titoli (temendo di gravare il bilancio di nuove sofferenze si preferisce rinviare la loro emersione), sia per l’attaccamento morboso al mattone di tanti, troppi prenditori, privati e imprese, che non intendono (s)vendere fino a che il prezzo non sia ridiventato remunerativo. La verità è che le banche sono illiquide e la liquidità che offre loro la BCE serve a spuntare qualche utile sugli impieghi finanziari e a far fronte alle necessità determinate dall’applicazione dell’LCR e del dover essere sempre solvibili verso i depositanti.
Quanto al secondo punto, Di Vico intervista Stefano Caselli della Bocconi, il quale osserva che “Non ci sono state innovazioni nella capacità di individuare il merito di credito, le banche stanno semplicemente reagendo all’inasprimento dei requisiti di capitalizzazione richiesti dalle autorità bancarie europee“. Caselli ha ragione, anche se, anzichè parlare di mancate innovazioni nella capacità di determinare il merito di credito, avrebbe dovuto argomentare circa la “smarrita capacità di inviduare il merito di credito“. Dall’entrata in vigore dei rating, più di dieci anni fa, tutte le banche, con l’eccezione delle banche locali, hanno fatto a gara nell’elaborare modelli di valutazione interni talmente perfetti da rendere superfluo il capitale umano, dimenticando che le imprese non sono un fenomeno fisico o chimico, ma sono fatte da persone. Duole dirlo, ma in prima fila nell’elaborazione teorica di questi modelli ci sono stati proprio i professori della Bocconi, la cui sterminata bibliografia degli ultimi dieci anni sui rating testimonia quanto vado dicendo.
I modelli sono fatti apposta per minimizzare i costi operativi (leggi: personale), ma funzionano solo con i prenditori di qualità primaria. La lettura dei manuali per uso interno delle principali banche italiane è illuminante al riguardo. Prima che Di Vico riscontrasse nella prassi quello che ha raccontato nel suo articolo, i funzionari delle maggiori banche italiane (l’85% del mercato del credito), già applicavano una preselezione dei soggetti da affidare, tralasciando nei fatti proprio ciò che ora viene invocato da Caselli, ovvero la valutazione del merito di credito. Valutazione che parte dai conti, dagli hard numbers, per arrivare a capire la personalità dell’imprenditore, la sua preparazione, la sostenibilità finanziaria del progetto: valutazione che i rating ed i modelli evitano. Mi colpisce tuttora pensare al commento fatto da un collega di un’università della mia regione che qualche anno fa, quando gli inviai la consueta copia saggio del mio lavoro sul processo del credito, mi rispose con un “Finalmente qualcuno che si occupa di cose concrete.” Si potrebbe aggiungere: per le quali serve tempo, risorse, soprattutto capitale umano, e la voglia di intrattenere relazioni di lungo periodo non basate sui profitti di breve periodo.
Infine, e questo nell’articolo non è scritto, le banche più illiquide sono quelle che sono state e sono tuttora più vicine alle Pmi, le banche locali, Bcc in primis. Che hanno corso tanto, che hanno fatto tanto, probabilmente più di quanto avrebbero dovuto; che hanno peccato di azzardo morale quando hanno inseguito una dimensione che non era la loro, gonfiando il portafoglio di impieghi che le altre banche lasciavano perdere. Le banche locali non hanno dimenticato gli uomini, ma hanno capitali limitati e attivi illiquidi. Possiamo anche fare tante fusioni, come propone la Vigilanza di Bankitalia, preoccupata del rischio microsistemico: ma allora la triste conclusione dell’articolo di Di Vico, quella che prevede imprenditori che metteranno in vendita al primo che passa la loro azienda, diventerà presto una triste realtà.
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