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Banche Borsa Short selling

Il costo del silenzio del mercato.

Il costo del silenzio del mercato.

J.Fussli, Il silenzio.

Devo ancora trovare un esempio in cui una banca solvente sia stata distrutta dalla speculazione al ribasso, mentre posso citare molti esempi di banche insolventi che sono state tenute in vita dall’appoggio e la connivenza con il potere politico.

Ammesso e non concesso che si voglia colpire la speculazione, sarebbe meglio aumentare l’imposta sui guadagni in conto capitale realizzati su un orizzonte temporale brevissimo. Almeno questa misura è simmetrica e penalizza sia la speculazione al ribasso che quella al rialzo.

Banchieri e politici, però, vogliono punire solo la speculazione al ribasso, perché la temono. Insieme alle società di rating (altre nemiche pubbliche), la speculazione al ribasso è l’unica forma di trasmissione di notizie negative. Banchieri e politici possono intimidire o corrompere tutte le altre forme di informazione, non il mercato. Per questo cercano di metterlo a tacere. Purtroppo il costo di questo silenzio è elevato. Senza il mercato oggi il Governo italiano non farebbe nessuno sforzo per ridurre la spesa pubblica. E senza le vendite allo scoperto c’è meno pressione che induca le banche a raccogliere altro capitale e a ridurre il proprio rischio. Quando a chiedere l’aumento di capitale è il regolatore, i banchieri si difendono dicendo che costoro non capiscono le regole del mercato. Ma quando a chiedere l’aumento è il mercato, vanno a difendersi dal regolatore, dicendo che il mercato è irrazionale e sbaglia.

Cambierà qualcosa? L’esperienza ci insegna che il divieto delle vendite allo scoperto non funziona. Nel lungo periodo i titoli che devono scendere scendono. La proibizione serve solo a ritardare di qualche giorno questa discesa, al costo di innervosire il mercato che si domanda quale sarà la prossima manovra per salvare i banchieri a spese di tutti noi.

Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011

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Banche

Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Molti lettori si chiederanno come posso difendere le vendite allo scoperto, come posso considerarle un diritto fondamentale come la libertà di stampa. Non è forse vero che chi vende allo scoperto è un malvagio speculatore?

Ironia vuole che oggi la maggior parte delle vendite allo scoperto su società finanziarie non venga fatta da perfidi speculatori che scommettono sulla caduta dei titoli bancari, ma da altre società finanziarie che si coprono dal rischio di controparte. Immaginiamo per esempio che la banca A si sia coperta dal rischio di un aumento del valore del franco svizzero con un derivato con la banca B, a scadenza fra tre anni. Quando il franco svizzero sale, la banca A si trova ad avere un credito verso la banca B. Se la banca B non versa in buone condizioni finanziarie, la banca A vuole coprirsi dal rischio di non essere in grado di esigere quel credito fra tre anni. Per farlo, A deve comprare un credit default swap su B o vendere allo scoperto le azioni di B, sapendo che se B fallisce perderà il suo credito, ma guadagnerà sulla sua vendita allo scoperto.

Queste vendite allo scoperto, quindi, riflettono la scarsa fiducia che gli operatori finanziari nutrono sulla solvibilità dei loro colleghi. Ciascuno millanta in pubblico la propria solidità, ma dubita in privato di quella altrui. La proibizione delle vendite allo scoperto altro non è che una iniziativa collusiva per mettersi d’accordo e non rivelare al pubblico le paure che gli uni nutrono sugli altri. Meglio lavare i panni sporchi in famiglia.

Luigi Zingales, IL Sole 24 Ore, 13 agosto 2011

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Mercato USA

I mercati concorrono a creare il futuro.

I mercati concorrono a creare il futuro.

Io sono in totale disaccordo con la teoria generalmente accettata, secondo cui i mercati finanziari tendono sempre all’equilibrio e scontano il futuro in maniera corretta. Io ho un credo differente. I mercati – a mio avviso – non si limitano a scontare il futuro: concorrono nel crearlo. In certe circostanze, possono avere un effetto diretto sui cosiddetti fondamentali. Quando questo accade, i mercati entrano in uno stato di disequilibrio dinamico e iniziano a comportarsi in maniera difforme da ciò che viene considerato normale. Questi momenti non sono frequenti, ma quando si verificano i mercati possono diventare distruttivi: per il semplice motivo che possono influire sui fondamentali dell’economia.

