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Guardie e ladri.

Guardie e ladri.

C’è un rincorrersi quasi malinconico nelle notizie di queste giorni, memori della Grande Crisi 2008-2018 (molto più lunga e devastante, a mio avviso, di quella del ’29), come se si scoprisse all’improvviso che le banche (i ladri) rischiano e quando lo fanno, coefficienti patrimoniali o no, lo fanno perlopiù con i soldi degli altri, ovvero dei risparmiatori, con le autorità di vigilanza (le guardie) che spesso intervengono a misfatto ormai compiuto.
Dalla constatazione che le banche lavorano con i soldi degli altri nasce l’atteggiamento un po’ “feroce”, almeno all’apparenza, del regolatore americano, che gli istituti di credito li lascia fallire, e non per distrazione, anche se si tratta della 16ma banca degli USA (SVB), quasi che ciò servisse naturaliter a educare i risparmiatori a scegliere la propria banca in base alla comunicazione trasparente che la banca fa (?) e alla percezione che di essa ha il cliente del grado di rischio medio ponderato contenuto nelle attività delle banche.
In poche parole, se ti scegli una banca, prima dovresti averne letto i bilanci e compreso il grado di rischio, compreso il CET 1 ratio o il Texas Ratio.
Velleitario o ingenuo che sia, questo è l’atteggiamento a stelle e strisce, che funzionerebbe meglio, forse, se fossero praticate maggiormente la trasparenza e la cooperazione: nel caso americano, ma non solo, questo vuol dire applicare effettivamente le regole degli accordi di Basilea, che anche gli USA hanno sottoscritto (la trasparenza e la comunicazione sul grado di rischio) ovvero erigere il pilastro da sempre -perlomeno da Basilea 2- mancante nella costruzione degli assetti volti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari.
Trasparenza sul grado di rischio che tuttora manca anche nel Belpaese (in Italia la comunicano nella pubblicità solo Mediolanum e Mediobanca, a mia notizia, e pochi altri: e la comunicano perché hanno requisiti di capitale assai elevati) così come manca la cooperazione. Se Miss Universo dichiara di essere una bella donna, oltre che volere la pace nel mondo, nessuno le dirà nulla, semplicemente perché è vero. Se la figlia del rag.Fantozzi facesse altrettanto, la smentita sarebbe altrettanto unanime e, probabilmente, più fragorosa.
Ricordo come, nel corso di un viaggio di studi presso la British Banks Association, il funzionario che mi ricevette mi donò, con giusto orgoglio, il report contenente una classifica che la stessa associazione promuoveva, basata sul livello della qualità dei servizi offerti dalla banca così come percepito da un cliente tradizionalmente debole sotto il profilo finanziario, le PMI.
Trasparenza e cooperazione -le banche, in competizione tra loro, rendevano tuttavia possibile la compilazione della classifica, aspirando a primeggiare in essa
-, in un sistema bancario dove già all’epoca (1998) si facevano i mutui on line: questa vicenda, che purtroppo non ho più seguito, insegna che non può trattarsi di una semplice questione di regole, ma di una attitudine e di una cultura che non si creano per legge o per normativa regolamentare.
Direi piuttosto che il tema è di cultura ed educazione finanziaria, quella che dobbiamo trasmettere quando spieghiamo in università ma anche quella che si respira nel sentire comune, quella che viene fuori dalla cosiddetta economia civile, dall’impresa, dal lavoro.
La fatica che ho notato presso le banche nell’accettare la normativa degli EBA-LOM, la sua scarsa o nulla conoscenza presso le imprese e spesso presso gli stessi lavoratori bancari, riflettendo che nel documento si invoca “la diffusione di una forte cultura del rischio di credito”, mostrano che le regole non funzionano se non sono fatte proprie all’interno di una visione e di una concezione del fare banca (e del fare impresa) che chiariscano in modo trasparente la missione e lo scopo dell’agire dell’impresa stessa, bancaria e non, e che lo sottopongono al mercato.
Non si tratta solo di sottolineare l’importanza della comunicazione non finanziaria nei bilanci di imprese, le PMI italiane, che faticano a spiegare il minimo sindacale, ma di qualcosa di maggior spessore, che va al di là degli adempimenti formali. La trasparenza e la cooperazione sono un lavoro quotidiano, che non si insegna: si impara praticandole.
Abbiamo di che lavorare, nelle università, nelle banche, nelle imprese.

