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Ma davvero è solo una questione di moratorie?

Ieri pomeriggio ho avuto l’opportunità di assistere, finalmente in qualità di spettatore, a un webinar di grandissimo interesse, promosso da una banca di interesse nazionale, in collaborazione con un’associazione imprenditoriale di categoria del territorio. Argomento del webinar, secondo un titolo caro al sottoscritto, era, parafrasando, l’impresa vista dalla banca. Nessun accenno alle moratorie, che tutti vorrebbero prolungate usque ad mortem, così come nessun accenno alla documentazione richiesta per i nuovi affidamenti, né alle cosiddette “metriche” obbligatorie previste dall’EBA (European Banking Autority) in materia di affidabilità delle imprese e sostenibilità del debito.

Tuttavia, nel corso di una presentazione certamente agile e interessante, la banca in questione ha non solo evidenziato quali siano gli aspetti che più di altri rilevano ai fini delle proprie valutazioni interne, ma ha anche spiegato che tali valutazioni, soprattutto di tipo prospettico, sono indispensabili per capire come saranno le imprese nel new normal, in chiave pertanto evolutiva.

Paradossalmente, ma non troppo, non si è parlato di Orientamenti EBA ma è come se lo si fosse fatto: la ben scarsa presenza di imprenditori e di professionisti al webinar mi fa dubitare che il tema sia non appena fatto proprio, ma reso noto e conosciuto tout-court da chi di dovere, soprattutto le PMI.

Quindi, come diceva Lenin, che fare? Si può solo continuare a fare cultura d’impresa, in banca e fuori dalla banca: a proposito, con R&A Consulting proponiamo un appuntamento per il 13 aprile, save the date.

D’altra parte, l’iniziativa di ieri è meritoria, ma non basta, se poi gli imprenditori non vengono. O, che è peggio, se poi non capiscono che fare il business plan non serve “da dare alla banca”: serve a loro.

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Alessandro Berti Banche BCE Mario Draghi Moratoria dei debiti Vigilanza bancaria

Cosa minaccia davvero le banche italiane?

Cosa minaccia davvero le banche italiane?


 

Un articolo del prof.Onado sul Sole 24 Ore di ieri torna sul tema del credito deteriorato, prendendo, fin dal titolo, una chiara posizione, apparentemente assai ragionevole: “L’eccesso di zelo minaccia le banche italiane”.

L’occasione è quella ben nota della (per ora) mancata proroga dei termini di flessibilità accordati alle banche dalla European Banking Authority, scadenti il 30 settembre. Mentre appare certamente condivisibile la preoccupazione dell’Autore, che sottolinea il perdurare della pandemìa e l’attesa per l’adozione di misure, Recovery fund e non solo, che sono di fatto in divenire, appaiono più opinabili le conclusioni alle quali giunge, sicuramente dettate da buon senso e ragionevolezza ma che sembrano dimenticare, nei fatti, un dato di realtà: il credito deteriorato è tale anche se non correttamente classificato, magari con l’avallo delle regole della moratoria.

Al riguardo è bene rammentare che l’EBA ha invitato le banche “a non rinviare l’emersione di perdite altamente probabili” e proprio su questo punto il prof.Onado afferma che, usando tali parole, l’autorità di vigilanza Europea implicitamente ammette che, cito, “l’eccesso di severità è un’arma a doppio taglio, che può penalizzare indebitamente famiglie e imprese e lascia opportuni margini di discreziona-lità“.

I lettori minimamente addentro ai segreti del “bancariese” e ai cosiddetti Orientamenti dell’EBA (che sono in realtà vere e proprie prescrizioni alle quali ci si deve adeguare) sanno bene che l’EBA utilizza sempre il condizionale mentre rilascia i propri, appunto,  Orientamenti, usando fino in fondo un potere che è sì di prescrizione ma è anche di moral suasion. Ne ho già parlato in questo blog in altre occasioni, ma il tema delle inadempienze probabili (UTP) e degli sconfinamenti ed esposizioni scadute non aspetta le moratorie per manifestare fino in fondo gli effetti devastanti della crisi da Covid-19. In altre parole, non chiedersi che ne sarà di un certo numero (purtroppo elevato) di imprese, spesso piccole e piccolissime, destinate a fallire non appena cesseranno il divieto di licenziare e l’erogazione perinde ad cadaver della CIG, significa chiudere gli occhi mentre si sta andando a sbattere.

D’altra parte Marco Onado ha ragioni da vendere quando afferma che assimilare inadempienze probabili, sconfinamenti ed esposizioni scadute “svilisce il contributo che il banchiere può dare” nel risolvere i problemi delle imprese in difficoltà. La questione vera però è: in che modo? Con quali carte alla mano? Su quali piani, progetti, business plan? Su quelli che finora quasi nessuno ha portato (ma anche quasi nessuno ha chiesto e continua a non chiedere)?

