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La colpa? E’ delle banche.

La colpa? E’ delle banche.

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Apprendo, dopo averne scritto su inter-vista.it che la vicenda del salvataggio Aeradria ha visto l’inaspettato e certamente importante intervento di Banca Carim, disposta a intervenire nel capitale, assumendo di fatto il ruolo di banca di sistema (ciò che in Italia sta svolgendo da ormai molti anni Banca Intesa, ad esempio con l’intervento in Air One e non solo). Per fare la banca di sistema ci vuole certamente ciò che i francesi chiamano physique du rôle e Banca Carim risanata e rinnovata nei suoi vertici pare in grado di farlo, sia per carisma, sia per managerialità. Mi riesce più difficile immaginare i termini economici di uno sforzo che per la principale banca del territorio sarebbe duplice: se da un lato infatti essa sarebbe chiamata a mettere a disposizioni nuove risorse finanziarie, dall’altro dovrebbe trasformare in tutto o in parte i suoi attuali crediti in capitale, con un evidente irrigidimento gestionale e peggioramento dei parametri di Vigilanza (le azioni di una società non quotata nell’attivo di una banca non rappresentano nulla di buono per la liquidità). Lo sforzo di Carim, d’altra parte, è destinato a fare i conti con una vera e propria mancanza di cultura del rapporto banca-impresa, straordinariamente espressa anche in questo caso dai vertici di Aeradria. Leggo, infatti, su inter-vista.it la precisazione di Banca Carim sulla nota vicenda Aeradria. In particolare da “Carim chiariscono anche che “il progetto potrebbe consentire il salvataggio di Aeradria e tiene naturalmente conto delle indicazioni fornite dal Ministero dello Sviluppo Economico con l’”Atto di indirizzo per la definizione del Piano nazionale per lo sviluppo aeroportuale”, emanato il 29 gennaio 2013, e che “Banca Carim non si sente in alcun modo chiamata in causa da chi afferma che “Aeradria ha realizzato gli investimenti necessari confidando nella concessione di credito bancario” e che la “mancata erogazione ha provocato la crisi della società”: chi ne parla certamente si riferisce ad una nota operazione di finanziamento, organizzata da un pool di banche al quale Banca Carim era assolutamente estranea, che all’ultimo momento non si è concretizzata per il disimpegno di alcuni Istituti di Credito, e di cui a Banca Carim non potrebbe essere attribuita alcuna responsabilità diretta o indiretta”.”

Affermare che si fanno investimenti confidando nella concessione del credito bancario, ricorda il peggiore e più sprovveduto dei piccoli imprenditori, la cui sub-cultura gestionale si esprime di norma nel “qualche banca me li darà, quei soldi.” Che in aggiunta a questo non un piccolo imprenditore, ma i vertici di una grande società pubblica, e per giunta per azioni, dichiarino che “la mancata erogazione ha provocato la crisi della società” significa persino ignorare i fondamentali dell’economia aziendale. Da questo, più che da altro, dovrebbe guardarsi Banca Carim: alla quale, peraltro, non resta molta scelta.

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A saldi invariati.

A saldi invariati.

Accade che per lavoro, che grazie a Dio non manca di questi tempi, io sia invitato a parlare di project bond e di possibilità per le Pmi organizzate sotto forma di srl, di emettere propri titoli di debito. Accade dunque che io debba studiare e prepararmi, anche grazie ad un’ottima collaboratrice che ha predisposto il materiale,  su un argomento che il Governo Monti ha inserito, tra l’altro, nel “Cresci-Italia”, sbandierando il provvedimento come possibilità di apertura al mercato dei capitali.