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Alessandro Berti Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

La riforma (?) del codice delle crisi di impresa.

La riforma (?) del codice delle crisi di impresa.

Il decreto legge 118 pubblicato sulla G.U. del 24 agosto scorso individua un nuovo “percorso di aiuto delle imprese in difficoltà”, come recita l’articolo del Sole 24 Ore di Lucia Mazzei, introducendo la figura di un soggetto terzo e indipendente al quale sono affidati compiti assai importanti, dalla valutazione della effettiva situazione aziendale -e di conseguenza delle sue effettive possibilità di rilancio- fino all’individuazione delle ipotesi di fuoriuscita dalla crisi e all’assistenza all’imprenditore. Come sottolinea l’articolo il percorso è “del tutto volontario ed extragiudiziale” e sarà operativo a partire dal 15 novembre p.v.: slitta addirittura al 31.12.2023 il sistema di allerta automatico ed obbligatorio previsto dalla stesura originaria del Codice delle Crisi d’impresa, ovvero quella che venne poi a deragliare con i provvedimenti emergenziali emanati a seguito della pandemìa (dal Decreto “Liquidità” in poi). Non a caso l’Ordine nazionale dei dottori commercialisti invoca, al riguardo, l’avvio di un processo di riforma definitiva del Codice stesso.

Se è evidente l’intento del provvedimento, ovvero evitare l’aggravarsi delle crisi aziendali a seguito del lockdown, meno evidente appare la sua organicità rispetto alla situazione normativa nella quale operano le banche, caratterizzata dall’entrata in vigore degli Orientamenti EBA dal 30.6.2021. Gli istituti di credito, come è agevole ricordare, sono sovente i principali creditori dell’impresa in difficoltà, insieme all’Erario e agli Enti previdenziali e il realismo imporrebbe che si tenesse conto delle loro esigenze, non appena gestionali ma, soprattutto in questo momento, di natura normativa.

Che le banche siano imprese lo dice a chiare lettere la riforma operata con il T.U.B. del 1993, ma che le banche siano imprese speciali, destinatarie perciò stesso di una legislazione ad hoc e di un sistema di vigilanza dedicato non deve essere mai dimenticato: non a caso il Position Paper n.30 (agosto 2021), “Rischio di credito 2.0” dell’AIFIRM (Associazione Italiana Financial Industry Risk Managers) parla esplicitamente di un quadro normativo che nel tempo è andato allargandosi, a partire da Basilea 2, fino ad arrivare alla trattazione di aspetti fino a quel momento dati per scontati o, più semplicemente, demandati alla prassi.

È proprio il documento in parola, i cui Autori sono stati coordinati dall’autorevole Collega prof.Giacomo De Laurentis, che sottolinea il rischio che, fra le conseguenze degli Orientamenti, vi sia un credit crunch, un razionamento del credito certamente, almeno all’apparenza, improvvido, in questo momento storico: il che, d’altra parte, sarebbe coerente con gli intenti dichiarati degli Orientamenti EBA, ovvero quelli di prevenire pro-attivamente il deteriorarsi del credito fin dall’origine. Teoricamente i due provvedimenti convergono sul tema dell’evitare la deflagrazione della crisi d’impresa e delle sue conseguenze, ma sarebbe troppo ingenuo immaginare un immediato automatismo, senza riflettere su alcuni aspetti.

Il Decreto Legge 118, infatti,  pone almeno due ordini di problemi:

  1. la reale professionalità e le reali competenze di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro in materia bancaria, rispetto alle quali è lecito nutrire qualche dubbio, alla luce delle ben note lacune in materia di normativa bancaria e di una visione spesso ancorata ad un passato (il valore delle garanzie in primis): sotto questo profilo non resta che augurarsi che i corsi di formazione di cui parla il DL e i cui contenuti dovranno essere definiti dal Ministero della Giustizia entro il 24 settembre, siano imperniati sui temi della valutazione dell’equilibrio economico e finanziario storici e prospettici, sulla programmazione finanziaria, sulla corretta determinazione dei fabbisogni finanziari d’impresa;
  2. la reale volontà e consapevolezza degli imprenditori (e dei consulenti che li assistono), di assoggettarsi a un processo che, su basa volontaria, inevitabilmente metterà in luce le criticità della gestione, magari fino a quel punto sottaciute o ignorate: in altre parole, il tema che si pone è senza dubbio quella della tempestività, problematica che da sempre affligge le imprese in crisi, la cui auto-coscienza si rifiuta, sovente, di guardare in faccia alla realtà.

