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Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

In una società in crisi economica e sociale: il ruolo del commercialista.

Il codice deontologico

Relazione a cura del

Prof.dr.Alessandro Berti

Associato di Tecnica Bancaria ed Economia degli Intermediari Finanziari

Scuola di Economia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

 

Buongiorno a tutti.

Ringrazio anzitutto l’Ordine che mi ha invitato, nella persona della Collega Silvia Cecchini, dandomi l’opportunità di riflettere, per preparare questa mia relazione, su un tema così importante. Ringrazio ognuno di Voi che, in queste giornate così convulse, come da tradizione, ha deciso di investire un po’ del proprio tempo per condividere queste riflessioni.

Mentre pensavo all’ordine del mio intervento, avevo ben chiare due affermazioni, che ho spesso sentito riecheggiare nella mia esperienza ma che, per la prima volta, ho udito in un’aula dell’Università Cattolica, quando ero matricola a Economia.

Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo le menzogne, noi che non sappiamo cosa sia la verità.” Così si esprime André Malraux, sottolineando una vera e propria disperazione rispetto alla propria impotenza etica.

E Franz Kafka afferma: ”Anch’io come chiunque altro ho in me fin dalla nascita un centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscito a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma in un certo qual modo non c’è più il corpo relativo.” Il che è come dire che l’uomo ha un’esigenza di significato unitario, per sé e per le cose che fa, per tutto, ma che la vita è distante dall’ideale, il “corpo relativo”, appunto, è altrove.

Perché parlare di ideale, se in finale dobbiamo semplicemente discutere il significato (penso che usare il verbo “illustrare” sarebbe offensivo per ognuno di Voi, quasi che io, pure iscritto all’Albo, debba spiegare a dei Colleghi un elemento così importante del proprio lavoro e della propria appartenenza professionale) di un codice il cui scopo è sintetizzato nella definizione di deontologia, ovvero un neologismo coniato dal filosofo inglese J. Bentham, che appare per la prima volta nel 1834 in un suo trattato postumo; dal greco: [deon] dovere e [logos] discorso, studio. Ovvero, ad essere letterali e riduttivi, un insieme di regole comportamentali.

La deontologia parte dal presupposto che il fine non giustifica i mezzi, ma che il fine è il mezzo. La questione sarebbe ingiustamente relegata a codici etici per professioni ad elevato rischio morale –psicologi, medici, avvocati-  che pure offrono un campo amplissimo di indagine, se non si tenesse conto che essa sorge sulla base di un presupposto molto più grande.

Il presupposto di tutto sta come sempre nella libertà individuale (e per conseguenza nella posizione di potere che questa attribuisce a chi esercita una determinata professione), ponendo la necessità di un fondamento etico che stia a monte del libero arbitrio del singolo. Ho detto fondamento etico, e non regole, di proposito: più avanti spiegherò il perché.

Quale sia il fondamento etico del nostro codice, ciò che ci viene proposto dall’Ordine Nazionale (secondo me ad un livello minimo, elementare: che non significa ridurne la portata, ma semplicemente porre la questione della responsabilità personale, che va ben oltre il rispetto di tale livello minimo di regole) è ben sintetizzato nell’articolo 5, che mi permetto di rammentarvi:

 

Articolo 5

INTERESSE PUBBLICO

1. Il professionista ha il dovere e la responsabilità di agire nell’interesse pubblico.

2. Soltanto nel rispetto dell’interesse pubblico egli potrà soddisfare le necessità del proprio cliente.

Il tema dell’interesse pubblico coincide, a mio parere, con quello che mi sembra più rispondente al sentire di ognuno, non appena in questa fase storica ma più in generale, del bene comune. È facile individuare, agli antipodi del bene comune, il bene individuale o meglio, l’esasperazione della soddisfazione di quest’ultimo, l’individualismo.