La lettura della normativa è stata deprimente, l’esposizione in aula, nonostante tutto, altrettanto triste (qualche partecipante, man mano che ci si inoltrava nella trattazione, chiedeva, letteralmente, un “colpo di scena“). Finanziarsi attraverso propri titoli di debito conviene, ai tassi che le normativa consente ai fini delle deducibilità degli interessi passivi dal reddito dealla società emittente, solo per elevatissimi ammontari di emissione: la ritenuta alla fonte in misura ridotta si applica solo se il tasso dell’emissione è pari all’1,25% (sic). La ratio del provvedimento è fin troppo chiara: mantenere invariata la pressione fiscale, senza agevolazioni sostanziali, ma solo formali, che servano politicamente ma che siano innocue ai fini, appunto, dei saldi di bilancio. Ma poiché i mercati non ragionano a saldi invariati ma in base alle convenienze della combinazione rischio-rendimento, per quale ragione i mercati medesimi dovrebbero “digerire” emissioni di titoli di debito privi di rating, emessi da soggetti “corporate” le cui performance, probabilmente, richiederebbero tassi di finanziamento ben più elevati? La constatazione, assai desolante, che si trae dall’esame di tutta la normativa, è che avrebbero convenienza ad indebitarsi emettendo propri strumenti di debito proprio i cattivi prenditori: che tuttavia, come è noto, sono razionati. D’altra parte, perché gli azionisti di un buon prenditore dovrebbero scegliere di indebitare la propria società attraverso un sistema così bizantino, anziché andare direttamente sul mercato? Ultima domanda, per la quale il Presidente Monti ed il ministro Passera hanno sicuramente una risposta che non possono, politicamente, condividere in pubblico: l’apertura al mercato dei capitali delle Pmi quanto dipende, davvero, da strumenti innovativi e non, piuttosto, dalla sempre scarsa voglia delle Pmi di farsi “scrutinare” dal mercato?

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Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Grazie all’ottimo Carlo Alberto Carnevale Maffè e con il contributo fattivo di Fabio Bolognini (e l’intenso appoggio morale del sottoscritto) è stata organizzato nella giornata di ieri, a Milano, un incontro di discussione sul tema del credit crunch e del problematico rapporto banca-impresa. Poiché gli interlocutori, riuniti solo l’egida dell’associazione The Ruling Companies, erano di assoluto spessore (fra gli altri, Davide Croff, Franco Keller e il direttore di Confindustria Bergamo, Venturini), le riflessioni che ne ho tratto sono tanto più rilevanti perché provengono da osservatori qualificati, personaggi del mondo dell’imprenditoria e della finanza attenti alla realtà, leader non banali nel loro settore.

La prima riflessione marziana che emerge dal pomeriggio di ieri riguarda quelle che Akerlof e Shiller chiamano “narrazioni“, ovvero il modo di rappresentare la realtà che qualcuno utilizza. Le narrazioni sono personali, ad evidenza, pretendere che siano oggettive è negare il valore dell’esperienza di chi le condivide: ma ascoltare, per esempio, che “ormai quasi tutte le imprese adottano processi di programmazione e pianificazione economica e finanziaria” mi ha fatto domandare se vivere nella metropoli sia così distorsivo della realtà. La programmazione finanziaria, come emergeva da una ricerca che il sottoscritto, il prof.Comana ed altri colleghi dell’Università di Bergamo e non solo presentammo nel 2004, proprio a Confindustria Bergamo, veniva adottata, anche in quel caso lì (non proprio una zona sottosviluppata e periferica) da n.2 (due: two; deux; zwei; dos) imprese sul totale del nostro campione, di cui non poche quotate. Che riferimento alla realtà è quello che è stato offerto ieri? Come hanno fatto certe imprese ad inguaiarsi se non per mancanza di programmazione economico finanziaria? Di cosa stiamo parlando?

Seconda riflessione marziana. Mentre si afferma che le banche hanno smarrito la capacità di analizzare e valutare il merito di credito (sacrosanto), incolpandone la delega ai computer per la valutazione del rischio (qualcuno di quelli che hanno creato valore in quel modo c’era ieri? se c’era, si vergognava? o si è dimenticato? Croff, presidente di due banche brillantissime?), si sostiene, con impunità degna di miglior causa, che in questo modo non emergono gli intangibles, così decisivi nella valutazione delle imprese. Ancora gli intangibles? Un disco rotto, che nemmeno la creazione di valore si porta più, eppure qualcuno ci prova. Domanda corrosiva di JM fatta via twitter, e non amplificata perché corrosiva: ma se gli intangibles sono così importanti, chi càspita ha comprato tutti i tangibles che intasano il mercato immobiliare, quello delle garanzie e la liquidità bancaria?

