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Barack Obama Rischi Stato USA

Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).

Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).

New York, Subway, july 2011

Il principio di precauzione è una bestia strana, che risale almeno al “Vorsorgeprinzip”, il cardine della politica ambientale tedesca degli anni Settanta il quale imponeva di “provvedere prima” ai disastri (nel senso: meglio prevenire che curare). In realtà alcuni scavano ancora più indietro, risalendo ora agli anni Cinquanta, ora alla fine dell’Ottocento, ma tutti riconoscono l’importanza della figura di Hans Jonas e del suo “Principio di responsabilità”. Il principio di precauzione piace al movimento verde, piace agli interventisti economici, piace ai governi e piace alle organizzazioni internazionali, perchè fornisce a ciascuno di questi attori una fortissima giustificazione morale per “fare” sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno), ossia, per dirla in modo un poco datato, per pianificare. Proprio in un documento dell’Onu, la Dichiarazione di Rio del 1992, sta la formulazione canonica del principio: “Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l’adozione di misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale”. Il richiamo alla “cost effectiveness” è la parte più trascurata del principio. Infatti esso rappresenta un salto quantico rispetto alla tradizionale analisi costi-benefici, perchè l’accento si sposta interamente dal lato dei costi, l’onere della prova ne viene conseguentemente ribaltato (per poter fare, devo provare che non danneggerò nessuno), e l’enfasi è tutta sull’abolizione del rischio, mentre nessuna attenzione rimane per le possibilità colte oppure perse. Nelle parole di Aaron Wildavsky, lo scienziato sociale autore di “Searching for Safety”, esistono due tipi di approccio: per “tentativi ed errori” oppure per “tentativi senza errore”. Scrive: “Secondo la dottrina del ‘tentativo senza errore’ nessun cambiamento verrà consentito se non c’è una solida prova che la sostanza o l’azione proposta non farà alcun male… E’ vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti”. Per Wildavsky, chi non risica non rosica, e soprattutto non impara. Poichè la dimensione dell’apprendimento è fatalmente collettiva, l’avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza (in senso ampio, il mercato) e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente. Gli esempi sono numerosi.

Carlo Stagnaro, Il Foglio, 30 agosto 2011

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Felicità PIL Rischi welfare

Non siamo padroni del nostro destino.

Non siamo padroni del nostro destino.

L’incertezza ci si presenta così come una sorta di “precariato” dell’esistenza: ma se da un lato noi continuiamo ad aspettarci dalla tecno-scienza un controllo previsionale della natura fisica, e a rivendicare dallo Stato la tutela dei nostri diritti individuali e sociali; dall’altro lato queste aspettative e queste rivendicazioni finiscono forse con il coprire quel livello più radicale e più inquietante che sempre, poco o tanto, l’insicurezza rende evidente, e cioè che non siamo i padroni del nostro destino. Ma allora si pone una domanda: la mancanza di certezza coincide totalmente ed esclusivamente con la nostra incapacità a far fronte agli imprevisti della vita, ai casi della natura e agli accidenti della storia? Se la risposta è sì, allora l’incertezza è solo il riverbero di uno scacco, di una condanna, qualcosa come una maledizione. Ma se guardiamo più attentamente, essa è in grado di attestare anche qualcos’altro, vale a dire il nostro essere-esposti costitutivamente a ciò che accade, che ci raggiunge, ci tocca, e per ciò stesso ci spiazza, ci provoca, ci chiama in causa.
Costantino Esposito, Meeting di Rimini,23 agosto 2011

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Felicità Rischi welfare

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

A livello di esperienza individuale, sono cambiate soprattutto le nostre preoccupazioni e le nostre ansie rispetto all’incapacità di far fronte con i nostri mezzi alle minacce dell’imponderabile e del caso: «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile» . Da un lato dunque l’incertezza appare insuperabile; dall’altro lato, però, questo non significa – come ci si aspetterebbe – una rinuncia a trovare assicurazioni per l’esistenza: e da tale contrasto nasce una sempre più diffusa paura.
Così l’organizzazione sociale, che nell’epoca moderna era stata pensata come un argine rispetto all’instabilità e alla conflittualità della natura (pensiamo per esempio a Hobbes), finisce per amplificare e moltiplicare i motivi dell’incertezza. Le soluzioni che finora lo Stato sociale e assistenziale presumeva di poter garantire ai cittadini sono state scaricate sulla capacità dei singoli a trovare risposte individuali a problemi di ordine sociale ; e tuttavia il più delle volte tale capacità appare come una finzione, perché non ci sembra proprio di possedere la conoscenza e la potenza adeguate per far fronte ai pericoli e agli imprevisti della vita. E questo ha come esito «perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione». E quasi a suggello di questa breve storia dell’insicurezza moderna, Bauman conclude: «Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti».

