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Crisi finanziaria Disoccupazione Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI USA

Il faut toujours épater le bourgeois (*).

Il faut toujours épater le bourgeois (*).

In un articolo comparso su Italia Oggi si menziona, sin dal titolo, che serve, appunto, a stupire a buon mercato, uno degli effetti più devastanti non già del Covid-19, quanto piuttosto della legislazione emergenziale che ne è seguita, soprattutto il famoso Decreto Liquidità. Ovvero, l’improcedibilità dei fallimenti, il divieto di licenziare, l’estensione sino agli estremi confini della terra della Cassa Integrazione, la dichiarata impossibilità di mettere a sofferenza posizioni della clientela da parte delle banche e così via.

Il fallimento, anzi, la liquidazione giudiziale, come lo definisce il codice delle crisi d’impresa, la cui entrata in vigore è stata posticipata a settembre 2021, non è solo una punizione per i reprobi, un castigo divino, una distruzione morale e materiale: senza voler imitare gli USA, la nostra legislazione, che pure dal 2005 mira a recuperare, salvare, proteggere anche i valori dell’azienda, deve fare il lavoro sporco di “ripulire” il mercato dai cadaveri, evitando, insieme con le banche, che si decompongano e “infettino l’aria” e coloro che ancora sono sani. Che i fallimenti si siano dimezzati non è affatto un buon segnale, né per le casse dello Stato -che nel frattempo ha pagato stipendi a gente che non lavorava in imprese sostanzialmente fallite- né per quelle delle banche e, che piaccia o no, neppure per le imprese: perché qualcuno che non avrebbe dovuto ha continuato a vivacchiare, ai margini del mercato, impedendo al mercato di funzionare, probabilmente senza neppure pagare i fornitori.

Purtroppo, dall’articolo di Italia Oggi, emerge una sola certezza, al di là del titolo davvero deplorevolmente ingannevole (si fa informazione anche con i titoli), ovvero che il dopo sarà peggio, i fallimenti più dolorosi, le crisi d’impresa più devastanti, il credito deteriorato maggiore di prima, perché, oltretutto, qualcuno che non avrebbe dovuto avrà comunque ottenuto qualche prestito garantito FCG. Nel frattempo, i bilanci al 31.12.2019 sono sempre “provvisori”, i business plan sono fantasie di consulenti e, come ho potuto ascoltare in un webinar settimana scorsa, le banche sono un fornitore come un altro, e quindi bisogna scegliere quella che fa pagare di meno, “mettendole in concorrenza (sic)“. Tante care cose.

(*) Dall’enciclopedia Treccani: locuz. fr. (propr. «sbalordire il borghese»). – Meravigliare a buon mercato la gente, con parole e affermazioni paradossali, con atteggiamenti anticonformistici o spregiudicati, per il gusto di stupire e scandalizzare.

 

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Crisi finanziaria fiducia Germania Mario Draghi

Il fallimento è l’alternativa.

Il fallimento è l’alternativa.

(..) Il ventinovismo con il quale è stata letta la crisi del 2008-2010 è una vera e propria mistificazione. Lo ha confermato ieri il discorso di Mario Draghi a Berlino. Il mondo ha recuperato i livelli precedenti. La recessione è durata due anni, non dieci come dopo il 1929. Si dice che l’intervento pubblico, utilizzando ancora una volta la keynesiana cassetta degli attrezzi, abbia evitato un collasso generale; in realtà, ha rinviato l’appuntamento con il destino economico di industrie, banche e governi. Adesso è in corso una dura selezione e chi non è in grado di affrontare il momento della verità, resta tagliato fuori per sempre. La concorrenza quando funziona rimette in equilibrio le forze in campo, e affinché funzioni deve lasciare aperte entrambe le porte: quella d’ingresso e quella d’uscita, cioè consentire a nuovi soggetti di partecipare al gioco senza intralci all’entrata, però chi ha perso deve abbandonare il campo. Joseph A. Schumpeter, umanista austriaco prima che economista, trasforma questo principio base nella “distruzione creatrice”, ispirata dallo “slancio vitale” di Henri Bergson.

Dunque al fallimento non c’è alternativa? Al contrario, il fallimento è l’alternativa a una lunga fase di stagnazione dell’Europa e dell’occidente. Per il mondo anglo-sassone, fallire non è morire, ma la condizione per rinascere. Non una condanna capitale, né la radiazione dal consesso umano. E’ la presa d’atto di una realtà e il civile, profondamente etico, pagamento dei propri errori, senza giustizialismo economico, ma ponendo al centro la responsabilità delle proprie azioni.

Stefano Cingolani, Il Foglio

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Banche Crisi finanziaria Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Se il problema non è solo di norme.

