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Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Ricevo dall’ottimo Fabio Pavesi, un grande giornalista oltre che un amico, con il quale abbiamo condiviso l’interesse per il caso Mariella Burani Fashion Group, l’articolo apparso sul Fatto Economico nella giornata di ieri, 24 luglio. Pavesi parla di “cura” Mustier per Unicredit, rammentando i due ultimi esercizi in utile che hanno ristorato azionisti “stremati” (ma che quando le cose andavano bene passavano alla cassa senza battere ciglio), come una cura, cioè un piano industriale, basato solo sulla riduzione del personale. D’altra parte se l’unica politica che hai attuato in tutti questi anni è stata vendere i gioielli di famiglia, da Pekao Bank a Pioneer fino all’ultima, Fineco Bank, e facendo cassa hai rafforzato patrimonialmente la banca, se latitano i ricavi devi ridurre i costi. e gli unici costi, in una banca che ha già chiuso centinaia di filiali (per i non riminesi: venite farvi un giro in centro a vedere la ex sede centrale di Unicredit a Rimini, desolatamente vuota da almeno due anni, immobile sfitto e amenità simili…) sono rappresentati dal personale.

Il ragionamento, sotto il profilo gestionale, non fa una grinza, salvo essere il mantra che spesso il banchiere medesimo ripete all’imprenditore, ovvero che si devono tagliare i costi ma che non basta tagliare i costi, occorre avere riguardo ai ricavi e alla redditività. Proprio perché non fa una grinza, si inceppa al momento di immaginare un percorso di sviluppo e di ripresa della redditività: Pavesi, nel caso specifico, ipotizza una soluzione finanziaria, con Unicredit al centro di una maxi fusione europea con Commerzbank etc…, poiché Mustier viene dalla finanza e questo è un imprinting indelebile. Ma mentre Unicredit pensa a licenziare, intorno cresce il fintech, e non solo per Unicredit. Ovvero, dum Rome consulitur Saguntum expugnatur: le banche stanno perdendo il lavoro più redditizio (anche se adesso molto meno) e facile che abbiano mai fatto, l’anticipo fatture e la gestione del cosiddetto autoliquidante. E dopo aver deciso di vendere i mutui di qualcun altro e le assicurazioni fabbricate altrove, continuano a latitare nelle proposte per le imprese, soprattutto PMI. Per questo continuo a pensare che, sebbene forzata da una riforma voluta dal legislatore, la scelta delle Bcc/CRA riunite sotto l’egida di ICCREA e di Cassa Centrale Banca dall’altra possa diventare vincente: perché l’economia ha certamente bisogno della finanza, ma non di qualunque finanza.

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Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Un articolo dell’ottimo Fabio Pavesi sul Sole 24Ore on line di ieri riporta le stanche considerazioni del Centro Studi Confindustria su come (sperabilmente) uscire dalla stretta creditizia. JM forse è incattivito dalla crisi e dalle circostanze -e la cattiveria induce talvolta al cinismo- ma leggere che la finanza innovativa, i mini-bond, i bond di distretto e le cartolarizzazioni (sic) potrebbero essere, secondo Confindustria, una soluzione al credit crunch non offre nemmeno il brivido di una promessa elettorale allusiva ed affascinante, ma che non può essere mantenuta. Leggere che secondo il Csc nuovi finanziamenti «vanno trovati aprendo canali alternativi a quello bancario, da tempo individuati ma mai diventati realmente efficaci» e «bisogna superare i tradizionali limiti di accesso delle aziende italiane ai mercati»; che maggiori risorse «devono venire dal capitale proprio delle imprese. Ciò richiede il rilancio di vari strumenti. La crisi ha frenato in Italia lo sviluppo del mercato del private equity, importante per le PMI che non accedono alla Borsa. Anche l’espansione degli strumenti ibridi di capitale, come il mezzanine finance, va rilanciata»; ecco, leggere tutto questo è deprimente. Deprimente come l’avvertire la vacuità di parole d’ordine che Confindustria ripete stancamente da anni, pensando che il problema siano gli strumenti e non, per esempio, la mancanza di trasparenza delle Pmi, la loro modestissima -quando non assente- propensione al to go to market, la chiusura al capitale esterno, tranne che per il debito. Il private equity è invocato ritualmente, come la manna da cielo; ma mentre la manna era per tutti, il private equity è per pochi e in Italia si fa solo per operazioni che non riguardano la fase iniziale del ciclo vitale dell’impresa. Ciò di cui il Csc, al solito, non parla è ciò che è più faticoso, ovvero rilanciare il rapporto banca-impresa, coinvolgere entrambi i protagonisti della relazione di clientela in un rapporto trasparente e fiduciario, provando a condividere giudizi, culture, tecniche e, vivaddio, anche strumenti. Anche: perché  non c’è mercato dei capitali che tenga per chi non voglia attingervi con coscienza e responsabilità.

