La ragione per cui aveva lasciato Abelson, dove comunque era stato tanto fortunato da continuare a riscuotere la vista paga durante il crollo in borsa e anche negli anni peggiori della Depressione, la ragione per cui aveva osato aprire un negozio tutto suo in un momento così brutto, era semplice: a tutti quelli che glielo chiedevano, e anche a quelli che non glielo chiedevano, spiegava:”Dovevo avere qualcosa da lasciare ai miei due ragazzi”.
Milioni di persone sole di fronte alle conseguenze dei propri atti.
New York, July 2011
Da cattolico Panayotis Kantzas ha ascoltato con attenzione la messa in guardia del cardinal Bagnasco alla comunità dei credenti. Da psicanalista si prende la libertà di qualche glossa al margine, perché ogni parola può essere interpretata. Dice al Foglio che “l’aria irrespirabile” di cui ha parlato il capo dei vescovi non deriva tanto da una dimensione etica o estetica ma logica, nel senso di logos, discorso e ragione. In tutto l’occidente, l’imperio assoluto della finanza, il denaro re, hanno indotto perdita di senso e di soggettività dell’individuo, sempre più incapace di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, di ponderare le singole scelte. Così vive al di sopra dei propri mezzi, consuma in eccesso, compra merci di cui non ha bisogno e per lo più a debito. Kantzas sembra condividere l’opinione di quegli economisti che individuano proprio nel credito al consumo, le famose carte di debito, “revolver” puntati alla testa dei consumatori, il fattore di una crisi che potrebbe essere ben peggiore di quelle viste finora, perché centinaia di milioni di persone si ritroveranno sole di fronte alle conseguenze dei loro atti senza più contare né su una mediazione collettiva né su un possibile intervento dello stato. “E’ la conseguenza drammatica della psicosi ordinaria, della schizofrenia che dai paesi anglosassoni è dilagata in tutto il mondo”.
Così facendo, l’uomo acquisisce maggiore consapevolezza e signoria sulla realtà e approfondisce anche concretamente la conoscenza di sé, dei propri limiti e potenzialità, delle proprie aspirazioni. Il filosofo Emmanuel Mounier lo esprimeva efficacemente così: “Tout travail travaille à faire un homme en même temps qu’une chose” (da P.Cazamian,1996, Le travail autonome. Opérativité et scientificité. Principes de l’intervention ergonomique, in P. Cazamian, F. Hubault, M. Noulin (dir.), Traité d’ergonomie, Octarès Éditions, Toulouse, 1996). Inoltre, nel lavoro, l’uomo è mosso da una responsabilità, risponde cioè all’appello suscitato dai bisogni di coloro dei quali sente di farsi carico: la famiglia, il clan, la comunità, la società.
Lo stesso svolgimento del lavoro richiede interazione, collaborazione, fiducia fra gli uomini, e poi una costruzione sociale. Il lavoro è dunque fattore di ulteriore comprensione della natura relazionale e sociale dell’io, oltre che elemento costitutivo delle società e del loro benessere.
Gianluigi Gorla, “Logos e Agape” L’école valdôtaine, 84, 2010
(..) qualcosa che interessa un’attività mia, del mio intelletto, che interessa il cuore mio, la mia affettività. Noi che siamo qui, abbiamo dapprima cercato la vostra conoscenza e la vostra presenza, non abbiamo cercato per prima cosa la vostra amicizia; ma una volta cercata la vostra presenza, non abbiamo potuto non cercare la vostra amicizia, perché senza amicizia non c’è presenza reale. Sarebbe come un barquiño che se ne va e diventa sempre più piccolo, finché scompare, svanisce all’orizzonte(*). Non poter far nulla per voi dopo avervi incontrati sarebbe come non avervi trovati, come non avervi incontrati. Invece, diventando amici, qualche cosa per voi si fa. Che cosa abbiamo voluto fare per voi, dunque, avendovi trovati per caso, essendo diventati poco o tanto amici? Innanzi tutto abbiamo voluto parlare di destino e di scopo, perché tutto va a finire lì.
Destino e scopo: questa parola è talmente poco astratta che entra dentro tutto, dal modo con cui ti stropicci gli occhi al mattino fino al fiato sospeso davanti al professore che ti interroga, fino alla fatica, sudata se è estate, sul libro da studiare, fino al palpito che il tuo cuore prova all’emozione di vedere da lontano la tua bella. Si chiama «dovere» o «lavoro» la parte più eminente e più vasta del nostro rapporto con le cose, cui siamo destinati dalla nostra natura; questo rapporto più vasto con la realtà è lo scopo del tempo che viviamo, è il lavoro vero, nel quale il destino c’entra con il nostro specifico lavoro. È augurabile che, in tanti anni di compagnia e di cammino, sia diventato più chiaro per voi cosa voglia dire lavoro.
(*) Si fa riferimento a una strofa del canto «Sevillanas del adios», in Canti, Ed.Jaca Book, 237 s.
Luigi Giussani, Avvenimento di libertà. Conversazioni con giovani universitari, Marietti 1820, Genova 2002
We argue that REMM (Resourceful, Evaluative, Maximizing Model) best describes the sistematically rational part of human behaviour. It serves as the foundation for the agency model of financial, organizational, and governance structure of firms.
” (…) mentre la Prof. parlava, la mia coscienza in sottofondo provava un certo fastidio dovuto al tentativo di ricondurre gli eventi e i fenomeni ad un modello scientifico, ad una formula. Non dico che chi stava spiegando lo facesse con la presunzione di avere una spiegazione per tutto però, ultimamente, non riesco a fare a meno di riflettere scavando in profondità.