Costantino Esposito, Meeting di Rimini, 23 agosto 2011

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Crisi finanziaria Felicità Rischi

Contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste.

Contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste.

(..) Tuttavia, questa strategia di controllo non riuscì vittoriosa come si sperava. Ancora nel XVIII e nel XIX secolo si pensava che la mancanza della vittoria definitiva sull’incertezza dipendesse da una serie di problemi non ancora scientificamente affrontati, ma che, con il progresso della scienza, alla fine essi sarebbero stati risolti. La vera novità, il cambiamento drastico, secondo Bauman, è arrivato invece negli ultimi cinquant’anni (ma io direi anche prima), quando ha cominciato a mutare lo stesso significato attribuito alla “contingenza”, cioè alla nostra condizione di essere finiti, e dunque dipendenti dai casi della natura e dagli eventi della storia. Se in precedenza, infatti, ciò che era puramente casuale, imprevisto o incontrollabile era considerato come un fenomeno marginale di disturbo, a partire dalla seconda metà del XX secolo è come se tutto invece convergesse verso la precarietà: dalla conoscenza del cosmo all’analisi dell’io individuale, dalle strutture elementari della materia alla dinamica delle società complesse, i fenomeni collaterali di disturbo venivano interpretati come «attributi primari della realtà e sua principale spiegazione». Così, «[o]ggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani».

Costantino Esposito, Meeting di Rimini, 23 agosto 2011

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Barack Obama Crisi finanziaria Mercato Rischi Risparmio e investimenti Strumenti finanziari USA

Vivere di benchmark e di automatismi.

Vivere di benchmark e di automatismi.

(..) L’ultima grande accusa è che le agenzie di rating sbagliano. Hanno valutato male i mutui subprime, ma anche Lehman Brothers o Parmalat. Vero. Però è anche vero che il crack dei mutui subprime americani non lo avevano previsto in molti. Le agenzie di rating hanno errato a valutarne l’affidabilità, ma anche tanti economisti o analisti si sono sbagliati. Idem per il crack di Parmalat: si trattava di una truffa, i bilanci erano falsi. Se però si vanno a prendere le statistiche ufficiali (fornite dalle stesse agenzie), si scopre che mediamente i casi di default sono coerenti con i rating assegnati. Se si escludono casi clamorosi, dunque, solitamente i rating sono abbastanza affidabili. Insomma: le “Triple A” vanno veramente molto meno in default delle “Singole A” o delle “B”. La verità, dunque, anche qui è forse un’altra. Le agenzie esprimono giudizi: come tali sono opinabili e soggetti a errore. Gli investitori dovrebbero prenderli come tali, piuttosto che basare le proprie scelte solo su queste pagelle. Piuttosto che vivere di benchmark e di automatismi, i gestori dei fondi dovrebbero ragionare con maggiore autonomia: così, forse, si eviterebbero anche isterismi sui mercati.

Morya Longo, Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2011

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Banche BCE Borsa Rischi

Vendite irrazionali.

Vendite irrazionali.

