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Banche Borsa Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

A saldi invariati.

A saldi invariati.

Accade che per lavoro, che grazie a Dio non manca di questi tempi, io sia invitato a parlare di project bond e di possibilità per le Pmi organizzate sotto forma di srl, di emettere propri titoli di debito. Accade dunque che io debba studiare e prepararmi, anche grazie ad un’ottima collaboratrice che ha predisposto il materiale,  su un argomento che il Governo Monti ha inserito, tra l’altro, nel “Cresci-Italia”, sbandierando il provvedimento come possibilità di apertura al mercato dei capitali.

La lettura della normativa è stata deprimente, l’esposizione in aula, nonostante tutto, altrettanto triste (qualche partecipante, man mano che ci si inoltrava nella trattazione, chiedeva, letteralmente, un “colpo di scena“). Finanziarsi attraverso propri titoli di debito conviene, ai tassi che le normativa consente ai fini delle deducibilità degli interessi passivi dal reddito dealla società emittente, solo per elevatissimi ammontari di emissione: la ritenuta alla fonte in misura ridotta si applica solo se il tasso dell’emissione è pari all’1,25% (sic). La ratio del provvedimento è fin troppo chiara: mantenere invariata la pressione fiscale, senza agevolazioni sostanziali, ma solo formali, che servano politicamente ma che siano innocue ai fini, appunto, dei saldi di bilancio. Ma poiché i mercati non ragionano a saldi invariati ma in base alle convenienze della combinazione rischio-rendimento, per quale ragione i mercati medesimi dovrebbero “digerire” emissioni di titoli di debito privi di rating, emessi da soggetti “corporate” le cui performance, probabilmente, richiederebbero tassi di finanziamento ben più elevati? La constatazione, assai desolante, che si trae dall’esame di tutta la normativa, è che avrebbero convenienza ad indebitarsi emettendo propri strumenti di debito proprio i cattivi prenditori: che tuttavia, come è noto, sono razionati. D’altra parte, perché gli azionisti di un buon prenditore dovrebbero scegliere di indebitare la propria società attraverso un sistema così bizantino, anziché andare direttamente sul mercato? Ultima domanda, per la quale il Presidente Monti ed il ministro Passera hanno sicuramente una risposta che non possono, politicamente, condividere in pubblico: l’apertura al mercato dei capitali delle Pmi quanto dipende, davvero, da strumenti innovativi e non, piuttosto, dalla sempre scarsa voglia delle Pmi di farsi “scrutinare” dal mercato?

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Alessandro Berti Crisi finanziaria don Giussani Educazione

Twittando dal #meeting 2012.

Twittando dal #meeting 2012.

L’incontro inaugurale del Meeting 2012 lo trovate qua su YouTube.

e non serve che io aggiunga nulla. Fare il volontario nel settore dove lo faccio io consente di partecipare agli incontri, almeno a quelli dove vanno coloro che accompagni o quelli dove serve che tu aiuti; e così è stato. Mi ha colpito, per l’impeto di libertà e per la domanda che pone alla politica ciò che ha detto Giorgio Vittadini, invocando libertà di educazione, di impresa, di iniziativa, in tutti i settori. E mi ha colpito, anche se ho fatto l’università con lui e lo conosco da trent’anni, il suo voler costruire, il suo essere positivo, il suo porre in risalto tutto ciò che di buono sappiamo fare, abbiamo fatto e possiamo fare. Così invito a vedere la Mostra sui giovani da lui curata, e di cui ha parlato il Sole 24 Ore qualche giorno fa.

Il Presidente del Consiglio, con il suo linguaggio, ha detto cose che servono a costruire, decodificando, anche in chiave culturale, il momento attuale e vedendo l’uscita alla fine del tunnel: può non piacere ciò che ha detto, ma l’uomo c’è tutto, ed è sul pezzo. Ed ha fatto cose che né il Presidente del Milan, né il suo ineffabile Ministro dell’Economia, che aveva parlato lo scorso anno, si sono mai sognati di fare. Anyway, il discorso è lì, su YouTube.

Mi ha colpito, infine, anche la violenza esarcebata di molti, mai sentiti né visti prima, che su twitter, reagendo, hanno scritto cose tristi non tanto per il contenuto, né per il linguaggio, ma perché mostravano solo chiusura e pregiudizio. Nella migliore delle ipotesi, molto moralismo, un’etica del tutto distaccata dalla realtà. La cosa migliore da fare, in tutti i sensi, è invitarli al Meeting: venire a vedere perché valga la pena impegnarsi (e spendere, tempo, denaro, ferie) per fare il volontario. Testimoniando quell’inesorabile positività del reale che don Giussani ci ha insegnato. Se qualcuno vuole venire, mi cerchi, qua o su twitter: sarei felice di incontrarlo.

