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Cosa minaccia davvero le banche italiane?

Cosa minaccia davvero le banche italiane?


 

Un articolo del prof.Onado sul Sole 24 Ore di ieri torna sul tema del credito deteriorato, prendendo, fin dal titolo, una chiara posizione, apparentemente assai ragionevole: “L’eccesso di zelo minaccia le banche italiane”.

L’occasione è quella ben nota della (per ora) mancata proroga dei termini di flessibilità accordati alle banche dalla European Banking Authority, scadenti il 30 settembre. Mentre appare certamente condivisibile la preoccupazione dell’Autore, che sottolinea il perdurare della pandemìa e l’attesa per l’adozione di misure, Recovery fund e non solo, che sono di fatto in divenire, appaiono più opinabili le conclusioni alle quali giunge, sicuramente dettate da buon senso e ragionevolezza ma che sembrano dimenticare, nei fatti, un dato di realtà: il credito deteriorato è tale anche se non correttamente classificato, magari con l’avallo delle regole della moratoria.

Al riguardo è bene rammentare che l’EBA ha invitato le banche “a non rinviare l’emersione di perdite altamente probabili” e proprio su questo punto il prof.Onado afferma che, usando tali parole, l’autorità di vigilanza Europea implicitamente ammette che, cito, “l’eccesso di severità è un’arma a doppio taglio, che può penalizzare indebitamente famiglie e imprese e lascia opportuni margini di discreziona-lità“.

I lettori minimamente addentro ai segreti del “bancariese” e ai cosiddetti Orientamenti dell’EBA (che sono in realtà vere e proprie prescrizioni alle quali ci si deve adeguare) sanno bene che l’EBA utilizza sempre il condizionale mentre rilascia i propri, appunto,  Orientamenti, usando fino in fondo un potere che è sì di prescrizione ma è anche di moral suasion. Ne ho già parlato in questo blog in altre occasioni, ma il tema delle inadempienze probabili (UTP) e degli sconfinamenti ed esposizioni scadute non aspetta le moratorie per manifestare fino in fondo gli effetti devastanti della crisi da Covid-19. In altre parole, non chiedersi che ne sarà di un certo numero (purtroppo elevato) di imprese, spesso piccole e piccolissime, destinate a fallire non appena cesseranno il divieto di licenziare e l’erogazione perinde ad cadaver della CIG, significa chiudere gli occhi mentre si sta andando a sbattere.

D’altra parte Marco Onado ha ragioni da vendere quando afferma che assimilare inadempienze probabili, sconfinamenti ed esposizioni scadute “svilisce il contributo che il banchiere può dare” nel risolvere i problemi delle imprese in difficoltà. La questione vera però è: in che modo? Con quali carte alla mano? Su quali piani, progetti, business plan? Su quelli che finora quasi nessuno ha portato (ma anche quasi nessuno ha chiesto e continua a non chiedere)?

Ovvero, è peggio la cecità di chi affida imprese di cui neppure conosce bene i conti a consuntivo -e figuriamoci a preventivo- oppure quella che, per dirla con Giorgio Gaber, fa “fingere di essere sani“?

Conosciamo gli effetti delle moratorie e dei rinvii, lo abbiamo sperimentato con la crisi scoppiata nel 2008: si allungano le scadenze ma non si mette mano al business model, alla formula competitiva, al conto economico: è già successo allora, rischia di riaccadere anche oggi, e non possiamo dimenticare che è proprio per questo atteggiamento che è nata e cresciuta a dismisura la montagna di credito deteriorato di cui ci stavamo faticosamente liberando.

Infine, se posso permettermi di chiosare (e solo quello: extra ecclesiam nulla salus e Marco Onado è per me un punto fermo e un riferimento costante) l’Autore: il mestiere del banchiere si rivaluta fino in fondo certamente con un atteggiamento elastico e attento di tutti i decisori, prima di tutto quelli politici, come il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini ha fatto ben capire. Ma la diligenza che occorre in questo momento nel valutare il merito di credito richiede straordinarie capacità di intelligenza della situazione, anche in termini evolutivi: pensare che questo possa accadere lasciando che tutto prosegua come se nulla fosse, mi pare perlomeno irrealistico.

C’è da lavorare, e molto, ancora una volta, sul tema delle relazioni di clientela.

 

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Banche Borsa

Superborse.

Superborse.

