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Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).

Andrea Orcel, Ceo Unicredit Group spa.

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).
Il CEO di Unicredit, Orcel, ha presentato ieri, 9 dicembre, il piano industriale della banca da lui guidata, dove secondo Alessandro Graziani, de IlSole24Ore, “archivia l’era del derisking, e torna a puntare sulla crescita delle attività, anche in Italia”.
Naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, si parla anche di redditività sostenibile, di mantenimento di solidi ratios patrimoniali, di rischio ragionato. Per il resto, molto in sintesi, il piano parla di un aumento dei ricavi da commissioni (difficile non chiedersi fino a quando la clientela sarà disposta ad accettare aumenti indiscriminati senza cominciare a guardarsi in giro e chiedere a qualche banca on line o simili tariffari più concorrenziali) ma anche di un aumento del volume dei crediti che, tuttavia, privilegerà il consumer finance al fine di non fare crescere l’RWA.
Insomma, “Pedro, adelante con juicio”, come fa dire il Manzoni al cocchiere spagnolo del Cancelliere.
Il piano è stato festeggiato dalla Borsa, anche perché annuncia un aumento di oltre il 30% della remunerazione da assegnare agli azionisti, tra buy-back e dividendi, anche se, a detta del cronista, il vero punto forte sarebbe la digitalizzazione, con la creazione di due fabbriche prodotto centralizzate (Corporate e Individual solutions) e la realizzazione di ampie economie di scala.
Unicredit resta fedele alla sua vocazione, quella di grande banca di transazione: non è mai stata una banca di relazione, con il piano industriale presentato ieri, coerentemente con quanto realizzato dai predecessori, punta alla creazione di valore, tentando di volta in volta di cavalcare l’onda migliore (allora, con Profumo, fu la crescita in Europa per linee esterne, con Jean Pierre Mustier quella di vendere i gioielli di famiglia e fare cassa etc…).
La lettura del piano industriale e il senso nemmeno troppo sottile che lo pervade, tuttavia, non possono lasciare indifferenti perché, come spesso ci è capitato di ripetere, nel rapporto banca-impresa occorre scegliere e farsi scegliere, perché ogni impresa è diversa dalle altre e perché le banche non sono fornitrici indifferenziate di denaro, come una facile pubblicistica e certo ceto professionale e imprenditoriale vorrebbero fare credere.
Peraltro, l’annuncio di un simile piano non può lasciare indifferenti i principali competitors di Unicredit, che pure, a parte Intesa, hanno i loro problemi organizzativi e dimensionali da risolvere; in altre parole, il piano industriale di Unicredit preannuncia una battaglia concorrenziale giocata sul digitale, la riorganizzazione dei processi, il puntare a prodotti standardizzati e facilmente collocabili sul mercato. Nulla che possa far piacere a Pmi e micro-imprese, alle quali, in questo momento, dice davvero tutto male, con l’eccezione, forse, dei fondi del PNRR, per chi saprà andarseli a prendere con piani finanziari seri e credibili.
Ma, come abbiamo potuto constatare nel corso di una lunga e approfondita tavola rotonda di presentazione del C.E.R.R.I. (Collegio degli Esperti per la Ripresa e il Rilancio delle Imprese) avvenuta ieri e alla quale ho avuto l’onore di partecipare, c’è ancora molta strada da fare, soprattutto da parte delle imprese -e, per conto mio, anche di molte banche che ancora discutono se sia accettabile un DSCR inferiore (sic) a 1- sulla strada di una vera relazione di clientela improntata alla partnership e perciò fondata sulla comunicazione finanziaria.
C’è da lavorare, occorre scegliere e farsi scegliere e con motivazioni approfondite.
Ovvero: è meglio una vera banca di transazione che una finta banca di relazione.

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Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Unicredit e la “cura” Mustier: se l’unico piano è tagliare i costi operativi.