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Economisti Felicità fiducia Formazione Giulio Tremonti Silvio Berlusconi Università

Professori e narrazioni.

Professori e narrazioni.

In un articolo del 16 giugno linkiesta.it titolava che “Col potere ai professori venne l’inverno della nostra civiltà“.  Qualcuno mi ha chiesto cosa ne pensassi, a quel qualcuno, così paziente, rispondo solo ora; non senza aver riflettuto, per l’ennesima volta sul lavoro di chi, come me, fa appunto il professore e dunque, secondo la vulgata (il magazziniere riminese Mario C. ne è il dimenticabile esempio), insegna perché non sa.

L’articolo di linkiesta.it è di Giulio Sapelli, professore anch’egli, di ben altro spessore rispetto al sottoscritto e non mi permetto di chiosarlo. Ma come sempre nei giornali, anche in quelli on line, contano gli articoli e, spesso, anche -se non di più- i titolisti. Del Governo Monti, che avevo tentato di esorcizzare nella sua vicinanza al mio portafoglio ed alla mia vita ho apprezzato in seguito la riforma delle pensioni ed il modo con cui è stata fatta: e la ministra Fornero è, personalmente, nella top list delle donne italiane che non solo contano, ma che fanno (ed è professoressa). Ciò che non ho apprezzato è stato il seguito, ovvero un’inconcludente concertazione, il mancato uso della forza (quella che impone di fare certe cose, costi quel che costi), i carabinieri come messi del Consiglio dei Ministri. Ma tant’è. Con il governo dei professori venne l’inverno della nostra civiltà: quale, di grazia? Quella di palazzo Grazioli? La civiltà del sorriso che raccontava un mondo neppure da sognare, un mondo già presente, dove i ristoranti erano pieni etc…un’estate fa. Perché nessuno ha titolato, il 3 agosto del 2011 per esempio, quando il Governo Berlusconi prese in giro le Camere ed il Paese con un passaggio parlamentare ignobilmente vile e ignavo, che quel governo aveva fatto scendere il buio sulla nostra civiltà?

La risposta a questo enigma, quello per cui se un governo di inetti politici non fa nulla, se non leggi ad personam, nonostante sia dotato di una maggioranza bulgara, nessuno parla di tristezza, mentre se un governo di professori (certo, con molti distinguo: Martone, Ornaghi, Ugolini, non pervenuti, Patroni-Griffi vetero sindacalista del pubblico impiego etc…) fa la riforma delle pensioni, ovvero la riforma per la quale dovremmo ringraziare Fornero e Monti medesimo vita natural durante, allora siamo tutti più tristi, la risposta a tutto questo è nella narrazione. Ovvero nella condivisione che diventa pubblica, patrimonio comune (anche luogo comune, nel vero senso della parola) di un giudizio sulla realtà, che ci riguarda, che riguarda coloro che ascoltano. Il Governo di B. era scollegato dalla realtà, ma ha saputo narrare, senza giudicare la realtà, anzi, rifuggendovi. Ha blandito il popolo senza metterlo di fronte a nulla, a nessuna responsabilità, raccontando le menzogne di chi non metteva le mani nelle tasche degli italiani, pur facendolo. Il Governo Monti, che pure ha saputo mettere, ed in che modo (!), le mani nei nostri portafogli, non è mai uscito dal binario di una narrazione seria e realista. Che gli editorialisti di Libero o del Giornale, che gli on.li Alfano, Lupi, Cicchitto, Verdini non la vogliano ascoltare, non ha importanza: quella è la situazione, quella è la narrazione.

Siamo in dirittura. Ma per finire si deve, appunto, parlare di professori e di inverno della civiltà. Insegno tecnica bancaria, parlo di merito di credito, parlo di come si valutano le aziende, lo faccio da quasi 30 anni, in università e nelle banche. Ricordo perfettamente quando venni messo alla porta da una grossa società torinese che organizzava congressi con la motivazione “Lei è troppo severo, la gente viene per essere tranquillizzata e blandita”. La narrazione era troppo realista, non andava bene. Io ho continuato, invece, a narrare le imprese ed i loro rapporti con le banche ed in tutti questi anni, anche nelle ultime settimane, il riconoscimento maggiore non è mai stato lo stipendio o una parcella: sono state le facce, le mail, le strette di mano, l’amicizia, di tutti coloro ai quali sono state date ragioni, strumenti, metodi. Forse dovremmo chiederlo al Governo Monti, di studiare narrazione. Ma nessuno può decidere al posto nostro se stare, oppure no, di fronte alla realtà: secondo la totalità dei suoi fattori.