“L’individualismo” -afferma Juliàn Carròn in un intervento del 2009- “è un tentativo di risolvere i problemi vecchio come l’uomo, implicando il rapporto tra il proprio bene e il bene altrui, la tensione tra io e comunità. Il fatto di non vivere da soli, bensì di essere sempre all’interno di una comunità, ci costringe a decidere in continuazione il modo di affrontare questo paradosso.

Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus.

Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente, non è una vera soluzione.

Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole permettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi. Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri. Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo.

In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo. Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.” (J.Carròn, 2009)

Vi sono numerosi esempi di quanto affermato da Carròn, a partire dal più elementare, e drammatico, di tutti: la pena di morte, negli Stati degli USA dove è in vigore, non ha eliminato il crimine, né lo ha disincentivato. La più severa sanzione posta a tutela delle regole, la perdita della propria vita, non impedisce che l’uomo possa violarle.

Ancora, e venendo ad esempi più vicini alla sensibilità di chi è presente oggi, alla sensibilità di chi deve paragonare etica ed affari quotidianamente: le pene, per certi versi bizzarre (ergastoli plurimi, condanne secolari), ancorché severissime in vigore negli USA (45 anziché 150 anni di galera, come nel caso rispettivamente di Kenneth Lay –Enron- e di Bernie Madoff, truffatore da 47 mld. di €) non impediscono che si commettano reati finanziari. E Worldcom, con il fondatore Bernie Ebbers che a 63 anni ne prende 25 di galera, ovvero l’ergastolo, non è da meno.

Lo scrittore inglese G.K.Chesterton affermava che “l’errore è una verità impazzita.” L’individualismo, sotto questo profilo, risponde alla definizione chestertoniana, laddove esaspera, mettendola al primo posto, la ricerca di benefici individuali, anche a scapito del benessere collettivo, danneggiando altre persone o i loro beni.

Alcuni esempi, tratti dall’esperienza di un lavoro, quello che svolgo personalmente, spesso giocato nella terra di nessuno che sta tra la banca e l’impresa, tra il finanziatore e il debitore. Penso che parlare della propria esperienza personale valga più di mille esempi teorici, perché fa riferimento a qualcosa che si conosce direttamente.

Personalmente mi occupo di modelli per la valutazione del rischio di credito e di analisi del merito di credito, lavorando prevalentemente dal lato bancario nell’esame di situazioni aziendali sovente borderline, ovvero squilibrate sia sotto il profilo economico, sia sotto quello finanziario. In tale veste vengo spesso in contatto con documenti contabili la cui rispondenza ai requisiti di verità, chiarezza e precisione è del tutto inverosimile. È altrettanto frequente che, nel corso di seminari o di corsi di formazione, soprattutto in banca, ma anche nell’ambito di consessi imprenditoriali, si verifichino discussioni, in sede dell’analisi di casi aziendali, nelle quali il dottore commercialista, o presunto tale, sia chiamato in ballo con frasi del tipo: “La colpa se hanno così tanti debiti è dei commercialisti, che li hanno convinti a scaricare gli interessi passivi” oppure ancora “Sono i commercialisti che fanno i bilanci e sono loro che li presentano in banca”. Tralascio i commenti e le facili ironie, perché penso che sia opportuno riflettere ulteriormente, e proprio a partire dalla deontologia applicata, se volete, in modo pedestre.

Nella veste di consulente di alcune banche, peraltro, mi è capitato spesso di ascoltare, nell’ambito di riunioni di Consigli di Amministrazione o in altre circostanze, frasi del tipo: “Non possiamo andare contro i commercialisti, soprattutto se sono nel collegio sindacale: e poi rischieremmo che portino i loro clienti in un’altra banca”. La crisi si è incaricata, progressivamente ma inesorabilmente, di incrinare questa concezione improntata ad un rapporto banca-impresa incentrato esclusivamente sulla copertura del fabbisogno, anziché sulla sua valutazione in termini di natura, qualità e durata (secondo gli insegnamenti del mio Maestro, mio e Vostro Collega, il caro prof. Attilio Giampaoli, mancato proprio quest’anno): ma resta tuttora diffuso un atteggiamento che vede nella sola ricerca di finanziamenti a tutti i costi l’unico problema da risolvere per tante imprese in difficoltà.