Marco Onado, a proposito di superborse, ci ricorda che “rinunciando sia al modello anglosassone della borsa come “club” gestito dagli utenti, sia a quello europeo-continentale della borsa pubblica, abbiamo creato delle società che agiscono soprattutto per la massimizzazione del loro profitto: abbiamo fatto uscire il genio della bottiglia e forse non è più possibile farlo rientrare. Dobbiamo però essere consapevoli che gli interessi degli azionisti non sono più così coincidenti con quelli delle imprese e degli investitori.” E, inoltre,  “la disciplina fondamentale, sia degli emittenti sia di tutela degli investitori rimane radicata a livello nazionale: si pensi solo alla sorveglianza giorno per giorno sulla regolarità degli scambi per monitorare eventuali fenomeni di manipolazione e insider trading. Non è allora opportuno ripensare anche al bilanciamento delle responsabilità fra società mercato e autorità pubbliche? La Consob ha posto più volte con forza il problema dell’ammissione al listino, ma ormai è tempo di un’analisi completa e critica.
Insomma, prima di festeggiare l’ennesima fusione, dovremmo riflettere sugli interessi veri in gioco: quelli degli emittenti di titoli e quelli degli investitori.

La fusione è stata sicuramente festeggiata dagli emittenti, che per bocca di Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, ne salutano l’avvento perché, nella realtà, la Mifid anzichè incrementare la concorrenza, ha favorito le concentrazioni e dunque le fusioni portano economie di scala e di scopo. Parlare, come fa Micossi, di post-trading, oltre a certificare il fallimento della Mifid, significa ammettere che la privatizzazione della Borsa è stata un affare per le banche che l’hanno gestita, come di consueto con il braccino corto. Ascoltare gli emittenti che parlano di eccesso di de-regolamentazione fa un certo effetto, leggere che la Consob dovrebbe avere di nuovo l’ultima parola sulle quotazioni fa, per certi versi, sorridere. Più in generale, però, fa pensare che nessuno, sia la sempre più inutile commissione europea a livello continentale, sia la Consob stessa a livello nazionale, abbia la più pallida idea di cosa fare in chiave strategica e di progettualità. In assenza di idee, contano i denari, e quelli, a quanto pare, ci sono, al di là ed al di qua dell’Atlantico.

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ABI Banche Crisi finanziaria Germania UBS Vigilanza bancaria

Banchieri coraggiosi.

 

Joseph Ackermann, CEO di Deutsche Bank

 

Con il consueto garbo Marco Onado elimina in un solo colpo, mostrandone la miseria, gli argomenti di tutti coloro, banchieri in primis, che temono l’avvento di Basilea 3 come funesto giro di vite sul credito alle imprese. Attraverso l’esempio della Svizzera, che ha imposto alle sue due principali banche (il cui attivo è pari a 4 volte il PIL del Paese) requisiti di capitale ancora più stringenti e di Deutsche Bank, che ha condotto a termine l’aumento di capitale più elevato della storia della banca, per 10,2 miliardi di euro, Onado fa riflettere sulla reale consistenza delle preoccupazioni delle Fondazioni, delle banche e delle associazioni di categoria, ribadite due giorni fa anche dal presidente dell’ABI, Giuseppe Mussari, che dalle Fondazioni viene e che ne conosce bene la lunghezza di vedute. Mettere più capitale vuol dire incrementare il capitale reputazionale, vuole dire fare crescere l’affidabilità di una banca che, da posizioni di partenza più solide, non potrà che vedersi ridotto il costo della raccolta. Resta la soluzione che tutti paventano, perché è quella più comoda ed è quella che si è verificata con Basilea 2: ovvero, anzichè aumentare il capitale, ridurre l’attivo e dunque rischi e prestiti. A quanto pare, invece, si può essere più seri e coraggiosi, come insegnano svizzeri e tedeschi, senza strozzare l’economia.

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Banche Bolla immobiliare Economisti Regno Unito USA Vigilanza bancaria

Alibi

(..) Per l’autorità che controlla il mercato, lo speculatore è un operatore come un altro e viene colpito (o dovrebbe essere colpito) solo se manipola il processo di formazione dei prezzi.

La grande variabilità dei prezzi è determinata anche dallo squilibrio fra le quantità trattate sui mercati e la produzione effettiva e questo squilibrio può addirittura essere accentuato dall’esistenza di un mercato regolamentato ed efficiente, come è dimostrato dal fatto che in poche ore a New York oggi si contrattano più barili di petrolio di quanti vengano materialmente prodotti in un intero anno.