P.S.: nonostante l’essere tacciato di buonismo, JM questa sera tifa Grecia, indefettibilmente. Così come a Istanbul il 25 maggio 2005 tifava Liverpool. Con buona pace di tutti.

 

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Banche BCE Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Banco ex machina.

Banco ex machina.

Come nelle tragedie greche si aspetta l’intervento finale del deus ex machina, cioè di una divinità che interviene a dipanare una matassa ingarbugliata al punto tale da poter essere sbrogliata solo da mani “superiori”, così anche nella travagliata storia tutta italiana del rapporto tra banche ed imprese si invoca un intervento dall’alto. Sia esso della BCE, sia esso del Governo, sia la c.d. “frustata sviluppista” per la quale servirebbe un domatore (o un negriero? o un sadico?), nessuna delle parti ci mette il suo: le imprese chiuse nella litania dell’ abbiamo già dato, le banche che negano l’evidenza del credit crunch e che, soprattutto, sono illiquide. Venerdì scorso, durante una giornata di formazione sugli aspetti di prevenzione del deterioramento dei crediti, man mano che la lezione procedeva i partecipanti continuavano a commentare, in maniera sempre più ampia, gli argomenti trattati. Fino a che, richiesti di giustificare la loro “agitazione” una delle partecipanti mi ha detto:”Non c’è un singolo argomento che lei abbia trattato per il quale io non abbia in mente nomi e cognomi, facce e situazioni dei miei clienti“. E un’altra collega, alla fine della lezione, ha testualmente affermato di essere stanca di ascoltare cose che sa già: e di essere, letteralmente, stanca della realtà.

Così le banche ripetono la stanca litania che non ci sono più soldi, omettendo di ricordare le pessime operazioni fatte nel recente passato, soprattutto per quanto riguarda la bolla immobiliare, che esse hanno contribuito a gonfiare a dismisura. E le imprese lamentano di avere già dato, di non farcela più, di essere strangolate.

Dal dibattito restano lontane le questioni della responsabilità personale, ovvero delle scelte che sono state fatte e che sono da fare. Nelle banche, per quanto riguarda il personale tecnico ma, a questo punto, anche quello direttivo e, soprattutto nelle bcc, gli amministratori, la capacità di misurare correttamente il rischio di credito e di conseguenza il fabbisogno finanziario delle imprese. Per queste ultime, la questione delle carenze in materia gestionale e finanziaria, la mancanza di consapevolezza circa natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario, la mancanza di coscienza circa le leve da azionare. Non ci si può parlare se non ci si sa raccontare: e ascoltare senza capire, non serve a nulla.

Nessuna banca può rimediare un conto economico con il risultato operativo che segna rosso: nessuna banca può licenziare per te, esportare per te, innovare per te. Devi farlo tu. Ma nessuna impresa può fare il mestiere della banca, istruttorie chiare, efficaci ed efficienti. La questione non è appena tecnica, perchè riguarda la posizione umana, anche sul lavoro, fare impresa o banca che sia. La questione, al solito, è educativa.

 

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Crisi finanziaria PMI Ripresa

Lo schema Ponzi del bagnino re-load.

Lo schema Ponzi del bagnino re-load.

Alcune chiacchiere domenicali mi inducono a ripubblicare, in forma ampliata per favorire la comprensione, un breve articolo apparso settimana scorsa su http://www.inter-vista.it. L’articolo in questione, occupandosi degli effetti delle liberalizzazioni sul mercato turistico riminese, segnatamente quello del prezzo delle concessioni demaniali, giungeva a conclusioni “obbligate” a partire da una constatazione realistica ed oggettiva: l’evasione fiscale è la cornice obbligata delle cifre e dei numeri forniti. Precisato quanto sopra, nell’articolo in questione mancavano proprio i numeri, per mancanza di spazio: nei documenti si riportano le tabelle utilizzate per la verifica, mediante foglio elettronico, dei calcoli di convenienza.

Lo schema Ponzi dei bagnini (ovvero, del perché liberalizzare le concessioni di spiaggia infastidisce qualcuno).

Charles Ponzi era un immigrato negli Stati Uniti origine italiana (di Lugo, per la precisione) che agli inizi del ‘900 divenne famoso per aver realizzato una truffa di enormi dimensioni.