Fabio Pavesi, sul Sole 24 Ore di ieri, si sofferma su quelle che chiama “vendite irrazionali” di titoli bancari, chiedendosi se “c’è davvero troppo rischio sulle banche italiane e quelle vendite esasperate hanno una ragion d’essere oggettiva?  Anche perché a vendere nelle giornate più nervose non è certo il signor Rossi, cassettista con i suoi mille, duemila pezzi di Intesa o UniCredit. I volumi, che toccano nelle sedute più esasperate, addirittura il 2-3% del flottante segnalano che a vendere – o meglio a giocare contro l’Italia – sono hedge fund, fondi pensione, fondi comuni, banche, insomma investitori istituzionali da cui ci si aspetterebbe maggiore freddezza. Evidentemente la scommessa è contro l’Italia. E le banche sono il viatìco di questa puntata contro, senza quasi alcun rapporto con il vero stato di salute. Basti guardare qualche numero per accorgersene. Intesa Sanpaolo vale sul mercato 24,5 miliardi; l’altro big di Piazza Affari, UniCredit capitalizza 23,7 miliardi. Insieme non fanno neanche 50 miliardi. Che è il valore di mercato della sola Bnp Paribas, che di miliardi ne capitalizza 56 e in Borsa vale il 74% del suo patrimonio. Meritati? Forse. Sta di fatto che UniCredit per la Borsa vale la metà del colosso francese: il mercato assegna alle azioni della banca di Piazza Cordusio un valore che è appena il 37% del suo capitale proprio, che vale 64,6 miliardi. E che dire dell’altra grande banca italiana? Intesa vale, sempre secondo il mercato, meno della metà del patrimonio della banca. Quei 53,5 miliardi di capitale vengono valorizzati solo 24,5 miliardi. Certo c’è in gioco la redditività. Bnp è sicuramente più redditizia, ma la banca francese ha in pancia 5,2 miliardi di bond greci che di certo hanno un valore dimezzato rispetto ai Btp italiani. Per non parlare di Crédit Agricole, valutata metà del patrimonio netto come Intesa, ma con un’esposizione sulla Grecia non paragonabile alla banca italiana avendo il possesso dell’ellenica Emporiki Bank. E che dire del Santander? Vale in Borsa più del doppio di UniCredit. Eppure gli spread sui Bonos spagnoli sono più alti di quelli italiani e la banca ha chiuso il trimestre con profitti in calo del 38%. (Sono gli spagnoli, peraltro, ad avere proposto di ottenere credito di ultima istanza presso la BCE attraverso l’offerta, come collaterali, di Kakà e Ronaldo, che evidentemente sono già nella disponibilità bancaria quali pegni “umani” dei debiti dello stellare calcio spagnolo. NdA). Il confronto poi con la Grecia proprio non regge. Il Banco Popolare e Mps valgono sul loro patrimonio – sempre per il mercato – meno della media delle banche greche. La stessa National Bank of Greece viene valorizzata il 50% del capitale della banca. Peccato che abbia in pancia 20 miliardi di bond greci che varrano il 60% del nominale. Un vero e proprio controsenso logico. Colpa dell’«overshooting» e della sua irrazionalità.”

Pavesi è come sempre lucido e le sue affermazioni si comprendono molto bene. Il suo articolo, tuttavia, non può che fare riflettere sul concetto di razionalità, ovvero del suo contrario, quella irrazionalità che il giornalista descrive come caratteristica del comportamento di chi sta scommettendo, in questo momento, contro l’Italia. La speculazione, spesso dipinta come una sorta di rovina-famiglie di genere finanziario, non è mai irrazionale, colpisce dove sa di poter trarre vantaggi, dove spera di guadagnare, anticipando comportamenti del mercato, assumendo posizioni vantaggiose, inseguendo profitti. Il rischio, in questi casi, è sempre quello del moralismo a buon mercato, quello che tenta di dividere buoni e cattivi investitori in base ai principi che li animano; principi non scandagliabili a priori, non valutabili se non a posteriori, ma quasi sempre e soltanto sparando nel mucchio. E sempre senza chiedersi perché. Pavesi invece lo ha fatto: ma la risposta, paradossalmente, sta proprio nella razionalità, e non nel suo contrario, dei mercati. Che anche quando sbagliano, hanno sempre ragione.

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Liquidità Rischi Risparmio e investimenti

Private equity denaturato.

Private equity denaturato.

Un articolo sul Sole 24 Ore Finanza e mercati, a firma S.Fi. dà conto degli interrogativi che agitano il modo degli investitori in capitale di rischio. S.Fi. scrive che “il private equity è di fronte a un dilemma sul suo futuro: se i fondi vogliono sopravvivere devono cambiare natura e fisionomia. Meno speculazione e più credito alle imprese. Ma così rischiano di non poter mantenere l’impegno preso coi loro sottoscrittori di pingui ritorni. (…)