Valga un esempio fra i tanti. Un’impresa “storica”, da molti anni sul mercato all’ingrosso dei prodotti casalinghi in plastica, con margini operativi in progressiva diminuzione, ha visto improvvisamente flettere il fatturato del 25%, causa concorrenza estera. Facile arguire che, a seguito di tale contrazione, il risultato operativo sia diventato negativo e con esso sia venuto meno l’equilibrio economico e di conseguenza quello finanziario: a causa di tali circostanze, una delle principali banche italiane ha ridotto le proprie linee di credito di circa 6 mln. di € (l’azienda era peraltro già sovra-indebitata, con un debito pari a circa il 50% delle vendite, evidentemente eccessivo per il settore).

Il piano di salvataggio, presentato da un noto studio professionale associato nel nordest, contemplava le seguenti ipotesi:

·   richiesta di nuove linee di credito per cassa, sostitutive, per circa 6 mln. di €, da erogarsi immediatamente da parte delle altre banche;

·promessa di vendere, tramite incarico irrevocabile, due capannoni vuoti (ovviamente poiché nel frattempo ne era stato realizzato/acquistato un terzo molto più grande ed altrettanto inutile) ad un prezzo quasi coincidente con la nuova linea di credito sostitutiva;

·rientro dell’esposizione e “ripristino della continuità aziendale”.

 

Posso giudicare del piano che vi ho sommariamente descritto unicamente in base a quanto mi è stato mostrato da una delle banche delle quali ero e sono consulente. Ma non vi era, in alcun modo, la benché minima menzione di quali aspetti, sotto il profilo economico e reddituale, fossero stati individuati per agire su di essi al fine di ripristinare l’equilibrio economico: evidentemente assente a prescindere dal rientro, solo sperato, rispetto al nuovo fido di cassa. Il piano non aveva alcun requisito di sostenibilità, apparendo, come in realtà era, unicamente un escamotage per ottenere nuova finanza, attraverso i buoni uffici di uno studio prestigioso: non si prospettava alcuna possibilità di ritrovare l’equilibrio economico che anzi, a ben guardare, sarebbe mancato già alla fine dell’anno in corso, a prescindere dalla vendita dei cespiti. Che ne è della deontologia, in questo caso? Che concezione della crisi d’impresa sottende un intervento professionale teso, né più e né meno che prima della crisi, a trovare nuova finanza? Quanto c’è di accondiscendente in un rapporto professionale che si esplica in piani di ristrutturazione (senza offesa per i piani) di questo tenore ed evita accuratamente di guardare in faccia la realtà per quella che essa è, ovvero che l’impresa è decotta ed occorre non appena nuova finanza, ma un piano di risanamento che contempli tagli, sacrifici, ripensamenti profondi della filosofia aziendale?

Potrei andare avanti, raccontando di aziende palesemente indebitate ultra vires, la cui unica preoccupazione, condivisa purtroppo con il commercialista, non era quella di ritrovare la strada maestra dell’equilibrio economico e finanziario, ma quella di trovare nuova finanza. Ovvero, di trovare debiti nuovi, e maggiori, per pagare quelli vecchi. Nel mese di giugno ho visitato una banca nella quale non mi recavo, per consulenza, da circa 7 anni. Con l’occasione ho chiesto loro notizie di un cliente al quale io stesso avevo fatto visita, per spiegare, da terzo esterno e non coinvolto, che l’indebitamento che avevano era insostenibile (una volta e mezzo il fatturato, naturalmente con un bel capannone nel mezzo: ma si sa, si scarica il capannone, gli interessi passivi, tutto è scaricabile, quindi tutto è buono…). I debiti, allora pari a 1,2 mln. di €, erano lievitati a 3,5 mln. di €: e non riesco a darmi risposte, se non quelle della cecità più bieca e schematica, di come ciò sia potuto accadere. Nessuno ha goduto di quei maggiori debiti, che ora, molto più di prima, strangoleranno l’imprenditore, la sua famiglia e, in proporzione, i conti della banca in questione: l’imprenditore è sopravvissuto a sé stesso, indebitandosi per mangiare, non certamente per vivere alla grande. A chi è servito tutto questo? E chi, se non il commercialista, avrebbe potuto fermare questo degrado?