Terza riflessione marziana. In palese spregio al principio di non contraddizione, il dir.gen. di Confindustria Bergamo afferma  che: a)-se si reca nelle valli e lungo i litorali (come la nebbia) a parlare con gli associati, non può parlare loro di finanza e di fabbisogno finanziario, perché non ne capiscono nulla; b)-che alla faccia di tutto ciò, fra i 4 punti principali che la sua associazione enfatizzerà, vi è, oltre alla globalizzazione, ai tempi accelerati, all’internazionalizzazione, la responsabilità sociale dell’impresa. La responsabilità sociale dell’impresa: detto dal dir.gen.dell’associazione territoriale che ha espresso il neo-presidente di Confindustria, non fa bene sperare per la soluzione dei problemi del rapporto banca-impresa. Probabilmente, come ha affermato uno dei relatori, esiste il credit crunch ed il credit crunch “percepito”: a Bergamo non percepiscono (scommettono sulle partite di calcio?).

Quarta riflessione. Uno dei principali cattivi pagatori quotati alla borsa italiana, che afferma di avere tempi lunghi ma di essere sempre regolare (regolare nel tirare il collo ai fornitori, per esempio contestando regolarmente l’ultima tranche di pagamenti) se ne viene fuori affermando che la crisi di liquidità del circolante è causata dall’inasprimento dei requisiti patrimoniali imposta dalla BCE e dalle regole di Basilea 3, quelle che entreranno in vigore nel 2019. Any suggestion is welcome.

Infine. In un soprassalto di crudo realismo, quello che ho notato essere talvolta chiamato cinismo o “essere corrosivi”, qualcuno ha detto che

  1. i margini delle imprese di sono compressi e che non è più conveniente investire per gli imprenditori nelle imprese;
  2. per risolvere le crisi ci vogliono i soldi.

E che i soldi sono finiti. Bene. Se è così, qualcuno è in grado di spiegare perché ai salvataggi dovrebbero pensare solo le banche? Con i soldi dei risparmiatori?

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Le imprese subprime e le conseguenze economiche dello spread.

Le imprese subprime e le conseguenze economiche dello spread.

Foto di Franco Monari

Mentre la stupefacente Angela Merkel loda le riforme italiane, non rendendosi conto che Monti non ha ancora fatto nulla, così come il suo predecessore Silvio Berlusconi, stupisce l’assenza dal dibattito della vera questione che turba (o dovrebbe turbare) i sonni dei banchieri: quella che riguarda la qualità del credito verso le imprese, ovvero i cosiddetti impieghi economici (mentre i titoli di Stato sono impieghi finanziari). Oggi, durante un seminario, mi è stato chiesto da un funzionario addetto ai fidi di una “banca del territorio” quali parole dovesse usare per spiegare ad un imprenditore che deve chiudere, quali fossero gli argomenti da usare, quali i termini per convincerlo ad abbandonare la partita. Non era un discorso fatto tanto per passare il tempo, era serio; ed io altrettanto seriamente ho cercato di rispondere, spiegando ciò che ultimamente mi pare essere sempre di più l’acqua calda, ovvero i fondamentali che dicono se un’impresa sta in piedi e perché. La riflessione, amara, che rimane dalla giornata di oggi riguarda l’incapacità, persino per la banca di relazione, di rapportarsi seriamente fino in fondo con i propri clienti: non per incapacità, non per difetto di competenza. Letteralmente, per inesperienza. Non riescono a pensare se non ad una relazione che va sempre bene, che non ha problemi e che, se li ha, li ignora (come con le operazioni di consolidamento e con la moratoria). Quanto alle imprese, il panorama è ancora più desolante, tanto più riflettendo a quello che accadrà a breve quanto gli effetti dello spread si ripercuoteranno sui tassi attivi praticati alle Pmi. Non è difficile immaginare che si leverà alto il lamento delle Pmi, vessate dal sistema bancario: quello stesso sistema, incapace di aiutare le imprese a comprendere l’importanza del capitale di rischio quando ancora si poteva fare qualcosa. Adesso, forse, non resta davvero che usare la scure.