(..) qual è la causa ultima della variabilità eccessiva di certi prezzi, cioè chi fornisce le armi agli speculatori? Qui non ci sono dubbi: da almeno due decenni, si è creata un’enorme liquidità che di volta in volta si scarica su vari mercati. Prima le azioni, poi gli immobili, poi titoli di paesi sovrani, ma anche il petrolio, il grano e qualunque asset o bene che sia in grado di assicurare rendimenti di breve periodo elevati. E come è noto questo eccesso di liquidità non solo non è stato riassorbito, ma è stato ulteriormente dilatato dalle politiche monetarie ultra-accomodanti che si sono rese necessarie per salvare il sistema finanziario mondiale dal disastro.

Ritornare a condizioni vagamente normali richiede tempi lunghi, che si dilatano quanto più si allontanano le prospettive di riforma sostanziale del sistema finanziario. Basti pensare al rinvio (non a caso festeggiato sui mercati come la vittoria di un mondiale di calcio) dell’introduzione di limiti all’indebitamento complessivo delle banche, che avrebbe potuto favorire un ridimensionamento dei grandi intermediari e dunque anche della loro capacità di alimentare direttamente o indirettamente eccessi speculativi di ogni sorta. Oppure, come accade nel Regno Unito, si proclama l’obiettivo ambizioso di riportare il sistema bancario al ruolo d’infrastruttura al servizio della produzione e degli investimenti, e si formulano proposte tanto coraggiose quanto d’improbabile attuazione. In questo quadro, gli speculatori non sono i veri colpevoli: sono uno splendido alibi.

Marco Onado, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2010

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Banche Liquidità Ripresa Rischi Vigilanza bancaria

Aumentare il patrimonio non minaccia la ripresa.

Il prof.Marco Onado

(..) La conseguenza, e qui sta l’indicazione di policy più importante, è che aumentare il patrimonio e migliorare la liquidità delle banche (cioè procedere spediti per realizzare Basilea-3) non solo non minaccia la ripresa, ma è condizione essenziale per una crescita mondiale sostenibile. Una serie di esercizi di simulazione dimostra come un maggior livello di patrimonio potrebbe ridurre lo spread che oggi i mercati chiedono per finanziare le banche e dunque compensare i maggiori costi per la ricapitalizzazione. Non solo. Se le banche attuassero processi di ristrutturazione più severi, riducendo i costi operativi (e i livelli di remunerazione) come hanno fatto tutti i settori produttivi che hanno attraversato crisi strutturali, si potrebbero realizzare condizioni di redditività migliori di quelle passate e si potrebbe aumentare il credito al settore produttivo, come aveva già mostrato un altro esercizio condotto dalla Bank of England nel recente Financial Stability Report.
È la risposta più convincente ai banchieri che si stracciano le vesti sostenendo che le nuove misure prudenziali avrebbero effetti disastrosi sulla redditività e sull’offerta di credito. Dunque la riforma non deve affatto essere rimandata a tempi migliori: come per il rigore fiscale, si può e si deve cominciare subito, anche se ovviamente con la dovuta gradualità.(..)

Marco Onado, Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2010

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Banche Vigilanza bancaria

RROE: regulated return on equity

(..) In attesa della revisione di Basilea per gestire meglio i rischi di mercato e di liquidità, occorre che tutti i regolatori, a cominciare da quelli che prima e durante la crisi si sono dimostrati troppo indulgenti, applichino le vecchie norme con maggior severità ed entrino veramente nel merito dell’analisi delle condizioni delle singole banche, per accertare che davvero siano rispettati i principi della «sana e prudente gestione», scolpiti nel bronzo di tutte le leggi bancarie e applicate nel modo che abbiamo tutti visto.

Ma questo richiede alle autorità di vigilanza di applicare le norme con una discrezionalità cui in passato avevano volentieri rinunciato: con qualche eccezione, a cominciare dall’Italia, sono state tollerate politiche estremamente rischiose, che poi si sono tradotte in costi dolorosi per i contribuenti. Se i regolatori (che in molti paesi come la Germania sono distinti dalle banche centrali) non si decideranno ad un giro di vite coordinato sull’applicazione delle regole, vecchie o nuove, gli inviti alla prudenza sono destinati a rimanere inascoltati e i banchieri continueranno a sentirsi legittimati ad assumere rischi finanziari enormi, anche a scapito – come sta accadendo – del credito ai settori produttivi, in nome della massimizzazione dei risultati e della redditività per gli azionisti.

