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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Essere umano tra gli esseri umani (?).

Essere umano tra gli essere umani (?).

La crisi può paradossalmente avere, come si sa, un effetto positivo se permetterà, attraverso una responsabile economia di sistema, di sostenere le imprese sane e di eliminare, senza alcuna indulgenza, le malefiche imprese – e i malefici imprenditori – dal mercato. Il sistema bancario è l’attore principale della rinascita e l’algoritmo, di cui oggi la banca si può e si deve avvalere è freddo e muto calcolatore solo per chi si rifugia dietro il suo verde o il suo rosso, mentre diventa utilissimo per chi ne sappia valorizzare l’uso quale strumento misuratore, propedeutico al recupero della fiducia in chi quei numeri (misurati dall’algoritmo) li attua nel contesto in cui opera: insomma, si deve valutare il richiedente il credito quale essere umano tra gli esseri umani e non solo numero tra i numeri. Occorre che il regista – lo Stato – ne disegni la trama su misura e, per restare in tema cinematografico, inizi immediatamente le riprese, perché c’è pochissimo tempo e perché il sistema necessita di decisioni condivise e coraggiose per camminare speditamente verso il traguardo finale: la ripartenza del mercato che, per sopravvivere nel medio – lungo periodo, deve basarsi su un sano conflitto competitivo (concetto mai ripetuto abbastanza), senza dimenticare il controllo sociale cui, sommessamente, accennavamo in un nostro precedente intervento.

Questo scrivono, con un po’ di enfasi retorica, Maurizio Onza e Federico Maurizio D’Andrea sul il Sole 24Ore di oggi a proposito della ormai vexata quaestio della velocizzazione delle procedure di analisi e valutazione, da parte delle banche, delle richieste di credito presentate in epoca Covid. Parole che lasciano francamente perplessi, ripetendo alcuni stanchi slogan del passato (non si devono guardare solo i bilanci, l’imprenditore è “un essere umano tra gli esseri umani” etc…) e amenità qualitative che fanno a cazzotti con l’intenzione di “eliminare senza alcuna indulgenza, le malefiche imprese -e i malefici imprenditori- dal mercato“. Già Zingales ben più di un decennio fa evocava il ruolo delle banche come becchini (ovvero ripulitori) del sistema economico, incaricati di eliminare chi non poteva più restare sul mercato. Difficile dar torto al buon Zingales. Solo, ed è qui la vera questione che nell’articolo non appare, non si tratta di combinare un algoritmo con una valutazione demografica e sociologica grazie allo Stato, sceneggiatore e regista di questo film, tanto più se si pensa che basti affidarsi più velocemente alla garanzia pubblica per uscirne vivi. Se restiamo alla metafora cinematografica, vedo attori all’altezza (molte banche, soprattutto nei territori lo sono) e altri che non dovrebbero nemmeno partecipare al casting (purtroppo molte imprese, non solo piccole).

Se non esistono business plan e neppure bilanci credibili, se si ritiene burocrazia intollerabile la richiesta di pezze d’appoggio e di documenti a sostegno dei progetti imprenditoriali, poi non ci si può lamentare se il film riesce male e non ottiene successo. E un attore incapace potrebbe persino venirsi a lamentare (e infatti lo fa) perché qualcuno recita meglio di lui.

Non abbiamo bisogno di più Stato, ce n’è fin troppo e spesso con esiti disastrosi, come nel caso Alitalia e in Ilva. Forse sarebbe il caso di ripensare anche al cosiddetto controllo sociale di cui parlano gli Autori dell’articolo citato all’inizio di questo post: il controllo sociale, se non parliamo di Corea del Nord o Venezuela, si attua grazie a una cultura condivisa, a modi di vedere ed affrontare la realtà, a valori comuni. Nel nostro caso significa parlare di un sistema di relazioni di clientela, ovvero di un rapporto banca-impresa basato sulla partnership, la collaborazione e la trasparenza reciproca: e un sistema di relationship banking non nasce per volontà statale, ma perché gli attori, quelli veri, sanno interpretare bene il loro ruolo. Abbiamo della strada da fare, ma la possiamo fare solo insieme.