L’indipendenza del professionista coinvolto nella composizione negoziata della crisi  e la sua terzietà da sole non bastano, del resto se, sia pure volontariamente, si pone mano al tema della crisi d’impresa quando ormai è troppo tardi o quando il processo di degrado delle condizioni di gestione è pressoché irreversibile. Il tema, in altre parole, è squisitamente di natura culturale e riguarda non solo i professionisti, la cui cultura d’impresa si è comunque fortemente accresciuta negli anni, ma soprattutto gli imprenditori, ancora prigionieri di una mentalità che considera il fallimento come una condanna, anziché come una possibilità, e la crisi come un problema che è meglio rimandare il più avanti possibile, come quasi sempre si è fatto nel passato, inseguendo spesso soluzioni finanziarie anziché economiche, di rinvio delle scadenze anziché di ripensamento del business model.

Solo così, a ben riflettere, sarà possibile che l’ennesima riforma delle crisi d’impresa non si traduca in un provvedimento utile tutt’al più a soggetti interessati esclusivamente ad incarichi professionali, ma agevoli il cambiamento della mentalità delle imprese e di coloro che le assistono.

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Alessandro Berti Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Liquidità PMI

Cosa sono gli indicatori (le metriche) EBA: per non fare confusione tra metodo e merito.

Resistere al cambiamento è la cosa più naturale e, forse, anche la più facile da fare, quando quello che accade intorno a te ti ha fiaccato il corpo e lo spirito. Il Codice delle Crisi d’Impresa, semmai vedrà la luce a settembre, lo farà dopo un anno e mezzo dalla sua originariamente prevista entrata in vigore, si ritenne che sarebbe stato “troppo”, a pandemia appena iniziata. Le c.d. “metriche” fissate dall’EBA, viceversa, sono, per così dire, passate in cavalleria, non appena nel fluire di provvedimenti regolamentari e nella loro gestazione, ma nel dibattito, nelle pressioni lobbistiche, negli stessi convegni. Certamente è più interessante parlare di transizione ecologica e di sostenibilità non dei debiti ma del nostro sistema economico e sociale, ma quali imprese ci saranno a realizzare tutto questo e con quali denari lo faranno? Il tema posto dagli Orientamenti EBA o Guidelines, la cui entrata in vigore è fissata per il 30 giugno di quest’anno, non riguarda soltanto soglie numeriche, rispettate le quali tutto andrà bene per le imprese che vi rientreranno. In modo molto più ampio e con la richiesta di una visione strategica, sia per l’impresa, sia per la banca, le Guidelines mettono in discussione sia i contenuti delle informazioni sull’impresa da affidare, sia il modo con cui le stesse dovranno essere trattate, rivoluzionando, di fatto le relazioni di clientela. Dovremo abituarci a sentirci chiedere molto prima del solito documenti che prima si limitavano al bilancio d’esercizio e che, viceversa, troveranno nel bilancio la pura e semplice “partenza” di un business plan; allo stesso modo, in banca qualcuno dovrà piantarla di dire, a voce alta o bassa che sia, che “però le altre banche non lo chiedono o amenità similari”. Dal grado di copertura degli interessi (interest coverage ratio) fino all’Ebitda e al suo moltiplicatore con la PFN, dal DSCR al patrimonio netto negativo (come accade in tante piccole aziende) occorrerà interrogarsi su come, perché e per chi fare impresa, con quale capitale, per ottenere quali risultati. Una sfida che non si può non raccogliere.

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Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio…

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio…

No, non penso che mi piacerebbe l’odore del napalm al mattino e non gioco a golf, memore peraltro dell’ammonimento di G.B.Shaw. Ma la citazione vera, quella che mi viene in mente mentre il lavoro sta diventando sempre di più ascoltare qualcuno che ti chiede di rappresentare come situazioni “sostenibili” quelle che già non lo erano, anche prima del 2019, la citazione è quella del filo del rasoio e della lumaca.