Ovvero, è peggio la cecità di chi affida imprese di cui neppure conosce bene i conti a consuntivo -e figuriamoci a preventivo- oppure quella che, per dirla con Giorgio Gaber, fa “fingere di essere sani“?

Conosciamo gli effetti delle moratorie e dei rinvii, lo abbiamo sperimentato con la crisi scoppiata nel 2008: si allungano le scadenze ma non si mette mano al business model, alla formula competitiva, al conto economico: è già successo allora, rischia di riaccadere anche oggi, e non possiamo dimenticare che è proprio per questo atteggiamento che è nata e cresciuta a dismisura la montagna di credito deteriorato di cui ci stavamo faticosamente liberando.

Infine, se posso permettermi di chiosare (e solo quello: extra ecclesiam nulla salus e Marco Onado è per me un punto fermo e un riferimento costante) l’Autore: il mestiere del banchiere si rivaluta fino in fondo certamente con un atteggiamento elastico e attento di tutti i decisori, prima di tutto quelli politici, come il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini ha fatto ben capire. Ma la diligenza che occorre in questo momento nel valutare il merito di credito richiede straordinarie capacità di intelligenza della situazione, anche in termini evolutivi: pensare che questo possa accadere lasciando che tutto prosegua come se nulla fosse, mi pare perlomeno irrealistico.

C’è da lavorare, e molto, ancora una volta, sul tema delle relazioni di clientela.

 

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ABI Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Prima, dopo e durante un prestito Covid-19 (senza speranza).

Prima, dopo e durante un prestito Covid-19 (senza speranza).

Si è già discusso abbondantemente in questa sede sul fatto che un prestito Covid-19 con garanzia pubblica, laddove per tale si intende quella prestata dalla SACE o dal Fondo Centrale di Garanzia, non è un prestito che la banca è tenuta a erogare, tanto meno senza valutare approfonditamente il merito di credito del richiedente. A parte i motivi già illustrati, riguardanti le best practices in materia di affidamento e le prescrizioni della Circ.285 di Bankitalia, è ormai noto l’orientamento EBA circa il fatto che un prestito in moratoria possa divenire tranquillamente un’inadempienza probabile o comunque analizzato come tale. E se da un lato non si possono segnalare sofferenze da parte delle banche (quid juris quando dopodomani riapriranno i tribunali fallimentari?), come sancito dal Decreto Liquidità, che fine faranno le valutazioni che de plano devono essere fatte sulla incapacità di adempiere se non tramite escussione delle garanzie, ovvero le UTP?

Detto questo, l’audizione del Direttore Generale del Fondo Centrale di Garanzia ha bene illustrato quello che accade qualora la fideiussione, senza eccezioni e a prima richiesta, venga escussa: il FCG verificata la sussistenza dei requisiti, paga. Nello stesso istante, tuttavia (e per comprenderlo non serviva un’audizione parlamentare) si surroga negli stessi diritti che aveva il creditore originario, cioè la banca e per recuperare il proprio credito è autorizzato ad emettere cartelle esattoriali per l’importo dovuto, più interessi e spese. Con tutta evidenza, nulla di più distante da un contributo a fondo perduto: direi, poco rassicurante.

Ma un aiuto di Stato? Si. Autorizzato? Forse (ma probabilmente no, almeno in moltissimi casi di piccole e micro-imprese).  Come ricorda un ottimo articolo apparso sul Sole 24 Ore di oggi a cura di Paolo Meneghetti e Gian Paolo Ranocchi, per quel che riguarda il contributo a fondo perduto la circolare 15/E della Agenzia delle Entrate precisa che l’aiuto non può essere concesso alle imprese che si trovavano in una situazione di difficoltà al 31 dicembre 2019, in base alla definizione di cui all’articolo 2, punto 18 del regolamento (UE) n. 651/2014. Le 4 condizioni per le quali -ne è sufficiente anche una sola- una impresa è considerata in difficoltà e quindi non può essere aiutata sono le seguenti:

1)-nel caso di srl diverse dalle neo-costituite, il patrimonio netto ridottosi del 50% a causa di perdite cumulate;

2)-nel caso di sas o di snc, i fondi propri (ovvero il patrimonio netto) ridottisi del 50% a causa di perdite cumulate;

3)-assoggettamento a procedure concorsuali;

4)-interessi passivi superiori all’Ebitda.