La truffa, secondo uno schema che ha preso il nome dal nostro e che è stata più volte attuata negli anni , prevede che attraverso la promessa di extra-rendimenti, un numero sempre crescente di persone sia indotto a partecipare, versando somme cospicue, ad un investimento “alternativo”, i cui proventi, nella realtà, non esistono. I denari di coloro che man mano sono coinvolti nella truffa, infatti, servono a liquidare coloro che vogliono monetizzare l’investimento e, soprattutto, ad arricchire il truffatore di turno. In sostanza, l’investimento, se così può essere definito, frutta solo se si trova qualcuno che subentra al posto di chi vuole uscire.

Era necessario parlare di Charles Ponzi prima di parlare del mercato delle concessioni di spiaggia, ovvero le concessioni demaniali che consentono ad un bagnino di gestire uno stabilimento balneare. Com’è noto, nella proposta di riforma presentata dal Governo Monti, la durata delle concessioni è stata ridotta e portata ad 8 anni (4+4), novità che ha fatto insorgere i bagnini medesimi e le loro associazioni e cooperative; la motivazione consisterebbe nell’insufficiente tempo a disposizione per ammortizzare gli investimenti, recuperando il capitale.

Per capirci di più, siamo andati a verificare i conti di uno stabilimento balneare riminese,

in zona semi-centrale, con otto file di ombrelloni (a detta di alcuni commercialisti, di grandezza media). È passato di mano, fra il 2006 e il 2007, per la modica cifra di 700mila €, di cui 100mila dichiarati e tutto il resto in nero. Come è noto, il passaggio avviene davanti al notaio mediante cessione di azienda, consistente in avviamento e attrezzature (sdrai, ombrelloni, lettini etc…). Da tale investimento deriva un reddito annuo al lordo di imposte, per i due soci acquirenti, pari a 90.000 €. Poiché risulterebbe fuorviante ragionare in termini di cifre nette, il ragionamento che segue sarà fatto nell’ipotesi di assenza di imposte (per la cronaca: i due soci acquirenti non dichiarano come dovrebbero 45mila € a testa, ma poco meno di 15mila), quindi al lordo.

Alla domanda: “Quanto rende uno stabilimento balneare?” risponderemo con alcune semplici valutazioni di convenienza, sulla base di un ragionamento economico noto e basilare, che afferma che il reddito d’impresa dovrebbe essere superiore a quello ottenibile da un’attività priva di rischio (risk-free), normalmente rappresentata da un BTP a 5 anni (pari al 3,77% nel 2007). Se si ipotizza che il premio al rischio richiesto nel settore alberghiero sia pari a circa l’8,3% si può concludere che, affinché ne valga la pena, l’investimento nello stabilimento balneare dovrebbe rendere almeno il 12% annuo lordo: altrimenti, sarebbe meglio stare a casa ed aspettare che maturino gli interessi, senza rischiare. Nell’effettuare il paragone, è importante ricordare che, se alla scadenza un BTP sarà rimborsato al valore nominale o in alternativa, venduto sul mercato e liquidato, lo stesso non può dirsi dello stabilimento balneare, per il quale occorre trovare un acquirente disposto a pagare perlomeno quanto versato a suo tempo dal venditore. La liberalizzazione pone un termine all’investimento, fissando in 8 anni l’orizzonte dell’investimento stesso, scaduti i quali si deve ipotizzare di non poter più ottenere redditi di sorta, tantomeno quelli legati alla cessione. Snodo cruciale della riforma, pertanto, è l’abrogazione, de facto, della possibilità per l’investitore di rientrare attraverso la rivendita della concessione, perché dopo 8 anni sarebbe  comunque messa all’asta; tutti quelli che hanno comprato prima della riforma non avrebbero più nulla da rivendere.

Inoltre si dovrebbe tenere presente che il reddito lordo annuo di 90mila € non dovrebbe essere considerato reddito d’impresa, se non per la parte non imputabile al lavoro dei soci: nell’ipotesi è presumibile che tale lavoro valga almeno 20mila € l’anno per ognuno di essi e, di conseguenza, il reale reddito d’impresa sia pari a 50mila € ((90.000-(20.000×2)=50.000).