Difficilmente avrebbe potuto lo stesso commercialista, peraltro, che nel piano presentato 7 anni prima e rifiutato formalmente dalla banca (ma poi accettato nei fatti), spiegava che il fatturato, pericolosamente in bilico, si sarebbe poi ripreso crescendo del 50% all’anno nei tre anni successivi. In che modo? Mistero.

Così come è un mistero che tuttora mi accada, ed anche di recente in una primaria azienda della provincia, di essere richiesto di fare una consulenza, un check-up aziendale in sintesi, su dati aziendali palesemente falsi, soprattutto per quanto riguardava il magazzino. Sconsigliabile, con il sottoscritto, trattandosi del mio pane quotidiano. Ma non tanto per la vicenda in sé, evidentemente assurda, quanto piuttosto per il prosieguo: il lavoro non si è mai concluso e la consulenza non è mai stata erogata perché il dato del magazzino, depurato dell’alterazione contabile, non mi è mai stato comunicato. La rinuncia all’incarico non è tristemente necessaria, sarebbe un’ovvietà affermarlo: il retrogusto amaro che ti rimane è quello di una visione talmente distorta della realtà da divenire essa stessa più vera del vero, al punto che, come in un social network di moda qualche anno fa, Second Life, si può immaginare qualunque cosa, purché lontana dal reale.

Cito ancora un caso. In una banca del Centro-Sud ci è stato chiesto una consulenza in termini di assessment sulla qualità del processo del credito. Abbiamo proceduto verificando l’intero processo, dalla fase istruttoria, a quella dei controlli, controllando anche i compiti del Collegio Sindacale. La verifica dell’attività svolta dal Collegio ha condotto alla conclusione imbarazzante che il Collegio stesso, in una banca, non in un’impresa qualsiasi, si limitava, letteralmente, alle verifiche trimestrali. Il problema non è stato tanto nell’evidenza tecnica di quanto analizzato, quanto piuttosto nel modo di condividerlo. Il consiglio di amministrazione (composto da altri Colleghi) non ha ritenuto di dover prendere atto ufficialmente di quanto emerso nella consulenza, chiedendo piuttosto al sottoscritto di condividere il giudizio stesso, con i membri del Collegio. Cosa che ho accettato –non so quanto correttamente sotto il profilo deontologico- solo a patto di poter esprimere integralmente il mio giudizio ai Colleghi. Vi lascio immaginare l’imbarazzo: ma credo che il silenzio sarebbe stato ben peggiore.

Se l’educazione è essere introdotti alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, tutte queste storie ci insegnano che è mancata la volontà di educare. Non di insegnare, non di ammaestrare, di ammannire consigli impancandosi a sapientoni: educare, ovvero essere responsabili, in termini di giudizio che qualcuno dà sulla realtà. Conosco la facile battuta su “Chi sa fa, e chi non sa insegna” e proprio perché la conosco non la sopporto, perché fa fuori tutta la fatica di chi, invece, si coinvolge nella fatica di stare di fronte alla realtà.

Ma se è vero che ci sono clienti che non si muovono di un passo senza prima avere fatto una telefonata, forse è proprio degli altri che dovremmo sentirci maggiormente responsabili, senza pensare che tutto si esaurisca in una parcella pagata. E se provassimo ad immaginare, proprio ora, proprio ora che c’è la crisi, ed in maniera così violenta, che il compito del commercialista sia, letteralmente, “educativo”, ovvero capace di introdurre alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, senza edulcorarla, alterarla, stravolgerla, ma soprattutto, appunto, senza eliminarne nessun pezzo?