Non è evidentemente questa la sede per discutere, per esempio, dell’inclusione o meno nella categoria delle imprese in difficoltà delle ditte individuali -come parrebbe pacifico- né dell’esclusione dei liberi professionisti, che pure non pare in discussione. La questione vera, che il legislatore pasticcione del Decreto Liquidità e del Decreto Rilancio pare avere scordato, riguarda il fatto che tutti i prestiti e le moratorie rischiano di configurarsi come aiuto di Stato proprio per quelle imprese che più ne hanno bisogno, le tantissime snc,, sas ed srl, che hanno da tempo il patrimonio netto negativo e che versano da tempo in condizioni di squilibrio economico, finanziario e patrimoniale.

Ma se queste imprese, a seguito del cumularsi di perdite, hanno ridotto la dotazione di capitale di oltre il 50% -e ci riferiamo a imprese, quelle italiane, normalmente sotto-capitalizzate- e non solo per perdite ma, per esempio, per prelievi soci c/utili anticipati, si stanno erogando finanziamenti a soggetti che quasi certamente non rimborseranno nulla di quanto dovuto. Con le conseguenze di cui sopra. Con l’aggravante che molte di esse, destinate a fallire, avranno tuttavia nel frattempo anche ricevuto contributi a fondo perduto. Che più perduto non si può.

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Nuovi paradigmi della sostenibilità nel rapporto banca-impresa: il rapporto PFN/Ebitda o debiti finanziari lordi/Ebitda

Guardando indietro nel tempo ai tanti anni trascorsi a leggere, studiare e scrivere in materia di valutazione del merito di credito ci si rende conto di come ormai alcuni strumenti siano entrati nell’uso e nella prassi comuni -basti pensare all’analisi per flussi in contrapposizione all’obsoleta e superata analisi per indici- mentre altri lo sono diventati nel tempo, probabilmente figli della necessità di avere certezze, parametri di riferimento, indicatori dirimenti in materia di misurazione del rischio.

Così, se per quanto riguarda la valutazione della capacità di reddito e del flusso principale generato a servizio del debito, ovvero l’Ebit, non vi sono discussioni in materia e tutta la migliore dottrina e le best practices parlano senza tema di smentita della necessità che il risultato operativo (o, appunto, Ebit) sia in grado di assorbire adeguatamente gli oneri finanziari, con un rapporto tra questi ultimi e RO pari o inferiore al 50%, in materia di struttura finanziaria, sostenibilità del debito e capacità di fronteggiarlo non tutto è, evidentemente, acclarato.

Il passaggio tra la valutazione della capacità di reddito e quella di rimborso, lungi dall’essere chiaro, risulta ancora non del tutto pacifico, ove si consideri che sovente, anche in relazioni redatte da esperti blasonati, banchieri e non, non si accenna quasi mai alla problematicità del capitale circolante netto operativo (o funzionale) ed al ben noto effetto spugna. Cosicché il free cash flow liberamente disponibile per fare nuovi investimenti e per rimborsare prestiti, o autofinanziamento al netto dei prelievi, non è (quasi) mai esplicitato nelle istruttorie bancarie, né viene analizzato nella sua composizione, anche mediante raffronti temporali. Basti pensare alla questione relativa alla consistenza dell’Ebitda in rapporto alla variazione del CCNO, laddove evidentemente la prima componente dovrebbe rappresentare quella più importante, sotto il profilo quantitativo, della liquidità prodotta dalla gestione.

La mancata consapevolezza rispetto all’importanza dell’Ebitda, ovvero al Margine operativo lordo nella sua accezione finanziaria (in sintesi: Ebit, più ammortamenti, più accantonamenti) è ancora più grave se si considera che, viceversa, dopo essere entrato a pieno titolo nelle valutazioni delle società quotate, i cui debiti finanziari non dovrebbero superare 4/5 volte l’Ebitda stesso, questo indicatore viene esplicitamente usato da Bankitalia nelle proprie ispezioni per isolare le posizioni ritenute maggiormente rischiose. In altri termini, tutte le volte che l’indicatore PFN/Ebitda, utilizzando al numeratore la posizione finanziaria netta, o l’equivalente Debiti finanziari lordi/Ebitda, senza tenere conto al numeratore delle disponibilità liquide, supera il valore di 6, gli ispettori della Vigilanza ritengono che l’impresa sia indebitata oltre i limiti massimi di sostenibilità.

Sostanzialmente, alla base di questa valutazione, stanno due ipotesi sulle quali è opportuno riflettere: l’Ebitda da flusso di cassa potenziale viene virtualmente ritenuto un flusso di cassa effettivo; tale flusso viene interamente destinato al rimborso dei soli debiti finanziari.

Vi sono sicuramente numerose questioni sia sulla costruzione dell’indicatore, sia sul suo significato, anche in rapporto al settore di appartenenza dell’impresa: questioni che certamente vale la pena approfondire in uno dei prossimi post, annotando intanto, anche in chiave di lettura del tema della prevenzioni delle crisi di impresa, che valori superiori a tale soglia rappresentano già da adesso, per le banche affidanti, una soglia trigger che può segnalare difficoltà finanziarie prospettiche per l’impresa affidata.