Perché non c’è un’impresa che non abbia richiesto il prestito Covid cash da 25 o 30mila euro che non si ritrovi, adesso, a chiederne molti, molti di più: dovendo presentare business plan che non ha (che non ha mai fatto, che non sa fare, che non vuole fare, perché costano…) a banche che nel frattempo non possono smettere di fare il loro lavoro. Non perché lo dice l’European Banking Authority, l’EBA, e lo dice, lo ha detto anche di recente, delineando il processo di valutazione e monitoraggio del rischio di credito a far data dal 30 giugno prossimo: la vera questione è che tu non puoi smettere di pensare alle inadempienze probabili perché il fabbisogno finanziario delle imprese è sempre lì. Dapprima da sole perdite Covid (magari con altre perdite dormienti nel magazzino, as usual), poi per altre perdite, perché ho riaperto ma non raggiungo il punto di pareggio. Perdo di nuovo, come versare l’acqua nella sabbia. Il fabbisogno finanziario aumenta e la questione non è il prestito garantito dal Fondo Centrale di Garanzia e neppure la moratoria. La questione è che io non ho i soldi per pagare le bollette, i fornitori, e a dicembre la CIG finisce. Come una lumaca sul filo del rasoio.

Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio, e’ un sogno che faccio, è il mio incubo, strisciare scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.” Monologo del Colonnello Kurtz, Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, 1979.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Conviene far bene i business plan.

Conviene far bene i business plan.

Vi ricordate quello (tal T.S.) delle richieste lunari delle banche, che ai primi di maggio si lamentava perché per poco meno di 5 milioni richiesti per “investimenti” la banca aveva chiesto il bilancio al 31.12.2019, una situazione intermedia, un forecast al 31.12.2020 e un business plan? Ecco, io non so che fine abbia fatto la richiesta del suo cliente: ma so che ieri, per un business plan fatto bene, abbiamo avuto i complimenti della banca e dell’impresa, anche se siamo stati conservativi e prudenti; per giunta evidenziando, inevitabilmente, perdite per il corrente anno e una risalita complessa ma possibile, lenta ma efficace . Spiegata. Documentata. Non è perché l’impresa ha avuto un finanziamento e io posso registrare un successo professionale. No:. è solo perché o si lavora bene oppure non serve a nessuno (con buona pace di T.S.), né alle banche, né alle imprese. Perché quel documento è servito anzitutto a quell’impresa per guidare i comportamenti dei manager nel bel mezzo della crisi da Covid-19; e poi perché puoi parlare di te stesso e dei tuoi progetti solo se sai quello di cui stai parlando. Se non hai fatto tutto (bene) non hai fatto nulla.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Contrordine compagni! Le difficoltà non sono più un problema.

Contrordine compagni! Le difficoltà non sono più un problema.

Contrariamente a quanto evidenziato ieri sul blog, anzi, in concomitanza all’uscita del post, la Commissione europea ha stabilito che lo stato di difficoltà accertato alla data del 31 dicembre 2019 valga solo nel caso che la società medesima sia assoggettata a procedura di insolvenza o a un piano di ristrutturazione. Ci sarà di che gioire, forse, per le piccole e le microimprese, destinatarie dei prestiti Covid-19: ma per farci un’idea, appena abbozzata, di cosa questo significhi, mettete insieme tante piccole Alitalia sparse per lo Stivale, e il gioco è fatto. Bene, ma non benissimo.

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Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Quadri.

Quadri.

“(…) Ma è davvero questo il quadro più realistico? Secondo Equita no. L’Eba per ammissione esplicita non considera ad esempio i potenziali effetti benefici legati alle moratorie e alla garanzie, che di certo rallentano il processo di deterioramento del credito. Da qua il tentativo della Sim di incorporare il set di «indicazioni, input e feedback ricevuti durante questi mesi senza precedenti al fine di produrre la stima più accurata, affidabile e realistica degli effetti» dell’improvviso crollo del sistema, si legge nell’analisi.

Lo studio è partito dall’assunto che, nell’incertezza sugli effetti da Coronavirus, la cosa più ragionevole è che ciò che «era traballante prima del Covid-19, cada a causa della crisi». L’attenzione in particolare si è concentrata sui «prestiti ad alto rischio», quelli che più realisticamente passeranno a default. Lo stock di prestiti che secondo Equita è in bilico è pari a 184 miliardi, ovvero il 13% del portafoglio prestiti, bacino che comprende i prestiti in bonis “forborne” (che evidenziano primi segnali di difficoltà), gli Unlikely to pay e i prestiti oggetto di moratoria.