Si badi bene, non sto sottovalutando l’importanza del lavoro. Ma mi chiedo quanto siano compatibili col decoro della professione non certi onorari, quanto piuttosto i contenuti di certe prestazioni, come quelle svolte dagli anonimi Colleghi di cui sopra. Che vengono svolte, ricordando la frase di Kafka con cui ho iniziato, letteralmente senza alcun centro di gravità.

Credo allora di poter condividere con voi una conclusione, sicuramente non l’unica, e per la brevità dei tempi e per l’inadeguatezza del relatore che avete scelto. Mi piace concludere ricordando quello che, tra tante altre cose, mi ha insegnato un Maestro dei tempi dell’Università Cattolica, Mons.Luigi Giussani: Egli sosteneva che “chi non ha sensibilità non ha etica”. Io credo che in queste parole si possa ben riassumere il senso della mia riflessione odierna, che vorrei diventasse condivisa, personalmente, da ognuno di noi. Ovvero, non ci sono regole, né codice etico, che possano sostituirsi alla sensibilità personale, intesa come lettura che della realtà viene data dalla propria libertà, sia pure filtrata da cultura, temperamento, circostanze. In questo, la crisi, che pure ha messo così gravemente alla prova noi ed i nostri clienti, rimette al centro, caricandola di nuovi compiti, la nostra responsabilità personale che non è appena professionale, e ci mancherebbe, ma, letteralmente, educativa, ovvero di realismo. Vi ringrazio per l’attenzione.

 Urbino, 17 dicembre 2013.

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BCE Crisi finanziaria Disoccupazione Economisti Giulio Tremonti Silvio Berlusconi

La mia droga si chiama BCE.

La mia droga si chiama BCE.

Qualche lettore e qualche amico mi ha chiesto: “Perché non parli di più della crisi? Che cosa ne pensi?”. Sono restìo, mi sembra che si rischi di fare a gara a chi fa la migliore orazione funebre. Ma io non sono Brando che interpreta Marco Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare: e penso che questa non sia una tragedia, ma una farsa, perché gli interpreti non sono rispettabili, non più.

Francesco Giavazzi sul Corriere di oggi, con un titolo certamente forte, ci rende edotti circa l’essere diventati morfinomani. La droga ci viene fornita dalla Bce, che compera i nostri titoli di Stato, impendendo che lo spread sui Bund tedeschi si allarghi ulteriormente. Dopo che Alberto Alesina aveva ricordato qualche settimana fa, che la nave è senza capitano, o meglio, che il capitano è incapace, ora è il turno di un altro economista di grande valore, certamente, non accusabile di partigianeria per le prese di posizione equilibrate degli ultimi anni, nell’elencare puntigliosamente tutto ciò che, in maniera assolutamente bipartisan, non è stato fatto. Niente interventi sulle pensioni, niente riduzioni dei costi della politica, niente salto dei ponti per le festività laiche non più soppresse, niente più imposte in aumento, per non grondare lacrime e sangue: lotta all’evasione e un po’ di galera, per qualcuno che non ci andrà. Nel frattempo, Il Sole 24 Ore rende noto che i tempi di accertamento dei reati tributari si sono dilatati, grazie alla manovra, fino a 15 anni. Niente male, per essere un governo che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. Ha ragione Julián Carrón quando dice che non dobbiamo aspettarci nulla dalla politica, lo ha ripetuto Scholz al Meeting di Rimini, subito dopo aver ascoltato Tremonti che divagava di battaglie e di sconfitte. Proprio per questo non resta che la responsabilità personale di fronte alla realtà, ponendo continuamente noi stessi di fronte alle difficoltà: che si affrontano solo se sappiamo costruire guardando al positivo, come due sere fa, a Predappio. Di tutto il resto sono, sinceramente, stanco.

in inglese, è ancora meglio

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Educazione Università

Educare a giungere alla soluzione.

Educare a giungere alla soluzione.

A volte dicono: «Questo è astratto». Se tu vuoi insegnare a tuo figlio matematica, per non essere astratto devi dargli perfino la soluzione del problema? Gli insegni la matematica dandogli il risultato dell’equazione o educandolo a giungere alla soluzione? Se gli dai la soluzione, non lasci che lui rischi e che poi faccia un paragone! Se noi costantemente, davanti alle cose, non ci educhiamo a questo, non cresciamo in un giudizio nostro.