Vi sono sicuramente numerose questioni sia sulla costruzione dell’indicatore, sia sul suo significato, anche in rapporto al settore di appartenenza dell’impresa: questioni che certamente vale la pena approfondire in uno dei prossimi post, annotando intanto, anche in chiave di lettura del tema della prevenzioni delle crisi di impresa, che valori superiori a tale soglia rappresentano già da adesso, per le banche affidanti, una soglia trigger che può segnalare difficoltà finanziarie prospettiche per l’impresa affidata.

 

 

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Se le perdite su crediti vanno (?) in ferie.

Se le perdite su crediti vanno (?) in ferie.

chiuso-per-ferie

Marco Ferrando sul Sole 24 Ore del 15 agosto descrive l’effetto della riduzione delle perdite su crediti sugli utili semestrali delle banche. Al riguardo “(…) emblematico il caso del Monte dei Paschi, che ha sfiorato i 200 milioni di utili nel semestre, una cifra non lontana dalla riduzione (-224 milioni) degli accantonamenti, scesi da 1,2 miliardi a 984 milioni, capitalizzando le pulizie straordinarie richieste dalla Bce e contabilizzate nel 2014; anche se la banca aspetta ancora l’esito d’ispezione condotta dalla Bce a inizio 2015 su 30 miliardi di crediti immobiliari.

Premesso che le semestrali non sono maccanicamente riproducibili a fine anno, come semplice spalmatura su due semestri di un risultato parziale, una riduzione delle perdite su crediti (la famigerata voce 130 del bilancio bancario) così determinante per gli utili fa nascere alcune riflessioni. La prima riguarda la capacità delle banche di prezzare il rischio correttamente (il c.d. pricing per gli amici di Albione) e di ricomprendere nello spread tra tassi attivi e passivi la probabilità di default del debitore: su questo punto l’esperienza ultradecennale nell’applicazione dei rating genera più di una perplessità. E dove non soccorrono gli automatismi, come si è visto, non pare sufficiente l’attuale preparazione degli addetti fidi (e/o di dirigenti e consigli di amministrazione). Detto in altre parole, lo smaltimento del picco del credito deteriorato non significa affatto che non se ne genererà del nuovo: e i tagli di personale e di costo non depongono a favore di una maggiore severità nel vaglio del merito di credito.

La seconda riflessione riguarda il tema del trattamento contabile delle perdite su crediti: nell’articolo citato si parla di perdite capitalizzate, sia pure a fronte di pulizie straordinarie richieste dalla BCE.  Si dovrebbe chiedere alle tante piccole banche, soprattutto Bcc, commissariate o gravemente sanzionate, che ne pensino di un simile trattamento, che manifesta disparità di vedute da parte del vigilatore ed una palese malevolenza nei confronti delle banche locali, soprattutto da parte di chi le ha finora vigilate e continuerà a vigilarle da via Nazionale. Se quelle pulizie straordinarie fossero passate dal conto economico, come sarebbe la semestrale di MPS? E se tutte le banche avessero potuto capitalizzare partite analoghe ora il sistema come sarebbe? Sano, come la sana e prudente gestione?

Infine, il problema del credito deteriorato non è contabile e neppure di creazione di un mercato per gli NPL (non performing loans). E’ come gettare via il termometro ed ignorare la febbre o portare le scorie nucleari in Africa, tu non le vedi più, ma ci sono ancora e fanno danni. La vera prova per la vigilanza, sia italiana sia europea, sarà sulla capacità di erogare credito di qualità, ricercando l’unica efficienza che può servire all’economia, quella allocativa.

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ABI Alessandro Berti Banche Crisi finanziaria

Pannicelli caldi.

Pannicelli caldi.

Impacchi_camomilla

Quando, una vita fa, facevo ancora un mestiere vagamente assomigliante a quello del commercialista, ricordo che una delle domande più frequenti da parte degli imprenditori riguardava il pagamento delle imposte: anzi, la domanda esattamente era: “Ma adesso posso scaricare questo anzichè quello, la macchina anzichè il cellulare etc…?” Nessuno che mi abbia mai chiesto come fare a monitorare la redditività o a controllare i costi, l’utile pre-tax era concepito come normale, scontato.