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La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

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Il tema del razionamento o credit crunch ha tenuto banco tra gli addetti ai lavori praticamente dall’inizio della crisi, con punte particolarmente accese nella prima fase delle operazioni di LTRO della Banca Centrale Europea, quelle che hanno fatto dire a taluni geni della finanza che le banche si tenevano i soldi anziché destinarli alle imprese. Ricordo in proposito una esemplificazione, peraltro assai efficace, apparsa sul Sole 24 Ore, che stimava nel 2 per mille il residuo effettivamente a disposizione del mondo delle imprese, una volta terminati tutti i passaggi di 1000 euri messi a disposizione da parte della BCE.
Effettivamente un po’ pochini, se si guarda alla proporzione, in realtà, probabilmente quello che ci voleva perché il sistema non andasse al collasso e si materializzasse l’incubo (quello che tutti fingono di dimenticare quando parli loro di salvataggi bancari) del bank run o corsa agli sportelli.
Mentre si salvavano le banche –o meglio, si metteva in sicurezza il sistema finanziario europeo, del che si deve ringraziare Mario Draghi, che Dio ce lo conservi a lungo- si irrobustivano i requisiti di capitale, con buona pace di Sebastiano Barisoni e si sistemavano le regole. Del che abbiamo dato conto nelle puntate precedenti di questa serie di considerazioni incentrate sulla misurazione del rischio di credito.
Ora la tentazione potrebbe essere quella di dire “Bene, siamo a posto, tutto è come deve essere, a questo punto nulla più può ostacolare l’afflusso di credito alle imprese”. Probabilmente qualcuno lo ha già detto o lo sta dicendo. Niente di più sbagliato.
Le regole, e con loro l’ispessimento dei requisiti di capitale per le banche, non fanno la cultura del rischio; non garantiscono una cultura delle relazioni di clientela basta sulla trasparenza reciproca; non impediscono a imprenditori avventati di compiere passi più lunghi della gamba, non in omaggio agli spiriti animali, ma molto più banalmente alla ricerca di scorciatoie per la ricchezza o di sistemazioni personali o di capannoni inutili; soprattutto le regole non possono impedire che il mercato faccia il suo lavoro, ovvero cacci via le imprese decotte, inefficienti, incapaci.
Non si può invocare il mercato nei giorni pari ed in quelli dispari, come hanno fatto i c.d. “forconi”, chiedere interventi statali, sussidi, finanziamenti bancari. Se a qualcuno piace ancora il mercato, ricordi quanto diceva Schumpeter circa le banche “agenti della contabilità sociale” nonché, più recentemente, Zingales descrivendole efficacemente come “beccamorti del sistema economico.”
Le banche devono fare istruttorie fatte bene, molto migliori di quelle attuali, per non parlare di quelle in cui siamo stati abituati in tempi passati: e devono scegliere, dicendo dei sì e dicendo dei no, ma anche spiegandoli. E devono, molto più velocemente che in passato, far saltare le imprese a cui hanno prestato denari che non ritorneranno.
Ma le imprese devono mettere le banche in condizioni di sceglierle, ovvero devono raccontare sé stesse ed i propri progetti.
E per spiegare sé stesse c’è solo un sistema: capire a che punto si è, valutare seriamente e realisticamente quello che si sta facendo, misurare la correttezza del proprio operato confrontandosi. Non c’è insieme di regole che possa far nascere la cultura d’impresa, per soggetti che pensano che il mercato sia far nascere 10 bar nel giro di 200 mt. (provare per credere, basta venire nel mio quartiere a Rimini. N.B.: non sto al mare…) pensando che tutti sopravviveranno tra ricchi premi et cotillons. Non ci sono regole, per quanto bene scritte, che possano impedire a qualcuno di sognare che acquistare un tabacchino, un’edicola, la pensione Iris-con-vista-ferrovia, una rosticceria o un bar: ci possono essere solo i no delle banche, ma ad evidenza non possono bastare.
Su questo punto, soprattutto pensando alle Pmi, la palla è nel campo di professionisti ed associazioni: e, a quanto pare, è ancora tutto da dissodare.

Ultima puntata. La puntata precedente è stata pubblicata il 2 luglio 2014)

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Alessandro Berti Crisi finanziaria Disoccupazione Economisti Ripresa Sviluppo

Fermiamo il declino! ri-approvo, ri-sottoscrivo e voto!

Fermiamo il declino! Ri-approvo, ri-sottoscrivo e voto!