Le conclusioni alle quali si giunge usando un semplice foglio elettronico su Excel, applicando le funzioni Tir (tasso interno di rendimento) e Van (Valore attuale netto) sono molto istruttive (la tabella generata mediante foglio elettronico è riportata, come detto, fra i documenti)

Date le ipotesi di cui sopra, alla fine degli 8 anni, i nostri bagnini:

1.         rientrerebbero a malapena dell’investimento solo se riuscissero a vendere l’azienda allo stesso prezzo al quale l’hanno pagata (700mila €), con un rendimento sul periodo pari al 12,857%, leggermente superiore a quanto richiesto dal settore,  facendo finta di lavorare gratis;

2.         se, al contrario, lo stabilimento non fosse più cedibile al termine degli 8 anni, il rendimento dell’investimento sul periodo sarebbe pari allo 0,63% annuo, ampiamente inferiore persino all’inflazione; se poi si considerasse che una parte di quei 90mila € è reddito da lavoro dipendente, cioè non si lavora gratis, l’investimento NON sarebbe più conveniente, non consentendo mai il recupero del capitale investito, se non in un arco di tempo molto più lungo;

3.         in sostanza, converrebbe fare il bagnino solo pagando un prezzo di ingresso, in sede di asta per la concessione demaniale, molto più basso, non superiore, nell’esempio, a 250.000 €;

4.         infine, volendo rispettare il tasso di rendimento obiettivo del settore senza fare finta di lavorare gratis, se continuasse lo schema Ponzi del bagnino, il prezzo al quale dovrebbe avvenire la cessione al termine degli 8 anni dovrebbe essere incrementato rispetto all’originale di almeno il 70%; nel nostro caso il bagno dovrebbe passare di mano per 1,2 mln.di €, ovvero si dovrebbe trovare qualcuno disposto a pagare tale cifra.

E’ conveniente, allora, investire in uno stabilimento balneare? Lo è solamente a due condizioni concomitanti e connesse:

a)        che sia possibile rivendere ad un prezzo almeno pari a quello di acquisto (e la riforma abolisce questa possibilità);

b)        che i redditi ottenuti ed il capitale investito siano assoggettati ad imposte il meno possibile, ovvero massimizzando l’evasione fiscale.

Se questo è vero, date le ipotesi che si sono illustrate, allo schema Ponzi del bagnino si deve aggiungere un elemento non quantificabile ma molto importante nel valutare perché i prezzi siano così elevati e nell’immaginario collettivo siano anche giustificati: nel prezzo pagato, in effetti, vi sono motivazioni extra-economiche riassumibili nel concetto “fare-il-bagnino-è-il-lavoro-dei-sogni”. Il prezzo pagato misura quanto saremmo disposti a pagare per il-lavoro-dei-sogni. E le liberalizzazioni delle concessioni, impedendo l’eventualità che si possa rientrare del prezzo pagato alla scadenza, interrompono lo schema, soprattutto per chi vi è già coinvolto, facendo scoppiare la bolla dei prezzi: perché nessuno sarà più disposto ad investire ingenti capitali, sia pure per svolgere il-lavoro-dei-sogni, con contratto a tempo determinato non rinnovabile (gli 8 anni fissati dal Governo), sapendo che non sarà più in grado di recuperare i denari esposti al rischio d’impresa.

 

 

 

 

 


[1] Fra gli altri da Vincenzo Cultrera, a.d. dell’Istituto Fiduciario Lombardo, poi fallito e coinvolto in una bancarotta fraudolenta, che negli anni ’80 comprò il Grand Hotel di Rimini per poi rivenderlo sotto forma di certificati immobiliari.

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Capitalismo Disoccupazione Imprese Lavoro

L’art.18 e il pubblico impiego sono casse da morto.

L’art.18 e il pubblico impiego sono casse da morto.

(…) L’articolo 18 e il pubblico impiego sono casse da morto dove per pigrizia ci si rinchiude. Chi ambisce a così poco, si accomodi, è libero di farlo, ma lo stato non può fornirgli la cassa, è eutanasia. Lo stato deve fomentare la voglia di vivere, e vivere significa lottare, inventare, cambiare, fare quel che si ama e amare quel che si fa. Dio ci scampi dai disinteressati. L’interesse crea l’etica nell’uomo, se non si ha interesse per quel che si fa, lo si fa male e si fa del male; ma si può essere interessati solo a quello che liberamente si sceglie in uno slancio amoroso, non per una comodità o un tornaconto. Il posto ciascuno se lo deve creare, a misura del proprio desiderio, solo allora si sentirà vivo. Appena possono, gli impiegati a tempo indeterminato si abbandonano al lamento e all’ipocondria, raccontandosi l’un l’altro le proprie malattie, vere o presunte; vivono nell’attesa della morte, metafora di quel licenziamento che li scaraventi in una qualche impresa. Pubblici o privati che siano gli operai non parlottano, non si lamentano, non ne hanno il tempo, non possono distrarsi, rischiano la pelle. C’è tanto amore e tanto prigioniero desiderio nel loro affannoso destino che quando sento che si mettono insieme fondando una cooperativa o qualche padrone li associa all’impresa, mi si apre il cuore.
Umberto Silva, Il Foglio, 4 febbraio 2012