Leggere dei provvedimenti del Governo Renzi sulla deducbilità dei crediti bancari come toccasana di tutti i mali fa sorridere: se da una parte pone rimedio ad un’evidente incongruità (le perdite su crediti si verificano e basta, e quando si spesano in bilancio devono poter essere dedotte, tutte, al 100%, come avviene in tutti gli altri Paesi), dall’altro non rende le banche più capitalizzate e, improvvisamente, più disponibili ad erogare credito. Le attività fiscali erano e sono un elemento negativo del patrimonio di vigilanza, ma non faranno lievitare il capitale di rischio di banche che generano perdite su crediti ed intaccano il patrimonio non per colpa delle attività fiscali, ma perché non sanno più fare il loro mestiere. Il quale, come ricorda la circolare 263 di Bankitalia (che forse qualche giornalista ed anche qualche tecnico di associazione di categoria dovrebbe cominciare a studiarsi) consiste nella misurazione del rischio.

Se si misura correttamente il rischio lo si remunera, e attraverso lo spread, come sa ogni studente di economia, si coprono le perdite: nè servirà a fare buon credito accelerare le procedure di recupero, se, appunto, il primo recupero non comincia dalla “sana e prudente gestione“. Diversamente, ridurre il carico fiscale sotto la riga dell’utile pre-tax, lasciando che sopra continui a farla da padrone la voce 130 è, appunto, un impacco di camomilla. Dà sollievo, ma dopo che lo hai tolto non ti trasformi in Uma Thurman: rimani Cita, Cita Hayworth.

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Bisogna fare sviluppo.

Bisogna fare sviluppo.

SviluppoIn uno strano mese di luglio, denso di lavoro inframmezzato da ferie (poche: per chi fosse interessato a come è andata, si rimanda a twitter), mi è capitato più volte di esaminare aziende che prima di compiere un passo vogliono verificarne la fattibilità, con un atteggiamento certamente molto diverso dal passato, recente e non. Allo stesso modo, e quasi in parallelo, più di un bancario, ma ovviamente anche dirigenti ed amministratori, mi ha dichiarato che “bisogna fare sviluppo“, togliendo il freno a mano che ha finora bloccato l’erogazione di prestiti.

Sembrano buone notizie, sembrano i primi passi di un modo finalmente “sano” di intendere le relazioni di clientela, improntato a ragionevolezza: al punto che una Bcc del Sud mi ha chiesto cosa pensassi di un’impresa della quale si dubitava ma che, in qualunque regione del Centro-Nord, sarebbe stata affidata immediatamente. Tuttavia, appunto, “bisogna fare sviluppo“: ovvero, si deve fare crescere il margine di interesse, si deve fare credito alle imprese, si devono cercare nuovi clienti.

Tutto bene? Anzi, sbrighiamoci a fare credito, perché è già tardi? In realtà “fare sviluppo” richiede molto di più di una mera disponibilità ad erogare risorse finanziarie. Mentre le categorie continuano la litania dei lamenti (non perché ci sia da ridere se un’impresa chiude, ma è semplicemente il mercato, bellezza!), mostrando tutti i limiti tecnici e culturali dei modelli associativi italiani, la questione che emerge è proprio quella della selezione: parola sgradevole probabilmente, ma anche l’unica che dovrebbero avere a cuore gli imprenditori seri e le banche che li finanziano o vogliono finanziarli. Senza selezione le risorse finanziarie saranno distribuite, ovvero allocate, in maniera sempre meno efficiente, L’efficienza allocativa, ossia l’efficienza nel modo con cui il mercato seleziona gli impieghi meritevoli di credito rispetto a quelli scadenti, è uno dei concetti che più di tutti mi hanno affascinato della materia che studio ed insegno. Ma, nel contempo, è uno dei concetti più desueti e distorti e, proprio per questo, più teorici ed inattuati. La valutazione del merito di credito basata sulle garanzie o sulle conoscenze, sulla “storicità” del rapporto o sull’esistenza di proprietà immobiliari, anziché rispetto ai fondamentali dell’equilibrio economico e finanziario, ne è un triste esempio.

Se si è coscienti di questo, “bisogna fare sviluppo“può diventare non una mera parola d’ordine di stampo commerciale o lo slogan dell’ufficio marketing, ma qualcosa di molto più interessante. Può diventare la partenza di un modo di fare banca che si confronti con la realtà in modo duro, serio ed impegnativo, che chiami le imprese a scegliere e farsi scegliere, valorizzando la cultura d’impresa e castigando la rendita. C’è solo un modo per fare tutto questo, a dispetto delle scelte di tante grandi (purtroppo non solo loro) banche: valorizzare il capitale umano, investire su di esso, svilupparne le competenze e la cultura d’impresa. Proprio per questo, la sfida è ancora più grande.

 

 

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La misurazione del rischio di credito 2 (quello che le imprese ignorano completamente).

La misurazione del rischio di credito 2 (quello che le imprese ignorano completamente).