Molti hanno salutato positivamente l’approvazione della legge 122/2010 che consente, a coloro che intendono accordare fiducia all’imprenditore, di evitare i problemi derivanti dal fallimento, grazie alla dichiarazione di pre-deducibilità degli importi erogati e ad una sorta di sospensione dei provvedimenti cautelari. La stessa legge, accogliendo richieste di parte imprenditoriale, ha sancito la previsione dell’esenzione dalla bancarotta per le operazioni poste in essere in esecuzione del concordato o di un accordo e/o piano attestato. L’istituto del concordato preventivo e della ristrutturazione del debito viene così ad essere rafforzato dalla previsione legislativa dell’art.48 della legge 122, che tuttavia continua ad avere il suo punto debole nella dichiarazione del professionista incaricato di attestare che vi è la possibilità di soddisfare i creditori con i quali non vi siano trattative o che si siano dichiarati dissenzienti.

La riforma della legge fallimentare ed i provvedimenti successivi non hanno, infatti, modificato il punto relativo alla responsabilità del professionista, che rimane in verità assai pesante, sia per la questione relativa all’ammontare e la natura dei crediti “autodichiarati” dall’imprenditore, sia soprattutto per la sua effettiva capacità di dichiarare fattibili progetti di pagamento basati, in finale, su ipotesi di fonte aziendale. Il problema non è appena di norme, il professionista, ad evidenza, deve essere responsabile di quanto attesta, sia pure sulla base di quanto dichiarato. Il problema, come dimostrano le storie della crisi, è culturale e, perciò, tecnico. E’ culturale, perché spesso l’unica preoccupazione del professionista è quella del conseguimento a tutti i costi del risultato, anche se ciò si riduce, talvolta, ad un puro e semplice prolungamento dell’agonia. Ed è tecnico, perché i piani che vengono presentati -mi è capitato di vederne più d’uno, su incarico bancario- sono spesso inspiegabili quanto a volumi di vendite e dimensione del risultato operativo, assolutamente artigianali, quando non sbagliati, nella determinazione del fabbisogno finanziario prospettico, sempre ed immediatamente decrescente ed in miglioramento, spesso “errato” nella sua quantificazione e qualificazione. Non c’è norma che possa modificare il costume delle relazioni di clientela italiane, si può solo lavorare e sperare che la crisi spinga i protagonisti del rapporto a relazioni più virtuose ed intense, basate sulla partnership, fin da quando le cose vanno bene. Ma l’attuale dibattito non pare proprio andare in questa direzione.

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Banche Borsa Consob Imprese Indebitamento delle imprese Unicredit

Un Ventaglio di debiti.

Bruno Colombo, patron dei Viaggi del Ventaglio

Simone Filippetti e Fabio Pavesi, sul Sole 24 Ore di oggi, ripercorrono la storia dei Viaggi del Ventaglio, fallita il 15 luglio scorso. L’articolo è prodigo di cifre e di dati ma, soprattutto, mette nero su bianco due tristi verità: chi ha margini modesti (il Mol inferiore al 3%, per esempio) non può giocare con la finanza, ovvero non può avere debiti pari a 13 volte lo stesso Mol e a 10 volte i mezzi propri; la quotazione in Borsa come strumento per la raccolta di capitali freschi per liberare risorse per lo sviluppo, come troppo spesso decantato in tanti manuali, è una balla colossale.

Sarebbe il caso di ricordare che nel caso in questione sia la Consob, impugnando i bilanci ed inserendo la società nella black list, sia i revisori, la Deloitte, hanno fatto il loro dovere. Le banche, sicuramente, no. Perlomeno quelle che non soltanto hanno continuato a finanziare la società ma le hanno venduto derivati per 170 milioni (con perdite per 27 milioni nel solo 2003), o prestato denari per pagare altri debiti.

Senza andare troppo indietro nel tempo, al 31 ottobre 2007, con accordi di ristrutturazione del debito già effettuati, la lettura del bilancio (sul sito di Borsa Italiana sono reperibili i bilanci degli esercizi antecedenti la messa in liquidazione ed il fallimento) mostrava alcune notizie interessanti: il risultato operativo, o EBIT, era pari allo 0,31% delle vendite, i debiti finanziari lordi (perché sarebbe ora di piantarla di pensare alla posizione finanziaria netta per imprese in crisi, la liquidità, come insegnano i casi Parmalat e Burani è solo contabile) pari ad oltre 39,7 milioni di euro, pari ad un multiplo di oltre 16 volte l’Ebit stesso. Gli oneri finanziari, pari a 6,6 milioni di euro, superavano di quasi tre volte il reddito della gestione tipica: si chiamerebbe incapacità di reddito.