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ABI Banca d'Italia Banche

Il silenzio degli innocenti (le colpe dell’affaire #MPS).

Il silenzio degli innocenti (le colpe dell’affaire #MPS).

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Il caso MontePaschi capita durante la chiusura delle lezioni per la sessione invernale degli esami; ma se fossimo durante il semestre, si potrebbe usare la vicenda per molte e molte ore di lezione su casi aziendali di moral hazard, benefici privati, malfunzionamento della teoria dell’agenzia, efficacia e pervasività dell’attività di vigilanza sui sistemi finanziari etc…

Dei legami tra politica e banche mi annoio persino a parlare, ricordando le nottate -ai bei tempi del centro-sinistra- nel corso delle quali il Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (CICR) nominava amministratori delegati e presidenti di tutte le banche pubbliche italiane, ovvero tutte le più importanti. E al Monte dei Paschi, che io ricordi, non è mai andato un bel democristiano doc, che so, uno come Ferdinando Ventriglia: no, solo compagni comunisti, di sicura fede. Questo accadeva prima della Legge Amato-Carli, quella che privatizzava, sui generis, le banche italiane, obbligando queste ultime a creare una spa, con la Fondazione a monte, secondo il ben noto meccanismo che vige in Unicredit, Intesa e lo stesso Monte dei Paschi. La politica, uscita dalle porte delle banche spa, è rientrata dalle finestre delle Fondazioni: le quali, come insegna la vicenda riminese della Carim, non agiscono secondo logiche propriamente economiche, nè di “sana” gestione no-profit, ma nuovamente e unicamente politiche, sia pure con una forte connotazione localistica.