Cari amici,

il primo invito rivolto a voi tutti è di moltiplicare il più possibile le attività di proselitismo, fund raising, e l’organizzazione di eventi territoriali per estendere la nostra rete e illustrare i dieci punti programmatici, che per noi sono pietra angolare imprescindibile per la verifica di un’offerta politica radicalmente nuova e all’altezza del compito di fermare il declino italiano. I coordinatori regionali hanno iniziato a lavorare a questo fine, la comunicazione quotidiana sui social networks grazie ai volontari impegnati si va intensificando, sul sito trovate le indicazioni delle trasmissioni radio televisive in cui siamo impegnati a rafforzare la nostra presenza, ogni giorno veniamo contrattati da nuove espressioni della società civile, professionale, e da chi non si riconosce nell’attuale offerta politica.

Negli ultimi giorni, tre eventi hanno catalizzato l’attenzione politica dei media. Su ciascuno di essi, qualche breve considerazione per mantenere noi tutti le idee chiare ed evitare equivoci sulla natura della nostra iniziativa. E sulla sua percezione da parte dell’opinione pubblica.

Cominciamo dal confronto interno al Pd. Matteo Renzi sale nei sondaggi di fiducia e popolarità, molti ci chiedono come consideriamo la sua ascesa. E’ presto detto. Apprezziamo l’energia e chiarezza con cui pone nel Pd il tema del rinnovamento della politica e della selezione delle sue classi dirigenti. Non sappiamo come la pensa su alcuni dei punti fondamentali e per noi essenziali, indicati nel nostro programma. Punti per noi irrinunciabili. Non possiamo né vogliamo esprimere alcun consenso alla sua azione, se e finché dichiarerà che in ogni caso il suo obiettivo resta all’interno dell’attuale perimetro del Pd. Vedremo come e se la sua iniziativa evolverà, ma restare nel recinto delle vecchie forze politiche per noi è segno di non comprensione che il problema è proprio quello di superarle, alla luce del pessimo bilancio da tirare del ventennio che abbiamo alle spalle. Di nuovo, Renzi rappresenta un fattore positivo rispetto alla vetusta e inadeguatissima oligarchia del Pd, ma il potenziale di rinnovamento che egli rappresenta finirà sprecato se viene costretto dentro alle maglie strette dell’ideologia che governa la politica del Pd.

Il secondo evento politico è quella della cosiddetta agenda Monti, o meglio la conferma tout court di Monti come premier anche per il futuro e a prescindere dalle prossime elezioni. E’ una questione potentemente rilanciata a Cernobbio, tradizionale appuntamento di ripresa estiva del confronto sui temi economici e finanziari dell’agenda nazionale. E’ un’impostazione inaccettabile, a nostro giudizio. Non si tratta di disconoscere la credibilità internazionale attribuita a Monti, rispetto alla totale sua perdita che giustamente travolse Berlusconi. Si tratta di guardare agli interessi del paese e a ciò di cui ha veramente bisogno. Per quanto ci riguarda, tre questionimolto rilevanti obbligano a ragionare diversamente, sul futuro politico dell’Italia dopo le prossime elezioni.