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Uno, eterno, immutabile.

Era l’Essere di Parmenide, l’unico filosofo di cui rammenti qualcosa. A quanto pare è anche la descrizione, ormai stanca e ripetitiva, perlomeno nelle parole dei protagonisti, del dibattito su banche, Pmi, vincolo finanziario allo sviluppo, nuovi strumenti per etc…

Promosso da Piccola Industria di Confindustria, guidata da Vincenzo Boccia, noto per le sue idee innovative, si è tenuto a Prato in questi giorni il Forum della Piccola Industria. Senza voler banalizzare l’evidente importanza della presenza delle Pmi nel tessuto imprenditoriale italiano, riesce tuttavia difficile non rimanere delusi dal livello del dibattito in materia di finanza per le Pmi, rapporto banca-impresa e strumenti finanziari, fermo alle consuete e stantie parole d’ordine.

Solo qualche esempio, tratto dall’articolo dell’inviato del Sole 24 Ore, Cesare Peruzzi, riportate nel servizio di sabato 16 ottobre.

Antonio Vigni, Direttore Generale del gruppo MontePaschi, ha affermato che “c’è bisogno di capitalizzare le aziende. In vista dei nuovi parametri di Basilea, che ancora non conosciamo, è chiaro che il tema di fondo riguarda proprio la capitalizzazione: banche e imprese sono sulla stessa barca, nella speranza che il regolatore tenga conto della diversità del modello creditizio italiano, rispetto a quello delle banche d’affari.”

A parte che il regolatore italiano può tenere conto di tante cose, ma difficilmente riuscirà a controllare la sprovvedutezza di coloro che si comprano banche a prezzi d’affezione per poi doverne rivendere pezzi nummo uno, pressati dall’Antitrust; a parte questo, la stessa barca non sembra proprio quella che descrive Vigni, con le Fondazioni riottose ad investire capitali e gli imprenditori che, pur avendo scudato, di ricapitalizzare con soldi buoni non vogliono sentire parlare.

Così, anche al netto di 1,2 miliardi portati in dote dal Fondo Italiano d’investimento, il richiamo alla politica economica sembra sostanziarsi nell’esortazione allo Stato a fornire capitali per un capitalismo mai così tanto straccione, al punto da non nascondere neppure più (almeno la decenza!), la propria intenzione di chiedere denari pubblici. Così, dopo aver ottenuto la moratoria, un periodo che per i più si è risolto nella semplice attesa di “tempi migliori”, ora si finge di ignorare che la crisi ha colpito soprattutto i conti economici e si è manifestata nel blocco del capitale circolante netto operativo: e che quando il fabbisogno deriva da questo, non servono altro che i denari dell’imprenditore, non quelli pubblici.

Denari, peraltro, pochi e scarsi per la destinazione invocata da Confindustria. Così saltano fuori i ben noti strumenti, il private equity e, nemmeno tanto sullo sfondo, la Borsa, come exit way miracolosa. Da ormai molti anni, precisamente da quando lo scoppio della bolla internet ha raso al suolo ogni sorta di velleità di finanziamento all’innovazione, giusta o sbagliata che fosse, mediante capitale di rischio, i fondi italiani di private equity e di venture capital si occupano solo di finanziare operazioni che con la crescita hanno poco a che fare, evitando i rischi delle start-up e stando alla larga da ogni operazione che non abbia una sorta di solidità garantita dal ciclo vitale dell’impresa target. Davvero qualcuno pensa che la soluzione sia nell’investimento in capitale di rischio? Né Boccia né Vigni, che pure non dovrebbero ignorarlo, sottolineano che il problema, per le imprese, è sempre quello dei modelli proprietari chiusi. Modelli che neppure l’investitore istituzionale in capitale di rischio può scardinare, perché poi, oltre a voler mettere il naso nella gestione aziendale, vuole pure essere liquidato. E se non lo fa l’imprenditore (cui qualcuno dovrebbe spiegare che l’investimento in venture capital si chiude così), lo farà la Borsa: naturalmente costosa, naturalmente piena di obblighi, di problemi e di quanto altro, invece, è meglio fuggire.