Anche in MontePaschi sembra di poter rinvenire i medesimi comportamenti: la Banca è stata usata come mucca da mungere per gli interessi dell’azionista di maggioranza, talmente legato a doppio filo al proprio unico e non diversificato investimento, da non potersi permettere di scendere sotto il 51%, anche a pena di un indebitamento crescente. La Fondazione MontePaschi non solo non ha minimamente controllato l’origine e la natura delle performance (invero pessime) del proprio asset principale, ma ha compiuto scelte antieconomiche nel nome di un mantenimento del controllo che può ben essere definito finalizzato esclusivamente all’ottenimento di benefici privati. Ascoltando Focus Economia su Radio 24 ieri sera, in macchina, ho udito Fabio Pavesi ripercorrere la vicenda MPS accennando in modo velato a colpe e mancanze di Consob e Banca d’Italia. Su Consob mi permetto solo di rammentare che l’autorità è garante del funzionamento dei mercati mobiliari, non dei ribassi o dei rialzi: e che non le compete il controllo sui bilanci delle quotate. Altro discorso è quello riguardante Banca d’Italia. Mi rendo conto che è facile individuare un colpevole nel vigilatore, che non vigilerà, ovviamente, mai abbastanza, soprattutto se si deve polemizzare, come alcuni pessimi esponenti del PdL stanno facendo, dimentichi dei guai di Popolare Milano e dei banchieri legati alla Lega (oltre che di altre tante situazioni che in scala ridotta riproducono schemi analoghi di malgoverno e di ingerenza). E si potrebbe andare avanti, ma è inutile, oltre che, appunto, noioso. La questione della vigilanza è ampia e complessa, non può essere risolta da un richiamo ad una maggiore pervasività: posso immaginare le vestali dei tagli alla spesa pubblica stracciarsi le vesti medesime alla notizia di nuove assunzioni da parte dell’Ispettorato di Bankitalia. Se si guarda al passato, in URSS e in Cina non ci sono mai state crisi bancarie, per la buona ragione che la dittatura comunista garantiva (e in Cina tuttora garantisce) il controllo su ogni attività economica: d’altra parte Francisco Franco, con la dittatura, ha da parte sua garantito lo sviluppo di Santander e BBVA, libere dai condizionamenti della concorrenza. Il massimo di controlli corrisponde al minimo della libertà economica oltre che essere, appunto, assai costoso: ed il Collegio sindacale è gravato, da ultimo, da compiti che il profano neppure immagina, per complicatezza, ambiguità e rischio professionale. Da ultimo, affidarsi fideisticamente ai controlli genera irresponsabilità ed evita la fatica: la fatica dell’azionista di chiedere conto, al di là dei risultati, di ciò che gli viene presentato, la fatica degli stakeholder di valutare complessivamente le performance. E, da ultimo, la fatica dei manager di conseguire risultati che dicano, al di là dei numeri, di una strategia condivisibile e condivisa. Se il dibattito di queste ore provasse a ripartire di qua, forse si potrebbe anche sperare che una vicenda così grave e triste possa avere qualche esito positivo. Forse.

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Banche Banche di credito cooperativo Bolla immobiliare Rischi

Gli immobili si ri(s)valutano sempre.

Moody’s ha declassato a -D, ovvero ad emittente di titoli speculativi, il rating della Bcc Alta Padovana. Fabio Pavesi, su Plus 24 del Sole di ieri ripercorre le vicende che hanno portato la banca di Campodarsego ad iscrivere accantonamenti per crediti incagliati per oltre 46 milioni, in gran parte legati al settore edile ed immobiliare, che ha assorbito il 50% circa degli impieghi della banca. La prima, triste constatazione che sorge, leggendo la notizia, riguarda il fatto che ben più di Cirio, Argentina e Parmalat poté il mattone, che da Nord a Sud continua a mietere vittime. E su questo, come è capitato sovente di ricordare nel corso di numerosi incontri e conferenze, le banche locali avrebbero dovuto evitare di accodarsi, come troppo spesso accaduto, alla tendenza generale. Se la vocazione della banca locale è servire le Pmi del territorio, questo dovrebbe significare avere a cuore sviluppo ed occupazione delle imprese del territorio, non il finanziamento di una componente speculativa, pur molto popolare, delle scelte imprenditoriali.

Nell’augurare alla Bcc dell’Alta Padovana di saper uscire rapidamente dalla crisi, anche in onore alla sua storia ultracentenaria, non si devono tuttavia dimenticare due aspetti, senza i quali il giudizio rischierebbe di essere parziale.

In primo luogo le imprese edili sono da sempre una delle componenti settoriali più significative delle Pmi italiane, venete e non: dunque è facile immaginare che la Bcc di Campodarsego non abbia fatto altro che assecondare le scelte imprenditoriali di una grande quota della propria clientela, che non poteva essere semplicemente lasciata andare a fare le stesse cose altrove.

In secondo luogo, e non si tratta di un aspetto di poco conto, le Bcc italiane hanno messo a punto un sistema di tutela e salvaguardia incrociata delle obbligazioni di propria emissione, in grado di garantire i clienti sulla solvibilità delle banche che, a livello nazionale, sono coordinate e guidate da Federcasse. Non esistono meccanismi simili nelle banche di maggiori dimensioni, anzi la crisi ha evidenziato i comportamenti opportunistici di coloro che presentavano garanzie collaterali poi rivelatesi inconsistenti. Senza dimenticare che, per nota prassi di Banca d’Italia e per solidarietà mutualistica, le Bcc, di norma, si salvano da sole e responsabilmente, senza gravare sui bilanci di alcuno.