  • La prima è che dare l’impressione agli italiani che il loro voto abbia un’importanza pressoché nulla – perché si tratta di confermare la stessa premiership tecnica che peraltro rifiuta di sottoporsi a giudizio elettorale – non può che rappresentare un ulteriore incoraggiamento al puro voto di protesta. Con più di una ragione, visto che il ragionamento sottintende che sarebbero “buoni” invece i voti dati a Pd, Pdl e Udc che sostengono Monti, a prescindere dalla loro totale sconfitta politica e sociale, sfociata poi in una soluzione d’emergenza per evitare il collasso dell’Italia come detonatore dell’euro.
  • La seconda è che non comprendiamo in che cosa la più volte citata “agenda Monti” si differenzi davvero, sinora, dalla continuità rispetto all’impostazione di politica economica seguita in precedenza. Agli occhi degli italiani, come si vede anche nella distinzione netta nei sondaggi tra fiducia relativa a Monti e bocciatura del suo governo, l’esecutivo tecnico ha significato più tasse, nessuna cessione di attivo pubblico per abbattere il debito, nessun taglio di spesa che sia stato retrocesso ai contribuenti per far risalire la crescita potenziale, nessuna eliminazione di monopoli e privilegi. Se la discontinuità è mancata perché mancava il consenso popolare e per colpa dei partiti, come sostengono molti fautori della conferma di Monti, allora a maggior ragione solo un nuovo patto con gli italiani, che goda del consenso esplicito degli elettori su proposte precise, può produrre il sostegno necessario a invertire la politica economica imboccando la via di una profonda ridefinizione dello Stato e di ciò che occupa impropriamente, sia centralmente che nelle Autonomie. Questo è ciò che Fermare il Declino propone e che Pdl, Pd e Udc negano a priori.
  • La terza questione riguarda invece il dibattito sotteso al formarsi di un “partito-Monti”. La conferma sarebbe dovuta alla perdita di sovranità dell’Italia, alle clausole condizionali per gli aiuti europei, implicite anche nello stesso programma straordinario di ripresa di acquisti dei titoli eurodeboli recentemente varato dalla BCE. In altre parole, il governo italiano si decide a Berlino e a Bruxelles prima e più che nelle urne italiane, stante che il nostro Paese resta il sorvegliato speciale rappresentando il 19% del Pil dell’euroarea. Non sfugge a nessuno che si tratta di una questione molto importante, e con qualche fondamento. Vedremo come andrà tra poco il voto in Olanda, ma anche in quella nazione – per molti versi non nelle nostre penose condizioni di debito e crescita – sembra profilarsi una soluzione di grande coalizione. Proprio chi ritiene di avere una ricetta per ridare forza all’economia italiana e credibilità alla sua finanza pubblica, deve battersi perché l’elettorato comprenda che questa prospettiva esiste e che è nelle sue mani. Altrimenti, anche da noi prenderanno sempre più piede revanscismi e populismi nazionalisti, come quelli che sembrano alla base del sovranismo nazionale indicato da Giulio Tremonti come base di una sua eventuale lista elettorale.

Infine, il terzo evento che ha alimentato le cronache politiche è stato il convegno di Chianciano, dell’Udc di Pierferdinando Casini. L’intervento di Emma Marcegaglia ha fatto scrivere a molti che la Lista Italia di Casini sarebbe a questo punto già l’inveramento della nuova offerta politica per le prossime lezioni. Noi non la pensiamo affatto così. Abbiamo per questo risposto con un comunicato stampa inequivoco, che qui vi riportiamo:

“A proposito degli accostamenti che sono stati fatti tra l’iniziativa di Fermare il declino e le scelte prese dall’Udc a Chianciano, sottolineiamo che per noi sono dirimenti quattro questioni:

1) Un forte rinnovamento della politica, impegni espliciti nei meccanismi di selezione della classe dirigente, vincoli per i quali non si possa dire una cosa a Roma e una Palermo;
2) Un energico mutamento nella politica economica, con proposte serie per abbattere il debito statale con cessioni pubbliche e retrocedere tagli di spesa in meno imposte a lavoro e impresa, vincolante per noi insieme alle 10 proposte programmatiche che abbiamo presentato;
3) Ridefinire lo Stato, il suo perimetro e le sue mille articolazioni inefficienti, dal socialismo municipale al sottobosco degli enti statali;
4) Cambiare le persone: senza evidenti discontinuità nel ceto politico, non si dà una risposta credibile alla protesta di massa della società italiana.

Su questi quattro punti, l’Udc a Chianciano non ha dato risposte. Continuiamo dunque per la nostra strada. Non c’è molto tempo. Se i partiti credono di affrontare il declino dell’Italia con modesti aggiustamenti, saranno gli elettori a svegliarli”.

Non abbiamo messo in campo la nostra iniziativa per proporre e tanto meno diventare degli indipendenti sotto il simbolo dello scudocrociato, culla di Cuffaro e Lombardo. Se Marcegaglia, Passera e altri la pensano diversamente, questo riguarda loro. Non noi.

Non è affatto detto che da soli avremo, con così poche settimane davanti a noi e con così pochi mezzi esclusivamente frutto di raccolta spontanea, la forza di convincere gli italiani che il cambiamento profondo di cui siamo convinti cammina credibilmente sulle nostre gambe. Ma questo non significa che devieremo dalla chiarezza dei princìpi e delle proposte che abbiamo avanzato.

Fermiamo il declino!

Michele Boldrin, Sandro Brusco, Alessandro De Nicola, Oscar Giannino, Andrea Moro, Carlo Stagnaro, Luigi Zingales

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Banche Borsa Short selling

Il costo del silenzio del mercato.

Il costo del silenzio del mercato.

J.Fussli, Il silenzio.

Devo ancora trovare un esempio in cui una banca solvente sia stata distrutta dalla speculazione al ribasso, mentre posso citare molti esempi di banche insolventi che sono state tenute in vita dall’appoggio e la connivenza con il potere politico.