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Agnelli Disoccupazione Energia, trasporti e infrastrutture Fiat Imprese Indebitamento delle imprese Lavoro PMI Ripresa Sud Sviluppo

Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Curiosando sulla rete alla ricerca di cifre e di informazioni circa la suddivisione del trasporto merci fra gomma, rotaia etc..mi sono imbattuto solo in articoli datati, come questo, peraltro interessante e ben argomentato. E ho ricordato gli anni ’60 ed il nuovo modello di sviluppo di Ruffolo, quello che voleva togliere l’auto dal centro del mondo per favoleggiare di altro, in anni in cui a Torino si diceva che ciò che era bene per la Fiat era bene anche per l’Italia. Giorgio Ruffolo e gran parte della sinistra sindacale di quei tempi erano se non massimalisti, spesso solo velleitari, scollegati dalla realtà come solo il PdL di adesso sa fare, ma forse qualcosa di quello che dicevano si potrebbe recuperare. Provo a capirci qualcosa guardando i numeri e scopro che:

  1. i trasporti su rotaia non sono convenienti per le distanze entro 1000 km (ovvero mai in Italia);
  2. per rendere convenienti i trasporti su rotaia bisogna investire sulla medesima, come hanno fatto i francesi ed i tedeschi (hai visto mai?);
  3. l’Italia NON ha investito sulla rotaia, come prova lo schifoso viaggio che ho fatto ieri mattina, dismettendo stazioni e tratte che non erano convenienti, in una logica molto privatistica, tranne che per le relazioni sindacali (consiglio a Stella e Rizzo di andare a curiosare nei dopolavoro ferroviari, per esempio);
  4. dunque i camionisti, o camionari, come dicono in Veneto, godono di una rendita di posizione, mi spiace dirlo, ma è così, insidiata solo dalla concorrenza dell’Est (benedetta UE, almeno a qualcosa serve); un camionista bulgaro costa un terzo di uno italiano, 15mila euro del primo contro 45mila del secondo;
  5. nonostante la rendita, gli sgravi fiscali e le molte altre agevolazioni, i camionisti non ce la fanno, o perlomeno, molti di loro; d’altra parte se basta un aumento del prezzo delle materie prime ad azzerare i margini, significa che già erano bassi.

Fin qui le “scoperte” dell’acqua calda. Dalle scoperte alle conclusioni.

La prima: forse non è un business conveniente? Forse a certe dimensioni non lo è mai stato, se è vero che tanti bilanci visti personalmente di aziende di autotrasporto, in molti e molti anni, recavano l’utile solo grazie alle plusvalenze per la cessione degli autocarri riscattati in leasing, inquinando la redditività operativa con ricavi extracaratteristici. Il buon senso, prima ancora della logica economica, imporrebbero di essere coscienti che chi ha margini modesti non può giocare con la finanza (inevitabile pensare a quante aziende di autotrasporto hanno debiti che non pagheranno mai perché non dovevano farli, non potevano permetterseli), ovvero che queste aziende se faticano a pagare i dipendenti, tanto più non possono farlo a debito.

La seconda: gli investimenti in infrastrutture, compreso il Ponte sullo Stretto, potevano prefigurare, se fatti per tempo, un nuovo vero modello di sviluppo. Ma non si riesce a fare partire la TAV (a proposito, perché nessun blocco in Val di Susa?), figuriamoci qualsiasi altra iniziativa: in ogni caso, ne godranno i nostri nipoti. Ma sono necessari, meglio farli tardi che non farli mai.

Infine: tagliare le rendite, liberalizzare, privatizzare può servire, può dare risorse, può aiutare questo gigantesco processo di riconversione delle infrastrutture, senza farci precipitare nella sindrome cilena (ma Mario Monti in elmetto e mitra a Palazzo Chigi non ce lo vedo). Ma deve essere guidato, sorretto da idee e da un progetto. Si cercano idee forti per la politica, mentre questa ha abdicato a se stessa. Buon lavoro a tutti.

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Imprese Mercato PIL Ripresa

Pharmonomics.

Pharmonomics.

Non avevo pensieri particolari sulle farmacie, fino all’arrivo di un sms ieri sera, che mi chiede una riflessione per alcune future farmaciste. Ci provo, anche se confesso di sentirmi più coinvolto dalle liberalizzazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari, perché fa più Strapaese e profonda provincia italiana. Quanto alle liberalizzazioni, Monti ha avuto gioco facile sulle sparate del Presidente del Milan, chiedendosi, ancora una volta, perché, se fosse stato così semplice realizzarle, non ci abbia pensato il governo precedente. Anyway, poiché da qualche parte si doveva cominciare, Mario Monti lo ha fatto, fra l’altro, dalle farmacie ed anche JM comincia di qua.