Julián Carrón

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Banche

Egli tagliò corto.

Egli non perse i suoi anni a gemere e interpellare la cattiveria dei tempi. Egli tagliò corto… Facendo il cristianesimo.

Charles Péguy

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Educazione Università

L’educazione è la comunicazione di sé (non basta una bella lezione).

(..) Ma questo ragazzo cosa ti ha detto? Che mancavi tu! Perché l’educazione è la comunicazione di sé,
cioè del proprio modo di affrontare il reale; non basta una bella lezione, occorre l’io presente.
Perché questo è quello che testimonia Lui: dopo Cristo non c’è un’altra modalità di comunicare la
verità, se non la testimonianza, dove i concetti diventano carne e sangue. E questa è la provocazione
che ti offre il ragazzo.
E questo ha cambiato tantissimo, infatti.
Ti dico questo perché è veramente una sfida per noi.

Julian Carròn

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don Giussani Educazione

Come si educa la libertà?

Gianni Galassi (c), Fabbrica, Campiglia Marittima

Allora la vera questione è: come si educa la libertà? Rispondendo alla provocazione del reale: se il reale provoca, l’educazione della libertà deve essere educazione a rispondere alla provocazione. È semplice: «È l’educazione ad aver “fame e sete” che rende attenti alle sollecitazioni che gremiscono il confronto con la totalità del reale […]. Beati coloro che hanno fame e sete [è una grazia l’umano che ha questa fame e questa sete: la vita, così, è una benedizione, perché divento in grado di accogliere tutto il reale]. Invece maledetti coloro che non hanno fame e sete, coloro che sanno già, coloro che non si aspettano niente. Maledetti i soddisfatti a cui la realtà è, caso mai, puro pretesto alle loro agitazioni e non si aspettano nulla di veramente nuovo da essa [ecco la maledizione](1)».

(1) L.Giussani, Il senso religioso, BUR

Julian Carròn, Rimini, aprile 2010

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don Giussani Lavoro

Una diversa concezione di lavoro.

Henri Matisse, Icarus

Prima conseguenza di questa concezione è un’idea di lavoro come “nesso tra il gesto, enorme o banale, che compio e il destino, il compimento della vita, la pienezza dell’io.”

Julian Carròn

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Banche don Giussani Educazione Goldman Sachs profitto Rischi USA

Lo scandalo di Goldman Sachs.

Lloyd Blankfein, CEO di Goldman Sachs

Lo scandalo, se la memoria vacillante del greco (a sua volta vacillante)  non mi inganna, è qualcosa nel quale si incappa, si inciampa. E’ posto lungo il cammino, non si può ignorarlo, come uno di quei sassi che in montagna, durante le camminate, obbligano il sentiero a deviare. Lo scandalo sono i profitti di Goldman Sachs, i cui boys sono collocati nei gangli del potere, lobbistico e non, degli States.

Su tutto ciò che rappresenta il caso Goldman Sachs, ma anche il dibattito che ha suscitato, sul potere ed il suo utilizzo, sulle conseguenze di questo uso e sul giudizio che ognuno deve darne, io credo sia opportuno rileggere le considerazioni iniziali riportate nell’intervento che Juliàn Carròn ha fatto nel corso dell’assemblea generale della CdO lo scorso anno.

“Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus. Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente,non è una vera soluzione. Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole permettere sotto controllo il“lupo”che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti,malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi.
Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri. Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo. In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo. Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.”