Ammesso e non concesso che si voglia colpire la speculazione, sarebbe meglio aumentare l’imposta sui guadagni in conto capitale realizzati su un orizzonte temporale brevissimo. Almeno questa misura è simmetrica e penalizza sia la speculazione al ribasso che quella al rialzo.

Banchieri e politici, però, vogliono punire solo la speculazione al ribasso, perché la temono. Insieme alle società di rating (altre nemiche pubbliche), la speculazione al ribasso è l’unica forma di trasmissione di notizie negative. Banchieri e politici possono intimidire o corrompere tutte le altre forme di informazione, non il mercato. Per questo cercano di metterlo a tacere. Purtroppo il costo di questo silenzio è elevato. Senza il mercato oggi il Governo italiano non farebbe nessuno sforzo per ridurre la spesa pubblica. E senza le vendite allo scoperto c’è meno pressione che induca le banche a raccogliere altro capitale e a ridurre il proprio rischio. Quando a chiedere l’aumento di capitale è il regolatore, i banchieri si difendono dicendo che costoro non capiscono le regole del mercato. Ma quando a chiedere l’aumento è il mercato, vanno a difendersi dal regolatore, dicendo che il mercato è irrazionale e sbaglia.

Cambierà qualcosa? L’esperienza ci insegna che il divieto delle vendite allo scoperto non funziona. Nel lungo periodo i titoli che devono scendere scendono. La proibizione serve solo a ritardare di qualche giorno questa discesa, al costo di innervosire il mercato che si domanda quale sarà la prossima manovra per salvare i banchieri a spese di tutti noi.

Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011

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Banche

Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Molti lettori si chiederanno come posso difendere le vendite allo scoperto, come posso considerarle un diritto fondamentale come la libertà di stampa. Non è forse vero che chi vende allo scoperto è un malvagio speculatore?

Ironia vuole che oggi la maggior parte delle vendite allo scoperto su società finanziarie non venga fatta da perfidi speculatori che scommettono sulla caduta dei titoli bancari, ma da altre società finanziarie che si coprono dal rischio di controparte. Immaginiamo per esempio che la banca A si sia coperta dal rischio di un aumento del valore del franco svizzero con un derivato con la banca B, a scadenza fra tre anni. Quando il franco svizzero sale, la banca A si trova ad avere un credito verso la banca B. Se la banca B non versa in buone condizioni finanziarie, la banca A vuole coprirsi dal rischio di non essere in grado di esigere quel credito fra tre anni. Per farlo, A deve comprare un credit default swap su B o vendere allo scoperto le azioni di B, sapendo che se B fallisce perderà il suo credito, ma guadagnerà sulla sua vendita allo scoperto.

Queste vendite allo scoperto, quindi, riflettono la scarsa fiducia che gli operatori finanziari nutrono sulla solvibilità dei loro colleghi. Ciascuno millanta in pubblico la propria solidità, ma dubita in privato di quella altrui. La proibizione delle vendite allo scoperto altro non è che una iniziativa collusiva per mettersi d’accordo e non rivelare al pubblico le paure che gli uni nutrono sugli altri. Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Luigi Zingales, IL Sole 24 Ore, 13 agosto 2011

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Banche USA

Modello cinese.

Modello cinese.

In un appello al Paese, alcuni banchieri e finanzieri italiani hanno già richiesto il divieto della diffusione dei rating sui prodotti finanziari. I prossimi passi saranno la “temporanea” sospensione dell’obbligo di presentare un bilancio e la censura su tutte le notizie negative? Qualsiasi critica alle banche sarà considerata un reato di lesa maestà, punito con la reclusione da uno a cinque anni. E siccome è stato dimostrato che le Borse scendono quando a New York il tempo è brutto, sarà impedito ai giornali di riportare le condizioni atmosferiche e le previsioni sul tempo nella Grande Mela. Di fronte alla crisi del modello americano, i nostri banchieri e politici sposano il modello cinese: censura e repressione.

Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011

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Banche BCE Germania

Movements.

Movements.

(..) The latest measures still involve two massive transfers of wealth. The first is from German taxpayers to those of southern Europe. If the aim is to destroy the idea of Europe for a generation, we could do no better. The resentment of German taxpayers will weigh on the continent for decades. To get a sense of the reaction, consider that Italy was unified 150 years ago, yet even small transfers of taxpayer money from the Treasury to the south of the country prompt the Northern League political party to call for secession.