Proprio a questo proposito, il documento (riservato) della Bri propone alle banche di ridurre gli obiettivi in termini di Roe (Return on equity) per contenere la propensione al rischio. Ma chi decide qual è il valore di equilibrio? Non certo i regolatori: un “calmiere” sul Roe è altrettanto demagogico delle tasse punitive sui bonus dei banchieri. I regolatori hanno invece già gli strumenti per entrare nel merito delle politiche che essi considerano non prudenti, come avrebbero dovuto fare, tanto per citare un esempio, con Northern Rock che invece nelle sue relazioni di bilancio citava con orgoglio il «circolo virtuoso» delle sue aggressive politiche di raccolta e di impiego ai fini della massimizzazioni del valore per gli azionisti. E se gli strumenti attuali non bastano, possono introdurre modifiche non particolarmente complesse, come quella proposta proprio di recente dall’ente americano di assicurazione dei depositi (Fdic), che chiede di modulare i premi assicurativi pagati dalle banche alle caratteristiche delle politiche retributive.

Marco Onado, Il Sole 24 Ore

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Banche Giulio Tremonti Imprese Indebitamento delle imprese PMI

L’impatto dello scudo sulla struttura finanziaria delle imprese e sui loro rapporti con le banche.

I dati sull’esito positivo dell’operazione “scudo fiscale” diffusi dal Ministro per l’economia, Giulio Tremonti, sono indubbiamente interessanti, soprattutto per l’ammontare contabilizzato, circa 95 miliardi di euro. Poiché la chiusura, con successo, della prima fase dell’operazione cade in un momento di ampio dibattito sul tema dei rapporti banca-impresa e sulla problematica della sottocapitalizzazione, vale la pena approfondire l’argomento con qualche dato alla mano. Non più tardi di due giorni fa i contributi di Gaetano Miccichè, di Banca Intesa, e del prof.Onado, nell’ambito di un’inchiesta del Sole 24 Ore sull’aumento del peso delle banche nell’impresa -l’articolo è a firma di Laura Galvagni e Marigia Mangano- evidenziavano sia il crescente interventismo degli Istituti di credito, costretti obtorto collo a trasformare crediti in azioni, sia il cronico basso livello di capitalizzazione delle imprese.

In particolare, Galvagni e Mangano spiegano che nel 2009 le banche hanno rilevato azioni per circa 2 miliardi, con riferimento a sette società quotate, fra cui Risanamento. Da qui, anche attraverso dichiarazioni del prof.Dallocchio, una nemmeno troppo velata sponsorizzazione dell’interventismo bancario, sul quale forse varrebbe la pena riflettere.

Ma torniamo allo scudo. Cosa rappresentano, effettivamente, quei 95 miliardi? A cosa li si dovrebbe paragonare?

Attraverso i dati resi pubblici dalla Banca d’Italia sul suo sito, è possibile consultare il Bollettino Statistico, il cui aggiornamento è datato all’indietro di circa 6 mesi ma è comunque significativo. Alla data del 30 giugno il totale del credito per cassa accordato nell’economia italiana, con esclusione della Pubblica Amministrazione, delle imprese finanziarie e delle famiglie produttrici e consumatrici, ammontava a circa 1232 miliardi. Paragonato a tale ammontare l’importo degli interventi effettuati sulle società quotate appare irrisorio (0,16%), così come è irrisorio se paragonato all’ammontare del credito effettivamente utilizzato, pari a 1137 miliardi di euro, per un incidenza percentuale pari allo 0,24%. Dunque non sembra che l’enfasi con la quale sono stati pubblicati le cifre di cui sopra, pur consapevoli che si tratta del solo mercato azionario, possano rappresentare una significativa inversione di tendenza della formula di intermediazione delle nostre banche, protese verso la hausbank di teutonica memoria.

Ben più significativo è il dato dei capitali rientrati in Italia grazie allo “scudo”: naturalmente resta da verificare la praticabilità dell’ipotesi che di questi denari ben il 98% rimanga effettivamente in Italia, ma ipotizziamolo pure, per comodità.