Comunque, a parte Intesa, dallo stesso bilancio si evince la presenza maggioritaria fra i finanziatori dell’immancabile Unicredit, banche che ad evidenza hanno acceduto all’accordo di ristrutturazione. Difficile non chiedersi in base a quale criterio lo abbiano fatto.

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Banche Mariella Burani

Hanno staccato la spina (era ora).

Ore 14. Il Tribunale di Reggio ha dichiarato lo stato di insolvenza di Mariella Burani Fashion Group dando formalmente il via libera alla procedura che, tra un mese, potrebbe portare all’amministrazione straordinaria del gruppo di moda secondo le norme del decreto legislativo 270 del 1999, il cosiddetto “Prodi-bis”; allo stesso tempo i giudici hanno imposto agli amministratori Mbfg la consegna dei libri contabili entro due giorni.

Nello specifico il commissario nominato dal foro reggiano è il commercialista campano Francesco Ruscigno, già indicato nella terna del Ministero dello Sviluppo economico, che avrà ora il compito di stilare entro 30 giorni una relazione (da sottoporre all’attenzione del Tribunale e del Ministero) per verificare l’eventuale esistenza di prospettive di riequilibrio delle attività aziendali. Solo in quest’ultimo caso, come prevede la legge, Mariella Burani potrà essere ammessa all’amministrazione straordinaria dallo stesso Tribunale di Reggio.

L’avvocato della casa di moda, Alessandra Giovetti, ha commentato sostenendo che “ci sono due strade possibili: la cessione di asset oppure la ristrutturazione tramite un concordato giudiziario”. Il prossimo 26 ottobre, inoltre, sarà avviata la verifica delle valutazioni riguardanti le domande dei creditori del gruppo: la seconda e la terza udienza, invece, si terranno rispettivamente il 2 e il 9 novembre.

Soddisfatte Cgil e Filctem Cgil di Reggio, che hanno già annunciato di voler chiedere a breve un incontro preliminare con Ruscigno per fare il punto sulla situazione ma che puntano il dito contro i lunghi tempi del procedimento. “Tale decisione, purtroppo, giunge dopo troppi mesi di incertezza per l’impresa e dopo troppi tentativi, veri o presunti, falliti da parte della proprietà. Ora occorre che il commissario giudiziale nominato riesca ad inquadrare al più presto le ragioni del dissesto finanziario, affinché si delinei tempestivamente un vero piano industriale teso al risanamento globale del gruppo e soprattutto alla salvaguardia dei posti di lavoro a partire da quelli di Cavriago. Come sindacato siamo convinti esistere ancora forti potenzialità di rilancio industriale di tutto il gruppo Mbfg, valorizzando appieno marchi, prodotti e capacità ed esperienza professionale di lavoratrici e lavoratori”.

da http://www.reggio24ore.com

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Banche Felicità fiducia Imprese Lavoro

Una fragilità esistenziale (il lunedì arriva sempre la domenica pomeriggio).

Mario Sironi

Lo scrittore Massimo Lolli, che alla vergogna sociale di un manager vicentino rimasto disoccupato ha dedicato un bellissimo racconto, “Il lunedì arriva sempre la domenica pomeriggio” (Mondadori), ha intravisto in questa geografia dell’infelicità nordestina che sta emergendo con prepotenza – nonostante il silenzio che circonda i drammi privati il tentativo di liquidarle come faccende private – l’altro lato, molto fosco, dei trofei veneti: “L’iperindividualismo, che non permette a chi si trova in difficoltà di chiedere aiuto, se non alle banche, va osservato all’interno di un contesto comunitario, fondato su una rigida gerarchia sociale. Che impedisce a chi si trova nei guai, di poter affrontare il fallimento del proprio progetto imprenditoriale”, dice Lolli al Foglio. “Il disagio non è provocato dalla passione per il lavoro, quella è diffusa anche nel nordovest, ma dall’impossibilità di non mantenere un tenore di vita da ostentare davanti alla propria comunità”, osserva lui, che è un manager scrittore napoletano, immigrato a Vicenza. “E non va sottovalutata l’ossessione per il successo, perché in Veneto nessuno si accontenta di emergere: qui tutti vogliono essere sempre Marchionne. La loro competitività ha creato una sequenza di straordinarie eccellenze, ma ha anche costruito una vulnerabilità sociale, una fragilità esistenziale provocata da una semplice certezza: l’idea del fallimento non viene presa in considerazione, semplicemente non può né deve realizzarsi”.

Cristina Giudici, Il Foglio, 9 febbraio 2010