The second movement of funds in the European rescue is from taxpayers to banks. The 2008 bailouts of the financial industry generated enough populist anger. This time, we may face a revolt.

Even putting aside political considerations, the current plan has big economic drawbacks, which can be summarized in two words: moral hazard. Most policy makers, and many economists, think that when a house is on fire, you first extinguish the flames, and then you catch the arsonists. But if you put out the blaze in a way that makes it impossible to catch the arsonists, you are almost certain to have a lot more fires later.

Roberto Perotti, Luigi Zingales

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Economisti Educazione Sviluppo Università USA

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate 3).

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate 3).



La tesi di Zingales, esposta nell’articolo di cui si è detto, collega dunque le conclusioni del lavoro di Tabellini, alle quali si rimanda nella loro interezza, alla diversità tra Italia e USA, emerse, secondo il professore di Chicago, dalla vicenda dell’ex-direttore del Fmi, Strauss-Kahn. E’ interessante, tuttavia, leggere le conclusioni di Tabellini, che non dimostrano affatto quanto affermato da Zingales. In particolare “(..) two sets of cultural traits appear to be favourable to economic development. The first trait resembles what earlier studies have called “social capital”, and is captured by  the variables trust (having trust in other people) and respect (appreciating the virtue of  being respectful of others in children). The second trait can be interpreted as confidence  in the individual, and is captured by the variable control (feeling in control of one’s life)
and, in a negative sense, by the variable obedience (appreciating obedience in one’s own  children). These cultural traits can influence economic development directly, or indirectly  through the functioning of current institutions. Preliminary evidence on Italy suggests  that the second (institutional) channel might be dominant. But the precise interpretation  of these cultural indicators is difficult, and way in which they influence economic  development remains to be studied in greater detail. As treated in this paper, “culture” is  still largely a black box. Much more work is needed at a microeconomic level to  understand which features of individual beliefs and social norms are economically  relevant, how they are formed and transmitted over time, how they interact with the  economic and the institutional environment. The empirical results of this paper suggest  that such a research effort could have high payoffs.

Dunque l’interpretazione precisa degli indicatori culturali proposti dal prof.Tabellini è difficile e la maniera attraverso cui essi influenzano lo sviluppo economico rimane materia di studio ed approfondimento. La cultura è una scatola nera. Si comprende l’apprezzamento del prof.Zingales per i valori di un sistema educativo e culturale che ha saputo accogliere, in maniera così intelligente, il lavoro di un grande economista italiano. Quello invece che non si capisce, dopo aver letto le conclusioni del paper di Tabellini, è il riferimento all’obbedienza (ammesso che, nel sistema educativo italiano, di obbedienza si possa ancora parlare) come disvalore in chiave di sviluppo economico. Forse dovremmo provare a capire cosa intendiamo per obbedienza e per educazione; e provare a ripensare, in chiave critica, su cosa poggia l’educazione e quale sia l’architrave che sostiene il sistema scolastico ed universitario nel nostro Paese.

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don Giussani Economisti Educazione Sviluppo Università USA

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate 2).

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate 2).


Obedience: percentage of respondents that mention “obedience” as being important (the other qualities in the list being: “good manners; independence; tolerance and respect for others; hard work; feeling of responsibility; imagination; thrift, saving money and things; determination and perseverance; religious faith; unselfishness”) to the question: “Here is a list of qualities that children can be encouraged to learn at home. Which, if any, do you consider to be especially important? Please choose up to five”. Source: World Value Surveys, Inglehart et al. (2000). (Guido Tabellini Culture and institutions: economic development in the regions of Europe, 06/2010, Journal of the European Economic Association)

L’obbedienza, valore scelto in un elenco che comprende “le buone maniere”, l’indipendenza, la tolleranza, il senso di responsabilità, la fede religiosa e gli altri compresi nella lista di cui sopra, non viene ritenuto da  Luigi Zingales un fattore di sviluppo, bensì un freno per lo stesso. In effetti Zingales sostiene che l’obbedienza all’autorità, così come egli l’ha sperimentata nel nostro Paese, risulta limitativa della personalità e del suo sviluppo, rispetto, per esempio, all’esperienza americana.

Ma che cos’è l’autorità? Provo a farmi aiutare dalle parole di un grande educatore, don Giussani.