Pensiero immediato riflettendo sui farmacisti: sono ricchi, stanno bene. Generalmente è vero, è abbastanza evidente. I genitori di un mio collega di università erano farmacisti, ed erano ricchi, la farmacia rendeva, gli hanno lasciato un patrimonio. Non sarà un’evidenza empirica, di quelle che generano una “robusta correlazione statistica” e che fanno lampeggiare SPSS ma è così. E’ vero anche a Rimini, dove vivo. Secondo pensiero immediato: quanto costa una farmacia? Risposta popolare immediata: tanto! Una farmacia vale tanto ed anche questa è un dato di realtà, verificato con alcune concordi interviste presso qualificati commercialisti. Come in tutti i mercati opachi e poco trasparenti, il prezzo di mercato non è fissato da un meccanismo efficiente, ma spinto da altri fattori. Uno di questi, certamente è l’oligopolio tipico di questo mercato: poiché 1)- non posso svegliarmi domattina e decidere di aprire una farmacia, ma le licenze sono contingentate e l’attività non è libera, 2)-i farmaci sono beni a domanda anelastica (sulla salute, di norma, non si risparmia), possedere una farmacia non è come aprire un negozio di maglioni. Le maglie possono essere belle o brutte, di buona o cattiva qualità, il negozio può essere in periferia, i commessi incapaci: e potrebbe fare troppo caldo. Insomma, vendere maglie non offre garanzie di reddito, vendere farmaci sì. Il farmacista può essere sgarbato, antipatico, la farmacia periferica (quasi meglio, si parcheggia bene), ma il farmaco lo trovi solo lì, soprattutto il farmaco che serve, quello che non è in vendita libera: se poi è notte, o è domenica, la farmacia deve essere quella lì, quella di turno, e se è dall’altro capo delle città, pazienza. Il raffreddore ce l’hai anche con le stagioni strane, la cardioaspirina devi prenderla tutti i giorni etc..

Aprire una farmacia costa molto, si può solo comprarla: e recuperare l’investimento è lungo e difficile. Tre anni fa feci una consulenza ad un avvocato del Nordest  che se l’era comprata per la figlia, che diversamente avrebbe continuato a fare l’erborista. La consulenza fu superflua, la farmacia -stagionale- era già stata comprata, ad un prezzo con sei zeri, in una zona di villeggiatura; la mia consulenza serviva a dare l’imprimatur all’affare. Imprimatur che non venne, perché a mio parere, e qui è il punctum dolens della questione, a quei prezzi c’è solo un modo per recuperare il capitale investito, ed è rivendere. Non dipende dalla stagionalità dell’attività, poiché la stessa farmacia, in una città costerebbe molto di più e renderebbe in proporzione. No, dipende solo dall’oligopolio, e dal fatto che tu ci sia dentro o no. Se ci sei dentro e sei uno degli oligopolisti o hai ereditato i vantaggi, oppure li hai comprati; in entrambi i casi li difendi con le unghie e con i denti. Se sei fuori, sei disposto a pagare un sovrapprezzo per acquistare una rendita che offre molte sicurezze. Ma una volta che sei dentro, giustifichi il sovrapprezzo e lo vuoi, anzi lo devi recuperare. Ci possono essere per i farmacisti mille ragioni scientifiche e di tutela della salute per opporsi alle liberalizzazioni, ma in realtà una sola è quella più potente di tutti: la svalutazione della rendita, l’azzeramento del capitale investito. Non è sicuro che la liberalizzazione delle farmacie provocherà la crescita di dieci punti di PIL, come affermato dal Presidente del Consiglio: ma certamente ridurrà significativamente l’ammontare del capitale da recuperare attraverso la rendita oligopolistica. E dunque ridurrà la rendita, con benefici per tutti. Quanto alle giovani future farmaciste, penso che la loro vocazione si realizzerà pienamente anche senza la rendita: ed auguro loro di poter trarre soddisfazione dalla loro futura professione per quello che essa è, un servizio alla salute delle persone, non per l’essere ricche commercianti laureate.

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Energia, trasporti e infrastrutture

Rendite subprime.

Rendite subprime.

Alla fine sono saltate due giornate di lavoro, due giornate in Sicilia settimana prossima. L’ultima volta che è saltato del lavoro in Sicilia abbiamo vinto la Champions, chissà che non porti bene.

