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ABI Banche di credito cooperativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Moratoria dei debiti PMI Relazioni di clientela

Operazioni lunghe e costose.

Scrive Dario Di Vico, sul Corriere del 18 gennaio, a proposito della possibilità che si proceda -ed a quali condizioni- al prolungamento che “un passaggio qualificante di quest’ ipotetico patto per lo sviluppo è quello di una partnership tra le associazioni di categoria e il sistema bancario per migliorare il rating dei Piccoli, il cosiddetto merito di credito. Per una banca conoscere in profondità lo stato di salute di una piccola azienda è un’ operazione lunga e costosa, se invece questo gap informativo viene colmato da una rapporto costante con le associazioni e i Confidi, le banche possono conoscere di volta in volta meglio le esigenze dei clienti, le particolarità dei territori e nel contempo mettere a punto i prodotti più congeniali. La partnership è propedeutica ad affrontare il tema della crescita dimensionale dei Piccoli (se non ora, quando?), del rafforzamento delle competenze interne alle aziende e dell’ internazionalizzazione.

L’articolo è di grande respiro e tocca, con la consueta (ed insolita, in un giornalista) capacità di approfondimento di Di Vico, molte delle questioni che il rapporto banca-Pmi da sempre sollecita in Italia. Nel contempo, pur consapevoli che il dibattito e le numerose iniziative di conoscenza e di approfondimento che si devono al vice-direttore del Corriere sono assi meritori e degni di ripresa- non si può non nutrire qualche perplessità. Non certamente su internazionalizzazione, creazione di partnership sul territorio, aggregazioni distrettuali e non, spinta verso l’export etc… No, il punto non è questo.

Il punto dolente riguarda, al solito, la spasmodica ricerca, soprattutto, da parte delle imprese, e non solo Pmi, di quelli che Di Vico chiama “strumenti più congeniali“. Ovvero, riprendendo un tema caro a Piccola Industria di Confindustria, troviamo il modo di mettere capitali senza tirare fuori un soldo, oppure facciamoli mettere a qualcun altro, Stato, distretto o Confidi che sia. Il capitalismo italiano, condannato ad essere straccione a qualunque livello dimensionale, sembra girare a vuoto, fra parole d’ordine e petizioni di principio, senza riuscire ad andare al nocciolo dei problemi e, peraltro, confondendo(si) spesso le idee.

Che per le banche sia costoso conoscere le imprese, è ben noto: ma è anche noto che dovrebbe essere il loro mestiere, per il quale sono lautamente pagate, quello di saper pesare e valutare il rischio. Il gap informativo non può venire colmato dal rapporto con Associazioni e Confidi il cui ruolo sindacale e di lobbying li pone in evidente conflitto di interessi con la banca, né quest’ultima può pensare di delegare il proprio lavoro al soggetto, affidato o affidando, e/o ai suoi rappresentanti. Le banche sono alle prese con problemi di margini, difficile pensare che abbiano voglia di fare investimenti, soprattutto se si tratta di investimenti in capitale umano, pur con la lodevole eccezione delle Bcc. Forse sarebbe il caso che le imprese riprendessero in mano l’iniziativa, non appena nel senso della lamentazione, per la quale non hanno bisogno di stimoli, quanto piuttosto in quello della proposizione. Consapevoli che non si può essere capiti se non si è i primi a capire come si sta lavorando, da dove origina il proprio fabbisogno finanziario, perché manchi così spesso la liquidità; e che il problema non è quello della copertura, ma della sostenibilità. Solo allora, potremmo anche immaginare che si possa cominciare a scegliere, fra banche che non sono tutte uguali, quella con cui instaurare un rapporto di partnership. Si può chiedere tanto solo se si offre tanto, mantenendo il tiro alto: e non è appena un questione tecnica, è anche culturale. Non mancano i progetti in questo campo, né difettano le iniziative: ma finché si continuerà a parlare di nuovi strumenti, senza affrontare il nodo del fabbisogno finanziario d’impresa, continueremo a parlare di vestiti senza aver preso le misure al cliente. E senza sapere se potrà pagare l’abito che gli abbiamo cucito addosso.

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Banche Borsa Capitalismo Crisi finanziaria Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Uno, eterno, immutabile.