Ora, poi, i primi timidi segnali del risveglio stanno riportando alla luce anche i nodi irrisolti del private equity. Il «peccato originale» origina dalla promessa, in sede di raccolta, di alti rendimenti fatta ai sottoscrittori. Per garantire certi ritorni ci vuole per forza la leva, ma sul mercato il debito è ormai un tabù: oggi i livelli di leverage sono in media tra 3,5 e 4 volte. Quasi la metà rispetto agli anni d’oro della bolla quando si toccarono punte di 6 volte il margine operativo lordo. Chi vuol fare acquisizioni è costretto ad aumentare la quantità di capitale proprio. Insomma, più equity e meno debito, ma così salta il meccanismo alla base dei fondi stessi: la leva stessa che permette di moltiplicare le risorse e la redditività. I rubinetti delle banche, d’altro canto, non si sono ancora riaperti: i volumi di prestiti per acquisizione a debito sono ancora sotto del 30% rispetto al record del 2007. Ma il vero nodo non è sul versante finanziario, contrariamente alle apparenze.

Chi in Italia ha comprato aziende ai massimi, strapagandole, si è visto costretto a ristrutturare i debiti. Ma si è trattato di debiti puramente finanziari, quelli legati alla scalata stessa a leva. Ora, però, quelle stesse aziende hanno bisogno di finanziare il circolante, ossia il denaro che serve per l’attività corrente, per tenere il motore a regime. Non basta ristrutturare i debiti, ci vuole la «benzina» che fa muovere le aziende. Senza quel carburante si rischia di far pericolosamente avvitare le aziende.

Come se ne esce? Nelle casse del private equity europeo ci sono circa 170 miliardi di euro da spendere, la cosiddetta polvere asciutta (dry powder). Nel caso dell’Italia, perché non utilizzare quelle risorse dirottandole dentro le aziende? Una provocazione in piena regola perché significherebbe per i fondi abdicare alla loro stessa natura. E soprattutto convincere gli azionisti a minori guadagni in futuro. La sfida è aperta.
La sfida è certamente aperta e, fortunatamente, non riguarda piccoli risparmiatori, ai quali garantire ritorni impossibili, ma grandi investitori, che sanno o che dovrebbero sapere quello che fanno. Ecco, appunto: leggendo quest’articolo, difficile non usare il condizionale.

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Banche profitto Regno Unito Rischi Vigilanza bancaria

Bank utility.

Bank utility.

«Non è il modello di business di una banca a determinare il rischio. Continuo a credere che non sia questa la soluzione da oppore alla crisi del credito». Marco Mazzucchelli, chairman dell’investment banking di Royal Bank of Scotland inarca metaforicamente il sopracciglio all’idea di una separazione delle attività degli istituti di credito secondo le linee indicate dall’interim report della Indipendent banking commission ieri adottate dal Cancelliere George Osborne.

La blindatura del retail banking è invece la soluzione che Londra privilegia…

Il punto centrale a mio avviso è la capitalizzazione e in questo senso stiamo andando nella direzione giusta, con fin troppo zelo. Inoltre gli istituti di credito devono essere gestiti con robusti criteri di risk management. Infine la governance deve essere affidata a elementi altamente competenti e specializzati. Che il problema non sia il modello di business, lo dimostra il caso di Northern Rock che faceva retail.

Con un’esposizione estrema nei mutui…

Allora bisogna definire che cosa si intende per retail. Solo raccolta dei depositi e investimento in titoli del Tesoro? L’attività di credito precipiterebbe, si arriverebbe a disegnare una struttura davvero simile alle utility. Ma se non è questo che si vuole, bisogna considerare che gran parte delle coperture dei rischi arrivano dalle attività di investment banking.

Eppure è questo, nella traccia politica suggerita, che potrebbe emergere dalle ceneri del credit crunch britannico. Non solo. Londra spinge per una capitalizzazione sempre maggiore. Quali conseguenze potrà avere il combinato disposto di più stringenti capital requirements con attività bancarie separate ?

L’investment banking soffrirebbe in termini di posizionamento relativo e lo stesso accadrebbe per retail e commerciale. Si avrebbe un sistema forse più robusto nell’architettura, ma ingessato. Meno competitivo. Soprattutto meno remunerativo. È opinione comune che quando le nuove regole, quelle già varate, saranno in vigore, il Roe delle banche sarà mediamente attorno all’8-10 per cento. Se si mettono altri lacci, i bilanci si restringeranno sempre di più e non sarà facile trovare azionisti pronti a investire. I regolatori questo spesso se lo dimenticano.