Aspirina
Riassunto della puntata precedente: come si misura il rischio di credito? E, soprattutto, sulla base di quali unità di misura?
Più di una volta, in carriera, mi è capitato di imbattermi in imprenditori che raccontavano di un rapporto banca-impresa vissuto quasi religiosamente, con il cappello in mano appena si entrava in filiale. Impressione corroborata, come le profezie auto-avverantisi, da una percezione della misurazione del rischio di credito quasi esoterica, legata a volontà soprannaturali e/o a fattori imponderabili, giammai a criteri oggettivi e condivisi.
Facile immaginare come migliore la percezione della catena di comando nelle banche di credito cooperativo (nelle quali puoi parlare con tutti e rompere le scatole a tutti, anche il presidente, anche se non meriti credito…) ma, soprattutto, lamentarsi, perché immancabilmente “ottime idee” venivano cassate, perché “le banche sanno solo valutare/vogliono solo le garanzie”, perché “in Italia non c’è concorrenza e invece le banche estere…”.
L’ottimo Sebastiano Barisoni di Radio 24, sempre lui, e con lui tutte le associazioni di categoria (ma Confindustria è più colpevole di altre, per autorevolezza, sia pure declinante, e per dimensioni dell’organizzazione) non solo preferiscono continuare a lamentarsi di Basilea 3, ma continuano a trascurare un piccolo particolare: che nel rapporto banca-impresa occorre sicuramente scegliere (la banca), ma anche farsi scegliere. E per farsi scegliere sarebbe opportuno conoscere i criteri della scelta di chi decide.

Pare a chi scrive che tuttora tali criteri siano:
• perlopiù ignoti alle imprese, soprattutto se Pmi, anche se noto ultimamente, nel mio turismo finanziario, una maggiore sensibilità al riguardo;
• quasi mai condivisi dalle banche (che confondono la riservatezza sui rating con quella relativa alla valutazione del fabbisogno finanziario) che vogliono mantenere la loro totale ed insindacabile discrezionalità;
• lasciati in mano a pessimi ingegneri informatici, ovvero agli unici responsabili, nel bene e nel male, delle scelte dei modelli di analisi che le banche usano: oddio, ci sono un bel po’ di Colleghi che collaborano alle scelte dei modelli, ma non hanno mai visto una Pmi e, soprattutto, non hanno mai visto un ufficio fidi.

Nel dubbio di non essere sufficientemente chiari, la questione di cui ci stiamo occupando non è un capriccio accademico da vecchi aziendalisti, né una mera vicenda classificatoria o, come si suol dire, di tassonomia.
Attiene le banche per quanto riguarda la dolorosa storia della voce 130 del conto economico, quella che raccoglie le perdite su crediti ed annessi: ma soprattutto attiene le imprese per quanto riguarda la corretta classificazione a voce propria, ovvero l’appostazione di un credito in bonis, in osservazione, a incaglio o a sofferenza. In altre parole, a seconda del grado di deterioramento del credito, ci sono diverse classificazioni, diversi gradi di assorbimento di capitale, nel caso delle sofferenze diverse evidenze “esterne”. Se infatti incagli e sofferenze assorbono la medesima quota di patrimonio, delle sofferenze sono resi edotti tutti, attraverso la Centrale dei Rischi, mentre degli incagli si ha contezza solamente in Banca d’Italia.
Facile immaginare che ogni istituto di credito abbia ritardato la “corretta appostazione a voce propria”: altrettanto facile immaginare quanto i verbali ispettivi di Banca d’Italia siano pieni, negli ultimi tempi, di rilievi -e di sanzioni- proprio sulle “mancate corrette appostazioni”.
Stante la dura cervice di banche (ed imprese) nel prendere atto della crisi, Banca d’Italia ha pensato bene di applicare, con soli 12 (sic) anni di ritardo, la normativa europea in materia di “incagli oggettivi”.
Chissà se a Viale dell’Astronomia sanno cosa sono? Gli “incagli oggettivi” sono le posizioni scadute e sconfinanti dopo 90 giorni, ovvero le posizioni di difficoltà ritenuta temporanea ma che, allo scadere del 59esimo secondo della 23esima ora dell’89esimo giorno, che la banca voglia o no, sono segnalate a incaglio.

Con tutto quello che ne segue: non possono ritornare in bonis perché “si tratta di un cliente storico”, non possono ritornare in bonis neppure per le garanzie che avessero fornito, non possono ritornare in bonis se non vi siano elementi oggettivi che indichino che la difficoltà è stata superata. Non possono ritornare in bonis se non si presenta un piano di ristrutturazione serio e credibile, come diceva il Maestro prof.Giampaoli, che contenga significativi elementi di discontinuità rispetto al passato e non, come al solito, come ho sempre visto fare in questi anni, promesse finanziarie basate su ipotesi di consolidamento del debito e sull’ennesimo immobile da vendere.
In altre parole, il divieto di accanimento terapeutico e, soprattutto, il divieto di somministrare aspirine quando servirebbero antibiotici, sono stati sanciti ufficialmente: chissà se a Radio 24 lo sanno?