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Borsa Cultura finanziaria Rischi Risparmio e investimenti

Neuroscienze ed esorcismi: allontanarsi dalla realtà inseguendo le spiegazioni.


Con l’aria che tira chi oggi diminuisce l’esposizione creditizia e aumenta i flussi di cassa non può che essere premiato dal mercato. Cosa puntualmente avvenuta.”

Così annota, giustamente, Fabio Pavesi sul Sole 24 Ore di domenica, registrando una peraltro inconsueta convergenza fra i fondamentali di alcune aziende e la loro quotazione di Borsa. La notazione è condivisibile e fa riflettere, tanto più che, nella stessa pagina, Marco Liera si chiede:”Da dove nascono le bolle speculative e i crolli di borsa? Perché milioni di risparmiatori (e non pochi professionisti dei mercati) puntano a comprare ai minimi e a vendere ai massimi e finiscono regolarmente per fare il contrario?” Liera prosegue citando “nuovi studi che coniugano psicologia, economia e neuroscienze stanno cercando di rispondere a questi interrogativi. Uno di questi è stato presentato lo scorso fine settimana durante l’annuale convention di Efpa Italia, l’associazione che qualifica con standard internazionali i consulenti finanziari che puntano a migliorare costantemente la loro professionalità. Caterina Lucarelli dell’Università Politecnica delle Marche e Gianni Brighetti dell’Università di Bologna hanno condotto un esperimento senza precedenti su un campione di più di 400 soggetti (investitori privati e professionisti della finanza) per analizzare le varie componenti dell’avversione al rischio degli individui. Una delle scoperte più importanti della ricerca (che uscirà a breve in un libro intitolato «Risk Tolerance in Financial Decision Making») è che esiste un pericoloso “demone nascosto” (unconscious sleeping factor) dentro molti di noi che rappresenta l’attrazione emozionale e molto spesso inconsapevole verso il rischio.”

Ho avuto modo di visionare qualche mese fa una parte dei risultati della ricerca e, soprattutto, la metodologia utilizzata. La prima sensazione, osservando lo studio dei comportamenti umani alla luce di tecniche che tentano di avvicinarli a scienze esatte, è stata di disagio. Lo stesso disagio che non si può non avvertire tutte le volte che si legge di studi e ricerche che affrontano le scelte della persona tentando di ricondurle, e quindi riducendole, a qualcosa di spiegabile meccanicamente. Lo stesso disagio provato avvertendo l’ostilità preconcetta verso gli economisti, assimilati (anche dalla regina Elisabetta II) a medici incapaci di leggere le diagnosi di laboratorio, a radiologi arruffoni, a chimici impreparati. Dice bene Marco Liera, a conclusione del suo articolo, quando evidenzia l’importanza della cultura e dell’educazione finanziaria: e non si può che concordare con la sua conclusione.

Ma il disagio resta. Resta, ripensando per esempio alle molte perizie fatte nel corso di cause sul “risparmio tradito“, quando leggendo gli atti di causa si percepiva chiaramente, anche nei casi dove più manifesta era l’imperizia o la malizia di parte bancaria, una vera e propria avidità da parte del risparmiatore. Che pone sempre le stesse domande, che vuole sempre lo stesso titolo, che lo faccia arricchire in fretta, che sia molto liquido e poco rischioso. Che forse non ha bisogno di elettrostimolatori o di cavetti mentre sceglie a quale titolo impiccarsi, ma che prima ancora avrebbe bisogno di criteri e di qualcuno che lo aiuti a farsi le domande giuste. Perché se le conclusioni della ricerca sono quelle che anticipa Liera, come si fa a non domandarsi: e gli altri? Quelli che non sono maschi, fra 30 e 60 anni, mediamente colti, non vedovi, non divorziati, gli altri che fanno, perdono sempre? E se un maschio felicemente coniugato, colto e laureato, studioso di finanza fin dalla tenera età sbaglia, a chi chiediamo il risarcimento? Anziché alla banca alla A.S.L.?