George Soros

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Banche BCE Borsa Rischi

Vendite irrazionali.

Vendite irrazionali.

Fabio Pavesi, sul Sole 24 Ore di ieri, si sofferma su quelle che chiama “vendite irrazionali” di titoli bancari, chiedendosi se “c’è davvero troppo rischio sulle banche italiane e quelle vendite esasperate hanno una ragion d’essere oggettiva?  Anche perché a vendere nelle giornate più nervose non è certo il signor Rossi, cassettista con i suoi mille, duemila pezzi di Intesa o UniCredit. I volumi, che toccano nelle sedute più esasperate, addirittura il 2-3% del flottante segnalano che a vendere – o meglio a giocare contro l’Italia – sono hedge fund, fondi pensione, fondi comuni, banche, insomma investitori istituzionali da cui ci si aspetterebbe maggiore freddezza. Evidentemente la scommessa è contro l’Italia. E le banche sono il viatìco di questa puntata contro, senza quasi alcun rapporto con il vero stato di salute. Basti guardare qualche numero per accorgersene. Intesa Sanpaolo vale sul mercato 24,5 miliardi; l’altro big di Piazza Affari, UniCredit capitalizza 23,7 miliardi. Insieme non fanno neanche 50 miliardi. Che è il valore di mercato della sola Bnp Paribas, che di miliardi ne capitalizza 56 e in Borsa vale il 74% del suo patrimonio. Meritati? Forse. Sta di fatto che UniCredit per la Borsa vale la metà del colosso francese: il mercato assegna alle azioni della banca di Piazza Cordusio un valore che è appena il 37% del suo capitale proprio, che vale 64,6 miliardi. E che dire dell’altra grande banca italiana? Intesa vale, sempre secondo il mercato, meno della metà del patrimonio della banca. Quei 53,5 miliardi di capitale vengono valorizzati solo 24,5 miliardi. Certo c’è in gioco la redditività. Bnp è sicuramente più redditizia, ma la banca francese ha in pancia 5,2 miliardi di bond greci che di certo hanno un valore dimezzato rispetto ai Btp italiani. Per non parlare di Crédit Agricole, valutata metà del patrimonio netto come Intesa, ma con un’esposizione sulla Grecia non paragonabile alla banca italiana avendo il possesso dell’ellenica Emporiki Bank. E che dire del Santander? Vale in Borsa più del doppio di UniCredit. Eppure gli spread sui Bonos spagnoli sono più alti di quelli italiani e la banca ha chiuso il trimestre con profitti in calo del 38%. (Sono gli spagnoli, peraltro, ad avere proposto di ottenere credito di ultima istanza presso la BCE attraverso l’offerta, come collaterali, di Kakà e Ronaldo, che evidentemente sono già nella disponibilità bancaria quali pegni “umani” dei debiti dello stellare calcio spagnolo. NdA). Il confronto poi con la Grecia proprio non regge. Il Banco Popolare e Mps valgono sul loro patrimonio – sempre per il mercato – meno della media delle banche greche. La stessa National Bank of Greece viene valorizzata il 50% del capitale della banca. Peccato che abbia in pancia 20 miliardi di bond greci che varrano il 60% del nominale. Un vero e proprio controsenso logico. Colpa dell’«overshooting» e della sua irrazionalità.”

Pavesi è come sempre lucido e le sue affermazioni si comprendono molto bene. Il suo articolo, tuttavia, non può che fare riflettere sul concetto di razionalità, ovvero del suo contrario, quella irrazionalità che il giornalista descrive come caratteristica del comportamento di chi sta scommettendo, in questo momento, contro l’Italia. La speculazione, spesso dipinta come una sorta di rovina-famiglie di genere finanziario, non è mai irrazionale, colpisce dove sa di poter trarre vantaggi, dove spera di guadagnare, anticipando comportamenti del mercato, assumendo posizioni vantaggiose, inseguendo profitti. Il rischio, in questi casi, è sempre quello del moralismo a buon mercato, quello che tenta di dividere buoni e cattivi investitori in base ai principi che li animano; principi non scandagliabili a priori, non valutabili se non a posteriori, ma quasi sempre e soltanto sparando nel mucchio. E sempre senza chiedersi perché. Pavesi invece lo ha fatto: ma la risposta, paradossalmente, sta proprio nella razionalità, e non nel suo contrario, dei mercati. Che anche quando sbagliano, hanno sempre ragione.