(segue: la puntata precedente https://johnmaynard.wordpress.com/2014/06/30/la-misurazione-del-rischio-di-credito-quello-che-le-imprese-non-sanno/ è stata pubblicata il 30 giugno 2014)

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La misurazione del rischio di credito (quello che le imprese non sanno).

La misurazione del rischio di credito (quello che le imprese non sanno).

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Per ragioni di orari di fine lavoro mi capita raramente di ascoltare Sebastiano Barisoni, su Radio 24, di cui è peraltro vice-direttore, quando conduce Focus Economia (mentre cerco di non perdermi mai la Zanzara, di Cruciani e Parenzo).
Mi colpiva, perlomeno fino a qualche mese fa, la pervicace ostinazione con la quale il giornalista insisteva nella demonizzazione di Basilea 3 e delle sue regole, con l’ovvia argomentazione che il tutto avrebbe condotto al credit crunch e che non se ne sentiva proprio la mancanza. In buona sostanza, e non me ne voglia il giornalista per la semplificazione, le imprese soffrono, soffrono per colpa delle banche che non danno più credito –oltre che, ovviamente, dello Stato che non paga- e poiché le colpe della crisi sono attribuite alle banche, bisogna in qualche modo risarcire l’impresa, in un solo modo: concedendole più credito.
La conclusione di tanti dibattiti, interviste, discussioni e articolesse, d’altra parte, non è mai stata, perlomeno da parte imprenditoriale, la pronuncia di una qualche forma di autocritica; anche quando si parla di bolla immobiliare (e non c’è crisi d’impresa che il sottoscritto abbia visto in questi anni che non sia stata condita, prima, durante o dopo, da una qualche idiozia immobiliare) la colpa è stata delle banche che l’hanno foraggiata, a mo’ di pusher.
Se questo è il mainstream, non ci si deve stupire se la completa applicazione delle regole che impongono alle banche un orientamento maggiormente conservativo e basato sul privilegiare il rafforzamento del capitale e la liquidità a scapito della redditività sia progressivamente slittata, grazie all’azione delle lobbies bancarie e imprenditoriali, fino al 2020.
Ciò che invece continua a stupirmi (che avesse ragione il mio Maestro Attilio Giampaoli quando mi definiva “illuso”?) è il vuoto pneumatico che circonda la già attuale, in quanto già operativa, applicazione di regole riguardanti il processo del credito, e che vale sommariamente la pena di esaminare. È bene rammentare, al riguardo, che la prima volta che Banca d’Italia si è occupata di merito di credito è stato nel 1998, tra l’altro indirettamente, ovvero parlando di controlli successivi e non della valutazione ex-ante. Da allora, e fino a luglio 2013, silenzio e vuoto. Poi, esattamente un anno fa, escono tre capitoli che aggiornano la Circolare 263 del 2006 (la Bibbia regolamentare in materia) e che, soprattutto, modificano radicalmente il panorama delle istruttorie.
E dunque, madamine, il catalogo del processo del credito è questo (la dicitura “nuovo” tra parentesi identifica le aggiunte dell’anno scorso):
• misurazione del rischio (nuovo);
• istruttoria;
• erogazione;
• controllo andamentale e monitoraggio delle esposizioni (nuovo);
• revisione delle linee di credito;
• classificazione delle posizioni di rischio (nuovo);
• interventi in caso di anomalia;
• criteri di classificazione, valutazione e gestione delle esposizioni deteriorate (nuovo).