Era l’Essere di Parmenide, l’unico filosofo di cui rammenti qualcosa. A quanto pare è anche la descrizione, ormai stanca e ripetitiva, perlomeno nelle parole dei protagonisti, del dibattito su banche, Pmi, vincolo finanziario allo sviluppo, nuovi strumenti per etc…

Promosso da Piccola Industria di Confindustria, guidata da Vincenzo Boccia, noto per le sue idee innovative, si è tenuto a Prato in questi giorni il Forum della Piccola Industria. Senza voler banalizzare l’evidente importanza della presenza delle Pmi nel tessuto imprenditoriale italiano, riesce tuttavia difficile non rimanere delusi dal livello del dibattito in materia di finanza per le Pmi, rapporto banca-impresa e strumenti finanziari, fermo alle consuete e stantie parole d’ordine.

Solo qualche esempio, tratto dall’articolo dell’inviato del Sole 24 Ore, Cesare Peruzzi, riportate nel servizio di sabato 16 ottobre.

Antonio Vigni, Direttore Generale del gruppo MontePaschi, ha affermato che “c’è bisogno di capitalizzare le aziende. In vista dei nuovi parametri di Basilea, che ancora non conosciamo, è chiaro che il tema di fondo riguarda proprio la capitalizzazione: banche e imprese sono sulla stessa barca, nella speranza che il regolatore tenga conto della diversità del modello creditizio italiano, rispetto a quello delle banche d’affari.”

A parte che il regolatore italiano può tenere conto di tante cose, ma difficilmente riuscirà a controllare la sprovvedutezza di coloro che si comprano banche a prezzi d’affezione per poi doverne rivendere pezzi nummo uno, pressati dall’Antitrust; a parte questo, la stessa barca non sembra proprio quella che descrive Vigni, con le Fondazioni riottose ad investire capitali e gli imprenditori che, pur avendo scudato, di ricapitalizzare con soldi buoni non vogliono sentire parlare.

Così, anche al netto di 1,2 miliardi portati in dote dal Fondo Italiano d’investimento, il richiamo alla politica economica sembra sostanziarsi nell’esortazione allo Stato a fornire capitali per un capitalismo mai così tanto straccione, al punto da non nascondere neppure più (almeno la decenza!), la propria intenzione di chiedere denari pubblici. Così, dopo aver ottenuto la moratoria, un periodo che per i più si è risolto nella semplice attesa di “tempi migliori”, ora si finge di ignorare che la crisi ha colpito soprattutto i conti economici e si è manifestata nel blocco del capitale circolante netto operativo: e che quando il fabbisogno deriva da questo, non servono altro che i denari dell’imprenditore, non quelli pubblici.

Denari, peraltro, pochi e scarsi per la destinazione invocata da Confindustria. Così saltano fuori i ben noti strumenti, il private equity e, nemmeno tanto sullo sfondo, la Borsa, come exit way miracolosa. Da ormai molti anni, precisamente da quando lo scoppio della bolla internet ha raso al suolo ogni sorta di velleità di finanziamento all’innovazione, giusta o sbagliata che fosse, mediante capitale di rischio, i fondi italiani di private equity e di venture capital si occupano solo di finanziare operazioni che con la crescita hanno poco a che fare, evitando i rischi delle start-up e stando alla larga da ogni operazione che non abbia una sorta di solidità garantita dal ciclo vitale dell’impresa target. Davvero qualcuno pensa che la soluzione sia nell’investimento in capitale di rischio? Né Boccia né Vigni, che pure non dovrebbero ignorarlo, sottolineano che il problema, per le imprese, è sempre quello dei modelli proprietari chiusi. Modelli che neppure l’investitore istituzionale in capitale di rischio può scardinare, perché poi, oltre a voler mettere il naso nella gestione aziendale, vuole pure essere liquidato. E se non lo fa l’imprenditore (cui qualcuno dovrebbe spiegare che l’investimento in venture capital si chiude così), lo farà la Borsa: naturalmente costosa, naturalmente piena di obblighi, di problemi e di quanto altro, invece, è meglio fuggire.