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Borsa Capitalismo Crisi finanziaria Germania profitto Short selling

Irrational speculation?

Irrational speculation?

Con questa espressione, il vice-ministro per gli affari esteri della Germania, Werner Hoyer, ha bollato quanto accaduto nel nostro Paese nello scorso fine settimana, nel corso di un’intervista rilasciata alla Stampa di Torino. Difficile immaginare che la Germania potesse dire il contrario, dal momento che serve che qualcuno tenga in piedi l’area Euro anche con le parole, poiché se il rischio di contagio dovesse allargarsi, la stessa Germania ne risentirebbe e sarebbe impossibile salvare tutti. La questione vera, quella che non si dice mai, è che la speculazione non è una sorta di banda di malfattori, una Spectre finanziaria che si riunisce per ordire trame contro i laboriosi ed industriosi cittadini del mondo. La speculazione sono investitori che cercano profitti (se cercassero perdite sarebbero, nella più benevola delle ipotesi, dei simpatici pirla, ma la parola adatta è un’altra) e li cercano in modo tutt’altro che irrazionale. Che sia fastidioso per i Paesi colpiti, non c’è dubbio. Ma se sei in salita su una strada di montagna del Tour e arranchi, per il debito che ti appesantisce, se l’avversario va in fuga non è lui che è cattivo o irrazionale: sei tu che sei scarso.

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Borsa Imprese Indebitamento delle imprese Liquidità profitto

E ora sono sulle spese, in balìa degli usurai.

E ora sono sulle spese, in balìa degli usurai.

Remo Ruffini, Moncler

Grazie alla solerzia di uno studente riceviamo e pubblichiamo, dal Sole 24 Ore di ieri, letto troppo distrattamente, notizia e commento.

CREDITO DALLE BANCHE  – La casa di moda remunera i soci con un extra dividendo e porta la posizione finanziaria in negativo per 300 milioni di euro

Moncler s’indebiterà per pagare un assegno da 125 milioni ai suoi azionisti. Dalla griffe dei piumini, che avrebbe dovuto sbarcare in Borsa ma ha fatto retromarcia prima di iniziare il road show per essere venduta ai francesi di Eurazeo, è in arrivo un dividendo straordinario che sarà pagato entro l’autunno. Sulla storica griffe, celebre in Italia negli anni ’80 e ora di nuovo tornata ai fasti di un tempo, grava un debito pre-esistente di 150 milioni: post-acquisizione da parte dei francesi, l’azienda avrà un debito complessivo di 300 milioni.
A beneficiare della cedola non saranno però i nuovi proprietari d’Oltralpe (futuri soci di maggioranza relativa col 48%), ma la vecchia …”

Si vede che anche Carlyle e Ruffini hanno le comunioni dei figli in questo periodo. Faccio ancora più fatica, a questo punto, a capire con quali presupposti il fondo neo-acquirente Eurazeo abbia acquisito il 45% di Moncler ad un prezzo più elevato rispetto alla disponibilità del mercato.

JM aggiunge solo un’ipotesi, come nel caso della canzone di Celentano: che Carlyle e Ruffini si siano rovinati per amore.

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Borsa Consob Imprese Indebitamento delle imprese IPO

Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Morya Longo, Il Sole 24 Ore

Potremmo chiamarla la «crisi del quinto anno», come nei matrimoni (ma con due anni d’anticipo). Oppure potremmo puntare il dito sull’eccesso di liquidità, pompata dalle banche centrali, che alimenta le bolle. Sta di fatto che i fondi di private equity sono tornati a comprare e vendere aziende agli stessi valori del 2007. Quell’anno, passato alla storia per essere l’apice della «bolla» del private equity, i fondi in Italia acquisivano società valutandole mediamente 11,7 volte il margine operativo lordo. Oggi quei prezzi sono tornati. Proprio ieri i fondi Eurazeo hanno rilevato il 45% di Moncler valorizzando la società 12 volte il Mol: più della media del 2007. Pochi giorni fa Rhiag, di proprietà del fondo Alpha, non ha convinto gli investitori in Borsa, ma ha trovato un altro fondo disposto ad acquistarla ai prezzi che per Piazza Affari erano troppo elevati. Di recente i grandi magazzini Coin sono stati venduti dal fondo Pai a Bc Partners. Aziende che passano da un fondo all’altro, a valutazioni sempre più elevate, come fossero figurine. Sembra di rivedere il film del 2007.