 

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Analisi finanziaria e di bilancio Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese Mariella Burani

Ignoranti come un banco.

Ignoranti come un banco.

Un bell’articolo dell’ottimo Fabio Pavesi su Plus24 di sabato 28 agosto, sottolinea la lezione per le banche dei tre dissesti, i primi due -Viaggi del Ventaglio e Burani- conclamati, il terzo -SNIA- in dirittura d’arrivo, che hanno fatto sfumare prestiti per circa un miliardo. Pavesi ha ottime ragioni per affermare che le banche non hanno fatto il loro dovere, ovvero non hanno valutato approfonditamente e con attenzione il merito di credito. Nel caso Burani, peraltro, il comportamento di Centrobanca, guidata da Mario Boselli, e di UBI, è ancora più grave e desta preoccupazione, perché certe decisioni sono state prese quando ormai chiunque si sarebbe accorto del dissesto.

Pavesi nel suo articolo parla di “lezione per le banche“. Ma la sensazione, leggendo sullo stesso giornale, lo stesso giorno, lo stesso giornalista che parla di “Coppola e le banche prodighe“, a proposito del ritorno sulla scena dell’immobiliarista, grazie al Banco Popolare di Pier Francesco Saviotti (le cui bizzarre tesi si è già avuto modo di commentare), è quella di alunni assai ignoranti ed impreparati. Alunni, come si dice in Romagna, “ignoranti come un banco”: che sta sempre nella stessa classe, ascolta ogni tipo di lezione, e non impara nulla.

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Banche Borsa profitto Unicredit

Trasparenza, integrità e ingegneria finanziaria.

Alessandro Profumo

Cambierà anche l’attività bancaria?
Rispetto al periodo prima della crisi, quando l’attività bancaria si è concentrata sul profitto a breve termine, ritengo che ci saranno dei cambiamenti. Credo che le quattro parole chiave per il futuro dell’attività bancaria siano: attenzione al cliente, semplicità, trasparenza e integrità. Poiché è l’integrità che crea la fiducia necessaria per instaurare relazioni bancarie a lungo termine.

Intervista ad Alessandro Profumo

I Falck, la nuova Actelios e la delusione dei piccoli soci.

“L’attuale Actelios ha i conti in ordine: 95 milioni di fatturato; un margine lordo che vale più di un terzo dei ricavi e 4 milioni di utile netto. (..) Il conferimento di Falck Renewables stravolge la struttura finanziaria. La nuova Actelios si troverà con ben 520 milioni di debiti con le banche. (..) Si unisce una società solida patrimonialmente con una che zoppica sotto questo fronte. (..) Ebbene qui c’è un capolavoro di ingegneria finanziaria. La Falck Renewables viene valutata assai più di Actelios, con un valore dell’equity di ben 500 milioni. E tra i valutatori c’è Unicredit, considerata dai Falck indipendente.

Peccato che Unicredit sia stata per anni lo specialista di Actelios e che la famiglia investa costantemente in titoli Unicredit.”

Fabio Pavesi, PLUS 24 Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2010

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Borsa Crisi finanziaria Mariella Burani

Tu vuo’ fa’ l’americano.

Quando di pensa che non ci sia più nulla da dire, in realtà si scopre che mancavano delle tessere a completamento del puzzle.

Fabio Pavesi, in un articolo comparso sul Sole 24 Ore on line, illustra con dovizia di particolari le pratiche molto made in USA -di ciò che non vorremmo imparare dagli States– della famiglia di Cavriago. Sapevamo di pratiche analoghe in blasonate banche d’affari: riesce difficile immaginarlo in provincia di Reggio Emilia, se non ripensando che il moral hazard ha un nome molto british, ma una declinazione globale.