Ricevo dall’ottimo Fabio Pavesi, un grande giornalista oltre che un amico, con il quale abbiamo condiviso l’interesse per il caso Mariella Burani Fashion Group, l’articolo apparso sul Fatto Economico nella giornata di ieri, 24 luglio. Pavesi parla di “cura” Mustier per Unicredit, rammentando i due ultimi esercizi in utile che hanno ristorato azionisti “stremati” (ma che quando le cose andavano bene passavano alla cassa senza battere ciglio), come una cura, cioè un piano industriale, basato solo sulla riduzione del personale. D’altra parte se l’unica politica che hai attuato in tutti questi anni è stata vendere i gioielli di famiglia, da Pekao Bank a Pioneer fino all’ultima, Fineco Bank, e facendo cassa hai rafforzato patrimonialmente la banca, se latitano i ricavi devi ridurre i costi. e gli unici costi, in una banca che ha già chiuso centinaia di filiali (per i non riminesi: venite farvi un giro in centro a vedere la ex sede centrale di Unicredit a Rimini, desolatamente vuota da almeno due anni, immobile sfitto e amenità simili…) sono rappresentati dal personale.

Il ragionamento, sotto il profilo gestionale, non fa una grinza, salvo essere il mantra che spesso il banchiere medesimo ripete all’imprenditore, ovvero che si devono tagliare i costi ma che non basta tagliare i costi, occorre avere riguardo ai ricavi e alla redditività. Proprio perché non fa una grinza, si inceppa al momento di immaginare un percorso di sviluppo e di ripresa della redditività: Pavesi, nel caso specifico, ipotizza una soluzione finanziaria, con Unicredit al centro di una maxi fusione europea con Commerzbank etc…, poiché Mustier viene dalla finanza e questo è un imprinting indelebile. Ma mentre Unicredit pensa a licenziare, intorno cresce il fintech, e non solo per Unicredit. Ovvero, dum Rome consulitur Saguntum expugnatur: le banche stanno perdendo il lavoro più redditizio (anche se adesso molto meno) e facile che abbiano mai fatto, l’anticipo fatture e la gestione del cosiddetto autoliquidante. E dopo aver deciso di vendere i mutui di qualcun altro e le assicurazioni fabbricate altrove, continuano a latitare nelle proposte per le imprese, soprattutto PMI. Per questo continuo a pensare che, sebbene forzata da una riforma voluta dal legislatore, la scelta delle Bcc/CRA riunite sotto l’egida di ICCREA e di Cassa Centrale Banca dall’altra possa diventare vincente: perché l’economia ha certamente bisogno della finanza, ma non di qualunque finanza.

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Fintech e altre storie.

Fintech e altre storie.

Oggi ho partecipato a un bellissimo convegno sul Fintech organizzato da Milano Finanza e Bebeez intitolato “Il processo del credito tra vincoli regolamentari ed esigenze commerciali”.

Se posso fare solo un piccolo appunto agli organizzatori (o forse ai relatori?) se certamente si è parlato di Fintech, ben poco o nulla si è parlato di vincoli regolamentari, quelli a cui restano assoggettate le banche; così come è stato liquidato fin troppo velocemente il tema del rating, trattato alla stregua di un capriccio bancario, quando dovrebbe (?) essere noto che è, appunto, un vincolo regolamentare che determina l’assorbimento del patrimonio di vigilanza.

Il fenomeno del Fintech, ovvero la digitalizzazione di operazioni che precedentemente le banche svolgevano esclusivamente al loro interno e che, al contrario, proprio attraverso la digitalizzazione sono loro sottratte, non è appena una questione di disintermediazione, fenomeno di cui parlavamo nell’accademia almeno 30 anni fa. E’ una questione, come giustamente sottolineato oggi dai relatori, di rapporti con la clientela, di relazioni, di necessità di avere non appena copertura per un fabbisogno, ma anche consulenza, spiegazioni, aiuto. Bene lo ha spiegato l’ottimo Fabio Bolognini @linkerbiz facendo presente che il Fintech non è una questione di semplici automatismi che rendono le operazioni più veloci e la copertura del fabbisogno (soprattutto di capitale circolante), maggiormente garantita: i bilanci vanno guardati, quelli in forma abbreviata precludono la procedibilità della pratica (sic), il cliente va compreso, capito, va letta la sua formula competitiva. C’era solo un imprenditore (perlomeno, a parlare) e si è lamentato della burocrazia e dei rating, perché dei tassi non può lamentarsi in questa fase: ma ha dimostrato che ancora sono le imprese, purtroppo soprattutto le PMI, a dover imparare a comunicare, a condividere, a raccontarsi. Il Fintech può aiutarle, ma non servirà a nulla se il problema continua a essere quello della “liquidità” “più in fretta che si può” “al minor costo possibile”: la questione vera era e rimane la capacità di stare sul mercato, la questione vera, soprattutto per la stragrande maggioranza di piccole e micro-imprese, è nel conto economico, non nello stato patrimoniale. Lavoriamoci, è un’occasione e non una minaccia.