Invece da Vigni arriva il messaggio che se le imprese si capitalizzassero -preferibilmente con denari altrui, of course– “le banche miglioreranno la loro capacità di valutazione e rafforzeranno il legame con il tessuto economico locale.” Ma proprio a nessuno è venuto in mente di chiedere ai capitalisti di fare il loro mestiere? All’imprenditore di rischiare del suo? Mentre le parole d’ordine si depositano sulla carta, lasciando lo stato dei rapporti banca-impresa così com’è, forse vale la pena ricordare, a conclusione di questa riflessione,  che se i capitali “scudati” fossero stati impiegati per ridurre l’esposizione bancaria delle imprese, si sarebbero evitati non solo dibattiti inutili, ma soprattutto i tempi, sempre troppo lunghi, di fuoriuscita dalla crisi.

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Banche Borsa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Fra “partenariato” e “solitudine”: come banalizzare il dibattito sul rapporto banca-impresa.

Viene definito “appello” quello lanciato il 29 settembre, nel corso di un dibattito presso la sede del Sole 24 Ore, dal presidente di Piccola Industria di Confindustria, Vincenzo Boccia. L’appello è ad avere banche forti ed imprese forti, il convegno “La finanza per le imprese” incentrato sugli strumenti per rafforzare il patrimonio. Nel servizio, a firma di Cristina Casadei sono riportate affermazioni e proposizioni talmente vecchie e banali da far sorgere il dubbio che il dibattito risalisse a 10-15 anni fa. Mauro Costa di Banca Arner -banca svizzzera, peraltro- si premura di farci sapere che “come banca Arner noi siamo i primi a voler alleviare la solitudine (sic) del piccolo imprenditore che va aiutato nella relazione sempre più impersonale con il sistema bancario prodotta dalle nuove regole“. Paolo Casiraghi, consigliere di Banca Arner osserva, per esempio, che deve esserci un nuovo (nuovo?) approccio al patrimonio: «Ci sono dei patrimoni privati che non sono correlati con quello dell’azienda e che possono essere costituiti sia da immobili che da liquidità – osserva il manager –. È anche su questi che devono essere costruiti i piani per l’accesso al credito». I piani industriali «spesso peccano e devono essere rimessi in linea perché gli aspetti tecnici introdotti da Basilea 3 sono molto più demanding (demanding?)e le imprese non sembrano essere organizzate», aggiunge Costa. Il punto fondamentale è capire «come le banche leggono le imprese – dice Casiraghi –. In genere prendono in considerazione un dato sopra tutti gli altri e cioè l’indice di fallimento. Ma non si può tradurre l’imprenditore e la sua azienda solo in questo numero. Noi cerchiamo di costruire un piano considerando tutto il patrimonio, in modo tale che emerga un fattore di rischio chiaro».

Dunque la novità sarebbe quella di “considerare tutto il patrimonio“: la cara vecchia confusione del patrimonio personale dell’imprenditore e l’azienda, le garanzie come presidio non di seconda, ma di prima linea del credito. Non l’indice di fallimento (si presume che con ciò si intenda la PD o probability of default) ma, probabilmente, la PD e le garanzie. Una novità davvero sconvolgente.

L’articolo continua affermando, incredibile auditu, che “a poter concorrere al rafforzamento patrimoniale delle imprese però non ci sono solo le banche. C’è la Borsa per esempio, che però in Italia non sembra aver riscosso il successo di altri paesi. «I motivi per cui non aumentano le imprese quotate sono tanti – spiega Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana–, per esempio il fatto che gli imprenditori non vogliono perdere il controllo dell’azienda». Jerusalmi ci rivela verità inaspettate, non avevamo mai letto nulla di simile, niente che assomigli alla “propensione ai modelli proprietari chiusi“.

La conclusione, evitando di parlare di “internazionalizzazione” e della necessità di “fare sistema”, una volta constatato che “il salto numerico tentato attraverso la segmentazione che avrebbe dovuto rispondere alla frammentazione del tessuto industriale italiano non ha dato grandi risultati e forse questo è il segno che la Borsa non necessariamente è la risposta per le Pmi (ben arrivati!) va oltre ogni attesa. Infatti, “oltre alla Borsa ci sono anche molti altri strumenti come per esempio i fondi, i fondi specializzati, il private equity, il venture capital.” Se fosse una tesi, sarebbe una compilativa, nessun punto. Il guaio è che non è una tesi, sono le idee di Confindustria ed il frutto del dibattito presso il primo quotidiano economico italiano. Auguri.