Ho notato, che in quasi in tutte le formule che mi scorrevano sotto gli occhi, c’era un termine che ricorreva: Epsilon di t (ε_t).
E’ una variabile che mi colpisce molto nello studio dei modelli di previsione. Perché vede, un ricercatore può pensare a qualsiasi situazione futura, puoi sforzarti di supporre uno scenario verosimile, puoi ottenere una stima molto vicina a quello che accadrà domani, ma non saprà mai cosa succederà veramente.
Ed è bello sapere che non è tutto sotto il controllo di presuntuosi matematici.
E’ una sfida tra l’uomo e il Destino e per quanto il ricercatore possa essere intelligente e razionale o per quanta fantasia inserisca nel suo modello, la sua formula non sarà mai uguale alla realtà.
Puoi guardare cosa è accaduto nella serie storica, puoi analizzare il white noise degli anni precedenti, ma non puoi dominare la verità: Epsilon di t esisterà sempre.”
Sul Sole 24 Ore Job di oggi compaiono i risultati di un’inchiesta sul lavoro giovanile e le scelte che lo determinano, la cui sintesi è efficacemente descritta come segue: i giovani vorrebbero il posto fisso e vicino a casa. Nel servizio un’intervista, in particolare, è illuminante, perché mostra come le scelte siano frutto quasi esclusivo di calcolo, di convenienza. Sì, è vero, lavorare all’estero è bello, è interessante ma bisogna spendere per mettere su casa, ma ci sono problemi di doppia imposizione, etc…
Non penso che la questione si risolva definendo bamboccioni coloro che non scelgono e che hanno paura persino di mettere su casa con qualcuno, criticandone gli atteggiamenti pure, a volte, assolutamente indisponenti. La questione è di educazione, ovvero chiama in causa gli adulti, i genitori, le famiglie. Di un’educazione che non è gusto per il rischio e per l’avventura, che non insegna a stare di fronte alla realtà, ma che cerca solamente di difendere e di proteggere. Come un grande educatore ci ha insegnato, la cultura nella quale siamo immersi fa in modo che i genitori non siano come persone che stanno dietro i giovani che camminano e che, avanzando, si graffiano, cadono, si fanno male, rischiano e, affrontando la realtà, imparano cosa sia davvero la vita. No, i genitori hanno insegnato ai figli a stare dietro: protetti, coccolati ed al riparo da graffi e cadute, davanti stanno loro, a protezione.
Così si evita tutto, nel male e nel bene: ed il gusto per l’avventura, non necessariamente esotica, svanisce insipido in una pianificazione che non ammette imprevisti, perché non saprebbe come affrontarli. Montale diceva che un Imprevisto è la sola speranza. Ma anche l’Imprevisto deve fare i conti con la libertà personale, con una mossa di libertà che nessuno può decidere al posto nostro.
Dal Corriere della Sera on line di oggi apprendiamo che in un’intervista su Io Donna che comparirà domani, l’economista Stefano Bartolini, dell’Università di Siena, afferma essere l’infelicità americana l’origine e la causa della crisi economica. Il Corriere, come quasi tutti i giornali, non è nuovo a titoli ad effetto e che, soprattutto, non corrispondono realmente ai contenuti del pezzo. In particolare -il testo è virgolettato- Bartolini afferma che «il denaro offre molte forme di protezione, reali e illusorie. Se gli anziani sono soli e malati, la risposta è una badante. Se i nostri bambini sono soli, la soluzione è una baby-sitter. Se la nostra rete di amicizie diviene scarsa e poco attraente o se la nostra città diviene troppo pericolosa per uscire, possiamo passare le serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo. Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se abbiamo paura, possiamo difendere i nostri beni con sistemi di allarme. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro».
Ho letto e riletto le affermazioni dell’illustre Collega e non riesco a capire perché, a differenza di quanto scrive il giornalista, Pier Luigi Vercesi, la colpa della crisi sia, anche ragionando nel modo singolare e stimolante di Bartolini, solo a stelle e strisce. Può essere che la rincorsa ai consumi ed agli acquisti che fa lievitare il PIL origini dall’infelicità americana, ma leggere quanto affermato da Bartolini mi fa pensare anzitutto all’Italia: a questa Italia, quella nella quale vivo e lavoro, senza andare tanto lontano, a Rimini. L’intervistato mette le mani avanti, il suo non è un nostalgico ritorno al bel tempo che fu, tampoco ruralismo d’antan. Ma, sostiene Bartolini, si è passato il segno, “la crisi ha dimostrato che nessun sistema economico funziona bene se basato solo sull’avidità: sono sempre necessarie etica e cooperazione.” Ovviamente gli americani più degli europei avrebbero smarrito senso dell’etica e solidarismo, o forse questa è solo la lettura, un po’ capziosa, che Vercesi vuole che risulti. La realtà che ci sta di fronte dice che non siamo affatto più coesi degli americani, etici o solidali: forse siamo più moralisti, il che, per chi è nato in un paese cattolico è assai grave, perché il moralismo sono le regole distaccate da qualunque senso e significato, fini a sé stesse. In altre parole, ciò che manca, sia Oltreoceano, sia in Europa, non sono le regole, non sono i valori, non sono i buoni sentimenti, ma l’educazione. Come ha ricordato ad Assago Julian Carròna proposito della modernità: “il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi. Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri.”