Banca utility, appunto…

Allora facciamola fino in fondo e magari la facciamo fare allo stato. La verità è che un sistema bancario senza rischi continua ad essere un ossimoro. Una banca utility non è una banca, ovvero non è un’impresa chiamata a investire e ad assumere rischi nel sistema creditizio e finanziario.

Da Il Sole 24 Ore, Finanza e Mercati, 16 giugno 2011.

Al netto del conflitto di interessi nel quale il dott.Mazzucchelli è evidentemente e trasparentemente coinvolto, l’intervista è molto interessante e suscita problemi sui quali, per esempio, mi piacerebbe sapere che ne pensa il nostro ministro dell’Economia.

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Banche Goldman Sachs Ricchezza Rischi Risparmio e investimenti Strumenti finanziari USA

Il ritorno sull’investimento del capitale (reputazionale).

Il ritorno sull’investimento del capitale (reputazionale).

A quanto pare moralismo ed etica non sono ritenuti ingredienti decisivi di una proposta di affari avanzata da una banca d’investimento. In un survey di Bloomberg è emerso, infatti, che “investors will continue to put their money with capable institutions, regardless of their history or morality“. Non sarà John Maynard a buttare a mare l’esigenza di moralità emersa dal dopo crisi, né qua si intende, all’improvviso, diventare cinici o travestirsi da Ebenezer Scrooge. Ma la risposta, realistica e sincera, dell’intervistato, Christian Contino, 27 anni, che lavora come consulente per la gestione degli investimenti del Fondo delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo (non proprio una congrega di assatanati del profitto) mette la sordina a tanta finanza etica che dimentica, in finale, che gli strumenti del risparmio devono soddisfare le esigenze di datori e prenditori di fondi, non appena quelle di criteri di morale talvolta un po’ astratta.

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Banche Indebitamento delle imprese Mutui e tassi di interesse Rischi USA

Spazzatura?

Spazzatura?

High yield o junk bond? La platea degli investitori tenderà sempre a dividersi fra chi vede nelle obbligazioni societarie con rating più basso un’opportunità da non lasciarsi sfuggire, e chi invece teme di incappare nella classica mela marcia e di perdere così il proprio capitale. Le dispute sul nome da affibbiare ai titoli, bond ad alto rendimento o spazzatura, resteranno. La realtà invece, almeno per adesso, parla di un momento d’oro per questo genere di bond. Le emissioni, per esempio, sono a livello di record: in base ai dati raccolti da Bloomberg, nei primi quattro mesi del 2011 i nuovi titoli high yield collocati sul mercato Usa sono stati pari a 112,6 miliardi di dollari, il 18% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, che già si era chiuso con il record storico per vendite sul mercato primario (287,6 miliardi).

Così Maximilian Cellino sul Sole 24 Ore di martedì 26 aprile, facendone quasi una questione di tassonomia (dove finisce la spazzatura e dove comincia l’alto rendimento?) e trascurando, invece, due dati di realtà molto evidenti.

Il primo è che se la domanda è elevata significa che a qualcuno interessano rendimenti elevati, a prescindere: 112,6 miliardi di $ non sono emissioni criminali destinate a rapinare povere vecchine, sono soldoni, che qualcuno ha speso a fronte di passività che qualcuno ha emesso. Prenderne atto non sarebbe male, anziché parlare di roulette degli “high yield”: rimane l’idea, sullo sfondo, che ci sia il banco che, al solito, vincerà tutto, barando, mentre potrebbe trattarsi di un prezzo (i tassi elevati) di equilibrio del mercato.

Il secondo dato di realtà è che gli emittenti sono la Corporate America, ovvero imprese più o meno razionate dal sistema bancario. Cellino sottolinea la preoccupazione relativa al fatto che il mercato, ad un certo punto, possa smettere di “digerire” tanta carta e che il rialzo dei tassi renda meno conveniente per gli investitori, favoriti dalla politica dei tassi zero della Fed, l’investimento nei corporate-bond. Ma, vivaddio, per una volta si potrebbe anche dire che qualcosa di buono Helicopter Ben l’ha fatta: sia pure attraverso le tortuose strade dei bond, i denari alle imprese sono arrivati. Se gli investitori che acquistano questo genere di titoli non paiono proprio mammolette e se il rialzo dei tassi si accompagna, come dovrebbe, ad un po’ di ripresa, forse gli elevati rendimenti troveranno non solo un paragone reale ma, soprattutto concrete possibilità di remunerazione.