Non può sfuggire, anche senza svolgere l’esegesi del testo, che la sottolineatura riguardante la misurazione del rischio, inserita al primo posto di tutto il processo del credito, mette in fuorigioco sia tutti coloro che continuavano a pensare che, alla fine, contassero sempre e soltanto le garanzie (molte imprese continuano a rapportarsi con gli istituti di credito con la stanca ed abusata frase: ”Ma cosa vuoi da me, ti ho pur dato le garanzie?”), compresi i somari che se le sono comprate a debito, sia tutti gli addetti fidi –e i consiglieri di amministrazione- abituati a far leva sui criteri della storicità del rapporto, della conoscenza personale, degli indici di liquidità, del famigerato grado di capitalizzazione.
La misurazione del rischio impone, infatti, la definizione del rischio e la sua oggettivazione (chissà cosa direbbe Barisoni al riguardo…), ovvero il suo ancoraggio a parametri certi: e poiché la capacità restitutiva poggia sulla capacità di reddito, è proprio sulla verifica dell’esistenza di quest’ultimo che occorre insistere, attraverso la misurazione
1. della consistenza del risultato operativo e della sua variabilità/volatilità nel tempo (il rischio, appunto);
2. della capacità del risultato della gestione tipica di coprire gli oneri finanziari, secondo i ben noti parametri (se gli oneri finanziari superano il 75% del risultato operativo e quindi fai fatica a pagare gli interessi, come potrai rimborsare il capitale?);
3. del rapporto tra debiti finanziari e Mol, al fine di misurare, attraverso il moltiplicatore, se si sia raggiunto oppure no il valore/merito di credito, ovvero l’ammontare massimo di fidi concedibile ad un’impresa (se il Mol sta 10 volte dentro i debiti, di cosa stiamo parlando?);
4. infine, se c’è reddito, può esserci anche cassa (si chiama autofinanziamento, ovvero cash flow rettificato dalla variazione del circolante, altro che indici di liquidità: altrimenti, si sta parlando del nulla).
Detto questo, e per non annoiare i miei piccoli lettori, rimane, per ora, da ricordare che il credito, subito dopo essere stato erogato, va monitorato, e non in base a criteri soggettivi, ma oggettivi: e che la stessa istruttoria di primo affidamento diventa sempre più cruciale e decisiva, poiché lo scopo, come ricorda il regolatore, è l’applicazione di criteri di sana e prudente gestione.
Quindi, forse e finalmente, le banche non finanzieranno più le idee (nuovi tabacchini, nuovi bar, nuovi ristoranti, nuovi alberghi, nuovi immobili, nuovi esercizi commerciali)?
Non ci giurerei, ma sarebbe già un buon inizio che le imprese –e soprattutto le loro associazioni di categoria ed i professionisti che le assistono- cominciassero a chiedersi cosa si può fare e cosa non si può fare a debito: e che le banche non si sostituissero impropriamente al mercato, mantenendo in vita zombies, ma lo facessero lavorare.
Ne riparliamo.

(segue).

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

Scusi, ma lei è un “rientrista”?

Scusi, ma lei è un “rientrista”?

20130701101729

Questa domanda me la sono sentita rivolgere da un gruppo di bancari, durante una lezione in Calabria nella settimana appena finita. Ho inteso la connotazione “scontata” nella richiesta ed ho approfondito, scoprendo assai in fretta quello che sapevo già, ovvero che quanto stavo affermando era in linea con le indicazioni dell’ufficio fidi ma andava “contro” le esigenze della rete. La rete, il territorio, lo sportello, il rapporto con il cliente, la “trincea”: la traduzione che dei modelli organizzativi delle banche viene fatta da chi in banca chi ci lavora è spesso semplicistica, ma efficace. Gli alti comandi, compreso l’ufficio fidi (ed i suoi sgherri, come il sottoscritto) stanno al caldo nelle retrovie, la rete, appunto, cammina nel fango delle trincee. Quando metti qualcuno a rientro sei un “rientrista” e non ti rendi conto che il cliente ha dei problemi, che dobbiamo aiutarlo, che dobbiamo venirgli incontro: dobbiamo venirgli incontro anche a costo di sembrare ridicoli, come l’ignoto redattore di un’istruttoria che ho visto in Veneto, conclusasi con “il cliente è sull’orlo dell’abisso (sic)”.

Non so come impatteranno realmente le nuove regole di Basilea 3 e le sue declinazioni, compresa quella di cui si parla di meno, ovvero il R.A.F. (Risk Appetite Framework) sul comportamento delle banche italiane, specie quelle minori, ovvero quelle che intrattengono relazioni privilegiate con le Pmi: ma ho la sensazione che molte di esse avrebbero desiderato si avverasse la richiesta, il quasi-mantra, di Sebastiano Barisoni, vice-direttore di Radio 24, che per mesi ha continuato a dire che Basilea 3 sarebbe stata una sciagura per tutti e che se ne doveva ritardare l’avvio il più possibile. E’ singolare che chi ha fatto del mercato la propria ragione d’essere (Confindustria, perlomeno sulla carta) dal mercato rifugga, scansando la più solare delle evidenze: continuare a finanziare imprese decotte distorce il mercato e la concorrenza, ingessa risorse che non saranno più recuperate e, soprattutto, che non potranno essere allocate in maniera efficiente ad imprenditori e progetti meritevoli, a settori non comatosi come l’edilizia, a pmi marginali.

Essere “rientristi” non significa essere malvagi ed insensibili (il problema, peraltro, non mi attanaglia, dormo ugualmente): essere “rientristi” significa avere a cuore il mercato ed i suoi meccanismi. Più ne ritarderemo la rimessa in funzione, più tardi si avvierà la ripresa.