Invece da Vigni arriva il messaggio che se le imprese si capitalizzassero -preferibilmente con denari altrui, of course– “le banche miglioreranno la loro capacità di valutazione e rafforzeranno il legame con il tessuto economico locale.” Ma proprio a nessuno è venuto in mente di chiedere ai capitalisti di fare il loro mestiere? All’imprenditore di rischiare del suo? Mentre le parole d’ordine si depositano sulla carta, lasciando lo stato dei rapporti banca-impresa così com’è, forse vale la pena ricordare, a conclusione di questa riflessione,  che se i capitali “scudati” fossero stati impiegati per ridurre l’esposizione bancaria delle imprese, si sarebbero evitati non solo dibattiti inutili, ma soprattutto i tempi, sempre troppo lunghi, di fuoriuscita dalla crisi.

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Banca d'Italia Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese

Braccino corto 4.

“Se si passa ad analizzare nel dettaglio le modalità di ristrutturazione dei
finanziamenti si osserva che i due terzi delle imprese che hanno sottoscritto un piano di
ristrutturazione ha ottenuto un allungamento delle scadenze contrattuali o una temporanea
sospensione dei pagamenti; nel 42,5 per cento dei casi le banche hanno concesso ulteriore
credito e nel 27,2 per cento è stata accordata una riduzione dei tassi di interesse. Sono
stati invece meno frequenti accordi in cui gli intermediari sono riusciti ad ottenere
aumenti di capitale da parte dei soci (13,7 per cento) o cambiamenti negli assetti operativi
o strategici delle aziende (5,4 per cento); in circa un quarto dei casi sono state concordate
modifiche all’impianto delle garanzie.”

Banca d’Italia, Indagine sulle imprese industriali e dei servizi.

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Banche Liquidità Mariella Burani

Cosa c’è nell’agenda Burani.

Giovanni Burani

Gabriele Fontanesi, amministratore delegato di Mariella Burani Fashion Group, in una surreale intervista rilasciata a Monica D’Ascenzo e pubblicata nel Sole 24 Ore di martedì scorso, richiesto di spiegare per quale motivo le banche creditrici, che non hanno raggiunto alcun accordo con MBFG, dovrebbero invece accettare il concordato preventivo, ha risposto come segue:“Non abbiamo raggiunto un accordo con le banche perché la loro richiesta prevedeva che la famiglia Burani ricapitalizzasse la società per un ammontare di 50 milioni di euro. Il cda purtroppo non ha avuto evidenza di questo impegno e abbiamo dovuto procedere altrimenti.”

A quanto pare, anche secondo Fontanesi, la richiesta del 10% del debito accumulato dal Gruppo Burani è eccessiva ed esosa. Talmente esosa che, in effetti, giusto per parlare come si mangia, “il cda purtroppo non ha avuto evidenza di questo impegno.”

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Banca d'Italia Banche Liquidità Mario Draghi Rischi

Strumenti di qualità elevata (soldi veri).

Rinsaldare la stabilità delle banche, contenere il rischio di liquidità sono gli obiettivi principali del pacchetto di proposte regolamentari recentemente messo a punto dal Comitato di Basilea. Il patrimonio degli intermediari dovrà essere composto da strumenti di qualità elevata, veramente capaci di assorbire le perdite; la leva finanziaria verrà limitata; si attenueranno gli aspetti pro-ciclici della regolamentazione, prevedendo riserve e accantonamenti da accumulare nei periodi di forte crescita, da utilizzare quando si materializzino perdite.

Mario Draghi, intervento al Forex, Napoli, 12 febbraio 2010

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Banche Vigilanza bancaria

Morti di fame.