Detto questo, ci sono due o tre cose da dire sul blocco che sta paralizzando l’isola e che ha portato all’esaurimento di carburante i distributori di Palermo, almeno per ora. In primo luogo chi sta protestando: autotrasportatori, pescatori, agricoltori. Chiamando le cose col loro nome, imprenditori (?) che lavorano in settori protetti, o meglio, da lungo tempo sussidiati: basti pensare al prezzo del gasolio agricolo o per la pesca, alle varie agevolazioni assegnate agli autotrasportatori. Continuando a chiamare le cose con il loro nome, settori che non reggerebbero alla concorrenza ma che portano a casa un utile risicato, quando lo portano, grazie a sussidi, erogati per ragioni elettorali (agricoltura e pesca) e/o sociali (autotrasportatori). Il problema è che i sussidi sono posti a carico, come direbbero gli economisti, della fiscalità complessiva, ovvero li paghiamo tutti noi con le imposte. E quando occorre tirare la cinghia, da qualche parte si deve tagliare così come, se la marea si abbassa -è in questo momento è bassissima- alcune navi rimangono in secco. Si incazzano, se rimangono a secco, facendo rimanere a secco tutti i cittadini, ai quali dovrebbero dire grazie perché con le loro imposte hanno consentito che fosse pagato il sussidio. Una vera e propria rendita subprime.

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Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Imprese Indebitamento delle imprese Mutui e tassi di interesse Relazioni di clientela

Deterioramenti (downgrading creditworthiness).

Deterioramenti (downgrading creditworthiness).

La segnalazione da parte di Banca d’Italia dei rischi connessi all’aumento delle sofferenze e dei crediti deteriorati viene ricondotta, nello sbrigativo riassunto del Sole 24 Ore, alla contrazione dell’attività economica ed all’aumento dei tassi (questi ultimi dovrebbero crescere in funzione dell’accresciuta rischiosità dei prenditori, non il contrario). Singolarmente, ma non troppo, il bollettino economico della Banca d’Italia viene pubblicato nello stesso giorno in cui le imprese italiane più prestigiose (Generali ed Eni) subiscono il downgrading “per il collegato disposto” dell’abbassamento del rating tricolore. Sul downgrading di Generali e di Eni ci sarebbe da discutere, perché è realmente discutibile che uno Stato Sovrano estenda la sua presunta peggiorata capacità di restituzione del debito a due imprese, due delle poche, multinazionali. Ma tant’è, come ha detto il Presidente del Consiglio dobbiamo imparare a conviverci e, in finale, ad essere consapevoli di quello che valiamo. Dimostrandolo, infine, vista la bontà d’animo della signora Merkel (sia fin d’ora maledetto chiunque, fra qualche tempo, verrà a dirci che, come la Tatcher, “però era buona”), intenzionata a tirare la corda quanto più possibile.

Quanto alle sofferenze, il discorso è ben diverso e peggiore. Mentre per il rating del Paese possiamo pensare, con qualche ragione, che i giurati del nostro beauty contest si siano sbagliati o siano al soldo di un’altra concorrente, maggiormente dotata di noi, per le imprese, soprattutto per le Pmi, la questione a mio parere è più grave. I giurati, ovvero le banche, tanto per rimanere all’esempio del concorso di bellezza, stanno facendo finta di non vedere, o non vedono. Le imprese sorridono nervosamente, facendo finta che le cose vadano bene, facendo finta di essere belle: chi ha immobili non li vende, per non rendere liquida una minusvalenza preferisce contabilizzare una plusvalenza di carta. Chi ha capitali non li mette, chi ha bisogno di liquidità presenta piani di rientro che spostano tutto in avanti, senza mettere in discussione l’unica cosa che dovrebbe essere rivista, la formula competitiva. Non sai cantare, non sai ballare, non sai neppure l’italiano e sei pure bruttina: ma non vuoi uscire dalle selezioni e, per giunta, non vuoi neppure studiare. Chi ha margini ridicoli, come i benzinai, protesta perché la concorrenza favorita dalle liberalizzazioni li metterà sul lastrico; bene, ma è difficile non chiedersi chi glielo faccia fare. Perché fare tanta fatica per due soldi? A tacere di quei benzinai, veri e propri “criminali economici”, che accettano dai camionisti -altra categoria a rischio- pagamenti con postdatati ed altre amenità. Bene, abbiamo appreso che il profitto da fame di 2 centesimi a litro sarà difeso con soli 7 giorni di chiusura. Magari chiudessero, ne chiudessero di più. Ma non lo faranno, perché neppure sanno quello che fanno. Stanno difendendo il nulla. Come si dice su twitter #sapevatelo.