Ipotizzando che il 50% dei forborne diventi Utp, che ci sia un raddoppio del tasso di decadimento rispetto al 2019 (ovvero del passaggio da Utp a sofferenza) e che il 10% dei prestiti in moratoria diventi Utp, dalla crisi potrebbero dunque emergere per Equita 22 miliardi di crediti malati in più, con un Npe ratio che passerebbe dal 6,9% attuale all’8,4%. Da qua, la necessità come detto di 12 miliardi di accantonamenti extra, pari a 75 punti di Cet 1.

Così l’ottimo Luca Davi sul Sole 24 Ore on line di oggi, in relazione a un report di Equita Sim sugli effetti della pandemia. Difficile non concordare su un assunto incontrovertibile a parere di chi scrive: la crisi impatterà, anzi, ha già impattato in maniera devastante su chi, già prima del suo verificarsi, presentava andamenti economici incerti, indebitamento elevato, insostenibilità degli impegni assunti. Il Governo attualmente in carica, nel tentativo disperato di buttare la palla in tribuna, ha vietato i licenziamenti, i fallimenti e già che c’era, ha vietato pure la classificazione a sofferenza delle posizioni che tali sarebbero. Leggere nel report di Equita Sim, il cui contenuto sarebbe più ottimistico delle stime dell’EBA, che i prestiti in Bonis forborne manifestano già segnali di difficoltà significa evidenziare quello che ha già detto qualcuno parlando in generale del cosiddetto  new normal, ovvero che non saremo migliori, “perché gli uomini non imparano mai” (Francesco Guccini).
Un prestito classificato forborne, come è noto, è tale perché la concessione, l’aiuto, la forbearance che dir si voglia è stata concessa in relazione a difficoltà temporanee (o presunte tali) che grazie al prestito potrebbero essere superate. Il buon senso, prima ancora che le buone prassi, imporrebbero che tale status (forborne e in bonis) sia assegnato sulla base di documenti, carte, piani, progetti, business plan, budget di tesoreria che documentino, appunto la temporaneità. Temo che, come nel 2008 e a seguire, nulla di tutto questo si sia verificato. E temo che, questa volta molto più velocemente di allora, il credito deteriorato emergerà, perché le regole sono molto più chiare e stringenti, senza dimenticare che l’impatto del Covid non è solo sui livelli del CET1 ratio ma anche sulla liquidità (dunque non solo ICAAP ma anche ILAAP). Occorrerà una soluzione di sistema, a livello europeo e internazionale, certamente: la ricapitalizzazione, anche solo “formale” delle banche -attraverso i ratios patrimoniali- è comunque un problema di policy. Ma come si eroga credito in questo momento e come lo si valuta, resta un problema di best practices, che, a quanto pare, nessun decreto riesce a imporre.
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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Vigilanza bancaria

Perché fare istruttorie? I bilanci non servono (l’impresa vista dalla banca, secondo alcuni).

Perché fare istruttorie? I bilanci non servono (l’impresa vista dalla banca, secondo alcuni).

Oggi, parlando con un collega, mi sono sentito dire che un capo Area Crediti di una banca significant, avendo ascoltato/letto qualcuno dei miei numerosi interventi degli ultimi mesi, ha affermato perentorio che i bilanci non servono a niente. Non più tardi di ieri sera, peraltro, parlando in tema di credito deteriorato (a proposito: ultimo intervento regolamentare significativo nel 2015. Nel frattempo siamo immersi nella bolla del Decreto Liquidità che vieta le sofferenze, i licenziamenti, i fallimenti, l’erosione del capitale per perdite e chi più ne ha più ne metta) ho affermato che il problema del credito deteriorato non è più classificarlo e nemmeno liberarsene, come è stato fino al 2018. Da sempre il vero problema del deteriorato è evitare che divenga tale, e questo può avvenire solo con una politica del credito rigorosa e un processo del credito di qualità: la famigerata “qualità degli affidamenti”. Ma poiché questo non è chiaro, ne parliamo in un webinar (con crediti formativi e a pagamento) che si terrà in due parti, nella mattina del 24 p.v. e del 1 luglio, con l’intervento, fra gli altri di Pier Paolo Poggi, Cino Ripani e Fabio Bolognini.