 

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Fintech, ovvero come risolvere i problemi di chi non ne ha.

Fintech, ovvero come risolvere i problemi di chi non ne ha.

Un articolo su Repubblica.it di giovedì scorso analizza il fenomeno dell’anticipo fatture digitale, ovvero di quel canale (alternativo o complementare?) al finanziamento bancario del credito commerciale che sta prendendo piede nel nostro Paese. Il meccanismo, ormai noto, è quello dell’asta di crediti commerciali che imprese private, aderenti a piattaforme digitali, effettuano per poter ricevere fino al 90% del credito anticipato in un massimo di 4 o 5 giorni. Tutto bene? Parliamone. L’ottimo Fabio Bolognini, qualche settimana fa, in un articolo dedicato al credit crunch, concludeva per due sole alternative al credito bancario, ormai in ritirata dalle Pmi: o il capitale di rischio o, appunto, i canali alternativi.

Chi scrive sostiene da tempo che le nostre Pmi siano sottocapitalizzate e l’evidenza empirica le mostra indebolite rispetto alle concorrenti europee, talvolta caratterizzate da un debt/equity ratio dimezzato rispetto a quello italico. Ma non c’è forma alternativa di finanziamento, nemmeno la migliore di tutti, ovvero l’equity, che possa rendere buona un’impresa che distrugge valore, che possa farne cambiare la prospettiva di valutazione, come Modigliani e Miller hanno insegnato. La questione è sempre quella del fabbisogno finanziario, del perché si necessita di denari e a cosa servono e serviranno, in un mondo dove, cone buona pace di tutti, le banche prestano il denaro solo a chi può restituirlo, anche a costo di guadagnare poco o nulla, perché adesso il mondo va così. Amen.

In altre parole, il vero problema non sono quel 20% di imprese 4.0 di cui parlava Bonomi qualche giorno fa a Radio 24 e, forse, nemmeno il 20% di quelle che ormai sono decotte (ma se sono decotte perché continuiamo a parlarne? Perché non spegniamo i fornelli?) bensì quel 60% che sono “tra color che son sospesi“. Le imprese che appartengono al gruppo 4.0 si finanzieranno come vogliono o forse non si finanzieranno affatto esternamente, perchè sarà sufficiente il capitale creato mediante gli utili; potranno utilizzare gli strumenti Fintech ma la loro vita non cambierà per questo. Cambierà invece per le banche, che in questo momento finanziano solo ottimi prenditori, preferibilmente di dimensioni medio-grandi, perché, nonostante tutto, non hanno ancora imparato a valutare il fabbisogno finanziario delle Pmi: e i processi di apprendimento, sono anzitutto una questione culturale, cioè di scelte di fondo, di mentalità, di valori, anche di impresa. In quel 60% ci sono tante Pmi che, per varie ragioni, sono rimaste indietro: che hanno smesso di investire per non smettere di pagare di debiti, che magari hanno sovrainvestito nell’immobiliare e si sono sovraindebitate, che non riescono a mettere in atto nessuna strategia valida per uscire dal guado per mancanza di lucidità, di risorse manageriali, di competenze. A queste imprese la finanza digitale non serve: serve qualcuno che stia loro accanto (professionisti, associazioni, banche) e che abbia voglia di ripartire dagli strumenti più elementari -ma credetemi, più ignorati- per ricominciare a parlare seriamente di gestione, non solo finanziaria.

P.S.: da quando è iniziata la Grande Crisi 10 anni fa, gli unici strumenti (moratoria 1 e 2, consolidamenti delle esposizioni, forbearance, varie ed eventuali) che tutti hanno richiesto, usato, pensato, sono stati di tipo finanziario. Ma qualcuno MM gliel’ha mai spiegato?