Juan Miranda (Rod Steiger), Giù la testa, Sergio Leone, 1971

Massimo Mucchetti, in un interessante articolo sul Corriere Economia di lunedì scorso, evidenzia i problemi che la nuova regolamentazione attualmente allo studio per le banche, nota ormai come Basilea 3, possa comportare per gli istituti di credito, soprattutto ove questa regolamentazione, come paventato, risulti più severa e restrittiva dell’attuale (quella che, per intenderci, si è rivelata ampiamente insufficiente rispetto alla crisi). La prosa di Mucchetti, normalmente critico e severo nei confronti di un sistema bancario, italiano e non, assai disinvolto, è insolitamente prodiga di preoccupazioni, fino a spingersi al punto di affermare che “il capitale faticosamente rinforzato sospendendo i dividendi, vendendo pezzi di patrimonio ed emettendo nuove azioni, crollerebbe ove venisse confermata la versione attuale di Basilea III.” In altre parole, il problema non è che di capitali finti se ne sia tenuto conto fin troppo, quanto piuttosto che usare la severità, proprio ora, provocherebbe danni all’economia reale. Come se tutte le banche dovessero per forza essere paragonate a Merril Lynch e non, invece, alla virtuosa Mediobanca. Nebbia su quanto capitale serva, afferma sempre Mucchetti. Ma è difficile pensare che ne serva di meno. Viene in mente l’esclamazione di Juan Miranda (Rod Steiger), in Giù la testa di Sergio Leone (1971), dopo aver assaltato il Banco di Mesa Verde: “Quella non è una banca: è un esercito di morti di fame.”

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Banche Crisi finanziaria USA Vigilanza bancaria

Credit crunch prossimo venturo.

Lorenzo Bini Smaghi tranquillizza, sul Sole 24 Ore dei giorni scorsi, rispetto agli effetti di Basilea 3, ovvero la revisione degli accordi di Basilea 2, in fieri in questi giorni. Nello stesso giornale, venerdì 29, Alessandro Graziani riporta i timori di Morgan Stanley la quale, in un’analisi resa pubblica in questi giorni, sostiene che il sistema bancario europeo avrà bisogno, entro il 2012, di 83 miliardi di capitale in più. Oppure, stanti gli attuali quozienti a copertura del rischio di credito, dovrà ridurre l’attivo di 1000 miliardi di euro. Paradossalmente, pare che i nuovi criteri allo studio avvantaggino maggiormente le banche USA, nell’immaginario collettivo e non solo, principali colpevoli della crisi, rispetto alle innocenti -nell’immaginario collettivo ma non solo- banche europee: fra le quali le banche italiane sarebbero vieppiù penalizzate dal fatto che le grandi banche annoverano fra i principali azionisti le Fondazioni, ovvero soggetti attenti al territorio. Lasciando stare per ora i commenti sull’applicazione concreta delle nuove norme (si potrebbero per esempio ipotizzare maggiori accantonamenti per il rischio derivante dall’attività finanziaria rispetto a quello derivante dall’esercizio del credito), le riflessioni indotte dalla notizia sono varie.

La prima riguarda la presunzione di innocenza delle banche europee, non solo indimostrabile, ma comprovata dai numerosi salvataggi effettuati dalle autorità inglesi, francesi, tedesche, olandesi e belghe. E quanto a moral hazard, non scherziamo neppure in Italia, vista ricapitalizzazione di Unicredit ed il massiccio ricorso a Tremonti.-bond di Banco Popolare e di Banca Popolare di Milano.

La seconda riguarda i timori di un credit crunch epocale: è vero che il capitale di rischio è per definizione una risorsa scarsa, in banca, ma le prediche fatte al sistema delle imprese perché aumenti la propria dotazione di mezzi propri valgono solo in una direzione? Gli azionisti delle banche sono tutti diventati pezzenti?

La terza questione: affamando la bestia, ovvero, riducendo il credito alle imprese, in concomitanza con il rientro dei capitali scudati, si potrebbe immaginare, come abbiamo già scritto, che le imprese, finalmente, ricapitalizzino in maniera significativa, riducendo di quasi la metà gli impieghi del sistema bancario a breve termine. Senza danni per l’economia, riequilibrando le strutture finanziarie, sgravando i conti economici dal peso degli oneri finanziari.

Infine, le fondazioni. Riesce difficile immaginarle come verginelle, vestali e custodi del genius loci, tutte protese al benessere locale. I CEO delle banche da esse possedute li hanno nominati e plauditi loro, li hanno confermati in funzione dei ROE, li hanno discussi, ipocritamente, solo quando i buoi erano fuggiti dalla stalla. Un po’ di dieta fa bene a tutti, non solo ai cardiopatici.