I capitali scudati, in effetti, rappresentano il 7,71% del totale dei fidi accordati per cassa, sempre ai soggetti descritti sopra, l’11,59% del totale utilizzato, ben il 71,08% del totale dei finanziamenti utilizzati per cassa a breve termine. Tale ultimo dato pare particolarmente interessante, perché è riferito agli affidamenti che effettivamente potrebbero essere interessati ad una riduzione, grazie ai capitali dello scudo, ossia quelli a breve termine per cassa, in quanto mediamente più costosi, più volatili ed erogati per fabbisogni che in questo momento mostrano fortissime tensioni (il capitale circolante netto operativo). Sarà interessante capire quanta parte di questi denari -in grado, almeno potenzialmente, di modificare per oltre 2/3 la struttura finanziaria delle imprese italiane- sarà effettivamente utilizzata per ridurre l’indebitamento a breve verso banche o, complici anche i commercialisti, si preferirà continuare nel ricorso disinvolto alla leva finanziaria. Magari dimenticando che non solo un’impresa che riduce il proprio indebitamento è percepita come meno rischiosa dai finanziatori -che la sostengono più a buon mercato, anche applicando i “vecchi” rating di Basilea 2- ma anche che si verificherebbe una riduzione della componente più redditizia degli impieghi bancari, quelli economici verso le imprese. Costringendo le nostre banche, la cui formula di intermediazione si basa ancora prevalentemente sul margine di interesse, a rifare i conti per non ritrovarsi con le sgradite sorprese provocate da un concorrente inatteso, il capitale di rischio.

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Banca d'Italia Banche BCE Consob Crisi finanziaria Vigilanza bancaria

Vigilanza europea (?).

Marco Onado, con un bell’articolo sul Sole 24 Ore di sabato 5 dicembre pone in evidenza due problemi, per dir così, esistenziali, nella definizione di un sistema di vigilanza europeo:

  1. la definizione stessa di banca (sic);
  2. quali siano le componenti del capitale bancario.

Onado, nel rimarcare che durante la crisi è completamente mancato il coordinamento fra le autorità di vigilanza -come da caso Fortis, smembrata in tre parti suddivise secondo la nazione salvatrice-, sottolinea l’importanza di seguire le raccomandazioni contenute nel rapporto Larosière su due punti, quello di trasformare in autorità europee le singole autorità nazionali, ovvero i Comitati europei di vigilanza micro-prudenziale in vere e proprie Autorità europee e quello di adottare il modello tedesco quando prevede la suddivisione delle autorities in base al criterio funzionale, ovvero banche, mercati e assicurazioni.

Commentare Onado da parte del sottoscritto sarebbe come chiosare Ratzinger per un prete di campagna, dunque non oso.

Rilevo solo che il sistema funzionale, è in uso sicuramente in Germania, ma lo è anche da noi: e visto l’andamento della crisi in Italia, forse non funziona tanto male.

Quanto ai due interrogativi esistenziali, io mi concentrerei soprattutto su quello riguardante il capitale, privilegiando le componenti di cassa e di capitale, lasciando ai margini gli strumenti ibridi e tutto ciò che non è cassa. Perché la storia della crisi, fra le altre cose, conferma l’insegnamento di Cino Ripani, ovvero che “la cassa è realtà.”

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Banca d'Italia Banche Imprese Indebitamento delle imprese PMI Sud Sviluppo

La Banca per il Sud 2

Marco Onado, commentando la presentazione di uno studio della Banca d’Italia sulla situazione dell’economia del Mezzogiorno, riporta l’attenzione, sia pure indirettamente, sulla questione “Banca per il Sud”, l’idea del Ministro Tremonti al momento attuale uscita, tuttavia, dall’agenda politica. La lettura dell’articolo è interessante, così come l’analisi della Banca d’Italia, che attribuisce il differenziale dei tassi rispetto al Nord del nostro Paese anche al peso della criminalità ed alla diffusa corruzione, oltre che al clientelismo.

Senza uscire dal seminato, dal momento che le Pmi italiane sono anche al Sud, si potrebbe ricordare che l’opacità e la mancanza di trasparenza nuocciono non solo alle imprese del Sud, ma anche a quelle del Nord, impegnate a “resistere” contro la cattiveria bancaria. Ma questo è solo un inciso. L’aspetto interessante, sia dello studio di via Nazionale, sia del commento di Marco Onado, è la lucida messa in evidenza che le banche non sono il motore dello sviluppo, ma che, al contrario, una realtà economica vivace e disposta ad investire nel proprio futuro crea, essa stessa, le banche. Se questo non avviene, forse sarebbe il caso di farsi qualche domanda, sia sulla natura degli (eventuali) incentivi da concedere, sia, soprattutto, su cosa dissuada imprenditori e società civile del Mezzogiorno dal promuovere, motu propriu, una banca. E che i banchi meridionali siano tutti falliti per assistenzialismo qualche riflessione dovrà pure indurla.