Il problema, dunque, non sono le regole, anche se le regole ci vogliono e vanno applicate; ed il problema non è neppure il potere, che da sempre ha zone grigie e zone d’ombra, che da sempre è contiguo alla vita economica, in Italia, come negli Stati Uniti come altrove. Il problema, e lo sottolinea bene Carròn, siamo noi, è dentro di noi. Come quando don Giussani diceva che “se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio.” Voleva dire che se le persone fossero educate a stare di fronte alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, ci si accorgerebbe che il problema non è mai di qualcun altro che è normalmente più forte, più cattivo, più approfittatore ed in grado di fare male, dividendo in modo manicheo il bene ed il male in capo agli uomini. Ci si accorgerebbe che la questione riguarda noi, che non siamo normalmente più buoni, o generosi o altruisti degli altri: cioè, come dicevo un anno fa, non siamo migliori di loro. A mio parere vuole dire, per esempio, che si può cominciare a scegliere la banca con cui lavorare, educandosi a capire cosa questo significhi, che si può cominciare a farsi domande sul senso del proprio lavoro, che si può spendere la propria consapevolezza facendola diventare apertura alla realtà. Ci si può interrogare tutta la vita sul potere e sulla cattiveria umana, senza cambiare nulla, prima di tutto dentro noi stessi. Oppure si può cominciare a educare se stessi, cercando maestri e la loro compagnia, lavorando sul significato di quello che si fa e confrontandosi con chi ti può aiutare, concependo sè non come qualcosa di astratto, ma come vivo e presente nel mondo, nell’ambiente, nelle aule, nelle banche, ovunque. Cioè facendosi domande e cercando risposte, ma non in modo astratto, perché per essere astratti basta poco: basta pensare che il problema riguardi gli altri e non la mia vita. Per educare ed educarsi occorre porsi la domanda del significato, prima di tutto per sè. So che questo mi interpella personalmente, per esempio nel modo di fare lezione in università, nel modo con cui rispondo agli studenti ed ascolto quello che hanno da dirmi; ma anche nel modo con cui sollecito ognuno di loro ad andare oltre quelle 60 ore finalizzate a dare un esame. Questo della ricerca del significato è il lavoro della vita, e non finisce mai. Accettare questo vuol dire mettersi in gioco, ora, sapendo, come diceva Giussani nel post che ha preceduto la vacanza di John Maynard, che “abbiamo voluto parlare di destino e scopo perché tutto va a finire lì.” Anche Lloyd Blankfein.

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Educazione

Oltre ciò che appare (la realtà è una patria dalla quale ci si attende tutto).

Rembrandt, Adorazione

Il reale mi sollecita a cercare qualcosa d’altro, oltre ciò che appare.

Questo accade perché la realtà afferma la nostra coscienza, in modo tale che essa presente qualcosa d’altro.

La realtà è come una patria dalla quale ci si attende tutto.” (Maria Zambrano)

Julian Carròn, Rimini, 24 aprile 2010

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don Giussani Educazione

L’avventura della conoscenza e la sfida del reale.

L’avventura della conoscenza e la sfida del reale.

Grand Central Station, New York

Due sono allora i fattori di una rinascita dell’esperienza educativa.
In primo luogo, la consapevolezza del metodo. L’unica cosa in grado di svegliare l’io dal suo torpore, non è una organizzazione o un richiamo etico più accanito, ma l’imbattersi in una diversità umana. Perché questo possa accadere occorrono – ed è il secondo fattore indispensabile – degli adulti che incarnino nella loro vita una “risposta plausibile” (così la definiva a Genova Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia alla Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani), che possa offrirsi agli altri. Si tratta di una straordinaria possibilità di verifica: partecipando all’avventura educativa, cercando cioè di introdurre altri uomini alla totalità del reale, viene a galla senza possibilità di astrazioni se noi per primi partecipiamo all’avventura della conoscenza. Don Giussani ci ha sempre detto che la forma dell’educazione è la «comunicazione di sé»cioè del proprio modo di rapportasi con la realtà; perciò noi possiamo educare solo se per primi accettiamo la sfida del reale, comprese le paure, le difficoltà, le obiezioni. Proprio questo mostrerà a tutti la portata della fede come risposta alle esigenze di un uomo ragionevole del nostro tempo. E renderà per ciascuno di noi entusiasmante e carica di speranza l’avventura educativa.

Julian Carròn, Milano 18 marzo 2010