I punti in cui la tradizione è più cosciente sono i responsabili ultimi dell’educazione dell’adolescente, il «luogo dell’ipotesi» per lui. È questo il concetto autentico di autorità (auctoritas, «ciò che fa crescere»).
L’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice,
ci genera novità, stupore, rispetto. C’è in essa un’attrattiva inevitabile, e in noi una inevitabile soggezione. L’esperienza dell’autorità richiama infatti l’esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi «discepoli». Ma se nell’adulto questa autorità è riconosciuta e scelta dalla matura responsabilità di un confronto, nelle età precedenti essa è fissata dalla natura stessa nella «realtà originatrice» dell’individuo. La genuina rivelazione della vita e la genuina verità stanno nello sviluppo della dipendenza da questa realtà «autorevole». (Luigi Giussani, Il rischio educativo)


Dunque l’autorità, e l’obbedienza alle ipotesi che essa propone quali linee di introduzione alla realtà può essere qualcosa di diverso da un limite, anzi, addirittura può essere qualcosa che fa crescere. E di questa diversità potrei raccontare di avere fatto esperienza diretta, per esempio con i miei studenti.

Ancora don Giussani: “Per quanto abbiamo detto, l’autorità è l’espressione concreta della ipotesi di lavoro, è quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi dà; l’autorità è l’espressione della convivenza in cui si origina la mia esistenza. L’autorità in un certo modo è il mio «io» più vero. Spesso invece oggi l’autorità si propone ed è sentita come qualcosa di estraneo, che «si aggiunge» all’individuo. L’autorità resta fuori della coscienza, anche se magari è un limite devotamente accettato. La funzione educatrice di una vera autorità si configura precisamente come «funzione di coerenza»: una continuità di richiamo ai valori ultimi e all’impegno della coscienza con essi; un permanente criterio di giudizio su tutta la realtà; una salvaguardia stabile del nesso sempre nuovo tra i mutevoli atteggiamenti del giovane e il senso ultimo totale della realtà. Dall’esperienza dell’autorità nasce quella della coerenza. Coerenza è stabilità efficiente nel tempo, è continuità di vita. In un fenomeno pazientemente evolutivo come quello dell’«introduzione alla realtà totale», la coerenza è fattore indispensabile. Una certezza originaria che non potesse continuare a riproporsi nella coerenza di una evoluzione, finirebbe con l’essere sentita astratta, un dato fatalmente subito, ma non vitalmente sviluppato. Senza la compagnia di una vera autorità ogni «ipotesi» rimarrebbe tale (..).

E se l’autorità e l’obbedienza fossero non fattori di freno ma di sviluppo? Ovvero, se il problema che pone Zingales non risiedesse nellobbedienza in quanto tale e neppure nell’autorità, quanto piuttosto nell’educazione? Prima di rispondere vale la pena, nel prossimo post, di ragionare sulle conclusioni della ricerca del prof.Tabellini, dal quale Zingales ha tratto spunto.


(segue)

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Economisti Educazione Sviluppo Università USA

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate).

Questione educativa e sviluppo (de auctoritate).


Un articolo di Luigi Zingales sul Sole 24 Ore di oggi pone in discussione la questione dell’educazione e dello sviluppo. Richiamandosi alla vicenda del Direttore del FMI, Dominique Strauss-Kahn e ad un contributo  del Rettore della Bocconi, prof.Guido Tabellini, Zingales pone al centro del suo intervento la questione educativa, affermando che “uno degli aspetti più interessanti nel crescere i propri figli in un Paese diverso da quello di origine consiste nello scoprire i diversi valori insegnati a scuola. La scuola non è solo luogo di apprendimento di nozioni, ma anche (insieme alla famiglia) il principale meccanismo con cui una società trasmette i suoi valori ai propri figli.