Di seguito come fare per iscriversi: http://www.reaconsulting.com/dopo-il-covid-l-impresa-vista-dalla-banca#b1076

Nel frattempo vorrei dire a quel signore che afferma che i bilanci non ci vogliono che, se avesse ragione lui, presto il suo posto di lavoro potrebbe essere in pericolo: a cosa mi serve pagare qualcuno per analizzare il fabbisogno finanziario se tanto i bilanci non servono?

 

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Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Codice della crisi e finanza d’impresa: facciamoci del male.

Codice della crisi e finanza d’impresa: facciamoci del male.

Per ragioni che è difficile identificare in maniera scientifica ma che appaiono aristotelicamente evidenti, il governo che (non) ci governa è formato da inetti a 360°, che riescono a dare il meglio, o il peggio, di sé in ogni campo dello scibile universale. E’ di oggi, sul Sole 24 ore , il “manifesto” di 22 studi legali nazionali e internazionali, che evidenziano rilievi critici assai pesanti sul Codice delle Crisi d’impresa approvato dal Governo nei primi mesi dell’anno e destinato a entrare in vigore l’anno prossimo. Questo blog non è sicuramente il luogo all’interno del quale occuparsi approfonditamente dell’argomento, riservandoci comunque di ritornare sul tema e di approfondire i temi della prevenzione, come abbiamo già fatto. Per adesso è sufficiente annotare che rivedere la disciplina del concordato preventivo in modo tale da privilegiare nuovamente la liquidazione giudiziale, significa ritornare indietro agli anni in cui la legge è stata approvata (1942) e a un atteggiamento del legislatore del tutto sfavorevole a salvataggi e ristrutturazioni, a scapito della continuità aziendale. A tacere del trattamento riservato a coloro che investono capitali per rifinanziare imprese in difficoltà, che potrebbero trovarsi nella spiacevole situazione di “conflitto di interesse” e di non poter votare al momento dell’approvazione del piano di ristrutturazione. Il che rende la riforma un mostro giuridico che fa indietreggiare di anni la cultura della crisi d’impresa, in ambito imprenditoriale, aziendale, legale. Ne avevamo proprio bisogno?

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Fabbisogno finanziario d'impresa Giulio Tremonti Imprese PMI

Nessuno vuole ciaccare il ferro.

Nessuno vuole ciaccare il ferro.

battere_il_ferro

Mentre chiacchiero, in una pausa del Meeting (straordinario anche quest’anno), con un amico abruzzese con il quale stiamo organizzando un corso per nuovi imprenditori, ragioniamo sui dati delle cosiddette start-up, citati anche dal ministro Delrio durante il suo intervento, soprattutto nel Mezzogiorno. Ed entrambi dubitiamo, non tanto della bontà dei dati stessi,quanto piuttosto del loro vero significato: così lui, alla mia osservazione sul terziario arretrato, ovvero bar, ristoranti, esercizi commerciali etc…se ne esce con questa frase meravigliosa, che mi fa pensare a due o tre cose.

La prima è molto stringente in termini economici ed è persino banale ripeterla, ma purtroppo riguarda e continua a riguardare tutto il Paese, con l’eccezione, forse, dell’Alto Adige, dove la Provincia Autonoma gestisce ed indirizza la concorrenza: tutti i settori dove non vi sono barriere all’ingresso e dove è relativamente facile entrare per assenza di elevati livelli di capitale investito sono anche quelli che crescono, innovano ed investono meno. Soprattutto, sono i settori a minore valore aggiunto ed a bassa redditività.

Se di investimenti (e di incentivi) si deve parlare, allora, forse sarebbe il caso di ricordare il deleterio contributo della Tremonti alla bolla immobiliare e la cronica assenza di politica industriale: una qualunque, purché politica industriale. D’altra parte siamo e rimaniamo un Paese ad elevata tassazione su famiglie ed imprese, con le distorsioni conseguenti (si investe solo in presenza di incentivi).

Infine, ed è evidentemente un problema culturalmente connesso al precedente, si fa fatica a pensare alla manifattura, si fa fatica a pensare alla fatica: non solo perché impiantare la manifattura è più difficile e costoso ma, appunto, perchè più faticoso. E se la questione è culturale, non c’è incentivo che tenga.