In Italia uno dei valori che mi fu instillato, tanto a scuola quanto in famiglia, fu l’obbedienza all’autorità. Anche quando l’autorità sbagliava (o io ritenevo che sbagliasse) andava obbedita. Sebbene nessuno dicesse mai che anche i soprusi dell’autorità dovevano essere accettati, questa ne era logica conseguenza in un sistema che scaricava interamente l’onere della prova sullo studente. Uno studente che chiedeva conto a un maestro o a un professore delle sue azioni doveva essere sicuro, oltre ogni limite, della giustezza delle proprie ragioni perché se si sbagliava era immediatamente bollato come arrogante e irriverente e, spesso, punito. Prima di sfidare l’autorità, dovevamo chiederci «ma sei proprio sicuro?». Questo eccesso di zelo si trasformava spesso in sudditanza. Negli Stati Uniti ai miei figli viene insegnato il diritto-dovere di stand up speak out, letteralmente di alzarsi in piedi e alzare la voce per segnalare possibili errori: non solo dei compagni di scuola, ma anche dei professori. Questo non significa insubordinazione, ma diritto di chiedere conto anche ai propri superiori delle loro azioni. Quando poi lo studente sbaglia a protestare, non viene punito, perché è un suo diritto chiedere conto delle azioni del suo superiore. Anzi, viene ringraziato per avere data un’opportunità al superiore di spiegare le proprie ragioni. Probabilmente questo valore deriva dal retaggio della storia americana. I coloni ebbero il coraggio di stand up ai sovrani inglesi e fondarono una nazione in cui nessuno era al disopra della legge. È la differenza tra chi si sente suddito (che viene da sottoposto) e chi si sente cittadino. Questo valore permea la società americana. Chiunque ha il diritto/dovere di denunciare qualsiasi sopruso, anche quando questo sopruso è fatto dall’uomo più potente della terra. È solo così che si può spiegare il Watergate. È solo così che si può spiegare come la denuncia di un’immigrata di colore possa, in poche ore, trascinare in carcere uno degli uomini più potenti della terra: il direttore del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn. (…) A leggere i giornali, non sarebbe la prima volta che Dominique Strauss-Kahn viene accusato di aver commesso violenza su una donna. In un’intervista televisiva una giornalista francese, Tristane Banon, avrebbe dichiarato di essere stata assalita da un politico francese socialista (poi identificato in Strauss-Kahn) nel 2002. Sua madre, una dirigente del Partito socialista, all’epoca l’avrebbe convinta a non sporgere denuncia contro un uomo vicino alla famiglia e alle sue idee politiche. Quindi anche in Francia la denuncia viene scoraggiata.
Queste differenze non hanno un impatto solo sulla tutela dei diritti individuali, ma anche sulla crescita economica. Nelle società evolute le norme civiche di comportamento servono a risolvere importanti problemi di coordinamento. Uno dei maggiori problemi di una società complessa è ridurre i problemi di “agenzia”, ovvero l’uso di un potere delegato a vantaggio del delegato e non del delegante. Il modo più efficiente per monitorare un agente è di farlo controllare dai suoi subordinati. Sono loro che meglio conoscono le sue azioni e le sue motivazioni. Per i subordinati, però, denunciare gli abusi del proprio capo è molto costoso. Il beneficio è un beneficio comune (la società gestita meglio), mentre il costo è personale (le possibili vendette del capo). Quando il beneficio è pubblico e il costo privato, abbiamo quello che in economia si chiama problema di free rider. In presenza di un problema di free rider la teoria economica ci dice che il mercato produce una quantità di monitoraggio sub ottimale. È per questo che norme civiche possono aiutare a risolvere queste inefficienze. Come l’educazione a non inquinare aiuta a ridurre l’inefficienza dovuta al fatto che il costo di non inquinare è privato mentre il beneficio è pubblico, così l’educazione a stand up aiuta a risolvere il problema di free rider nel monitoraggio. Non sorprendentemente, in un ricerca pubblicata di recente Guido Tabellini trova una correlazione tra valori insegnati e crescita economica. Le regioni d’Europa in cui il principio di obbedienza all’autorità è uno dei primi valori insegnati crescono meno. È giunto il momento che anche in Italia si insegni il diritto-dovere di stand up ai don Rodrigo.

Fin qui il prof.Zingales, il cui articolo mi è stato segnalato ieri mattina da uno studente per chiedermi se l’avessi letto e quale fosse il mio pensiero al riguardo. La questione educativa, che qualcuno ha definito emergenza educativa nel nostro Paese, riguarda ognuno di noi, perché quando educhiamo e siamo educati siamo parte di un processo di introduzione alla realtà. Secondo il prof.Zingales, in Italia, i valori che fanno parte del patrimonio insegnato dagli educatori, scuola e famiglia, non consentono una crescita adeguata. Non sono d’accordo su questa tesi. Vale la pena rifletterci e, intanto discutere, in attesa del prossimo post, che seguirà domani, con i riferimenti teorici e le evidenze empiriche dello studio del prof.Tabellini.

(segue)