Un deja vù che alcuni operatori spiegano con «la crisi del quinto anno». I fondi di private equity hanno una “vita” decennale: prima raccolgono soldi dagli investitori, poi hanno cinque anni di tempo per investirli, rilevando aziende, e infine hanno altri cinque anni per disinvestirli rivendendo le società a prezzi più elevati. Tra il 2006 e il 2007 sono state racimolate enormi quantità di denaro, ma poi i fondi non sono riusciti a usarle a causa della crisi. Dentro i fondi di tutto il mondo, stima di Morgan Stanley, c’è la bellezza di 434 miliardi di dollari non utilizzati.

Ecco, dunque, il problema: per chi ha raccolto denari tra il 2006 e il 2007, i cinque anni per l’investimento stanno per scadere. Questi fondi dunque devono, a qualunque costo, comprare qualcosa: anche perché, allo scadere dei cinque anni, perderebbero una buona fetta di commissioni pagate loro dagli investitori se non hanno investito i soldi loro affidati. Il bisogno di alcuni di comprare s’incontra poi con quello di altri di vendere: cioè i fondi che hanno acquisito società negli anni della bolla (2006 e 2007) e che ora devono rivenderle partendo da una base di prezzo già alta. È l’eterna legge del mercato.

Se la Borsa, dove pure c’è tanta liquidità, non è disposta a strapagare le aziende, come dimostrano i casi di Rhiag e Moncler, l’unica via d’uscita è di vendere le aziende ad altri fondi: quelli disposti a pagare qualsiasi cifra pur di fare operazioni. Il fenomeno è globale. E, probabilmente, anche italiano. Nella Penisola – calcola Morgan Stanley – tra gennaio e maggio 2011 sono state effettuate acquisizioni per 3,3 miliardi: poco sotto i 3,9 dell’intero 2010. Sta aumentano anche la leva: le banche stanno tornando a finanziare con crediti sempre più elevati le acquisizioni.

Siamo dunque di fronte a una nuova bolla? Molti ne sono convinti. Che succederà quando i fondi, che oggi comprano, dovranno rivendere tra qualche anno e dovranno farlo a prezzi ancor più alti? Non tutti però cedono agli allarmismi: il multiplo di 12 volte il Mol pagato per Moncler, per esempio, è in linea col mondo della moda (dove si vedono multipli anche più alti). C’è una logica dei numeri, si dice. Può darsi. Il problema è che queste giustificazioni si sono già sentite. Nel 2007.

L’ottimo articolo di Morya Longo dimentica di dire ciò che con cadenza martellante ripete Confindustria, Consob e chiunque pensi di avere qualcosa da dire sul capitalismo italiano, compresi i redattori di molti manuali e gli autori di molti libri sui mercati mobiliari: in effetti, abbiamo anche sentito, e non nel 2007, ma molto tempo prima, senza interruzione, che ci vuole più finanza mobiliare, più capitale di rischio, più strumenti innovativi di capitale. Adesso che scopriamo che c’è troppa liquidità, qualcuno vuole dirci dov’è l’errore?

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Borsa profitto Ricchezza Rischi

Essere quotati (come il porco).

Essere quotati (come il porco).

Tutto, dal punto di vista economico, si crea al Chicago Board of Trade (Cbot), il più antico mercato di opzioni e futures del mondo. Qui prezzano su una
lavagnetta qualche bushel di cacao (unità di misura che equivale a circa 27 chili di grano) e poi, un bel giorno, ti accorgi che il bar, anziché due boeri di resto, te ne dà uno perché il costo della cioccolata è aumentato. Il Cbot è ancora popolato di grida e galoppini impazziti che, inseguendo l’ordine di acquisto di un mega
contratto di succo d’arancia congelato, «sbattono come l’ovo nel frullo», per dirla con Carlo Emilio Gadda (che con queste parole descriveva Piazza Affari a Milano, dove adesso comandano i computer, senza lacrime in tasca e senza sangue nelle vene). Ma a Chicago no, di sangue ne scorre ancora. La città divenne famosa per i gangster, anche se a sparare, piuttosto che i mitra Tommy Gun della strage di San Valentino, ora ci sono i cannoni della speculazione. Non è casuale che il conflitto in Libia sia definito “neo-coloniale”. Che si trasformino in benzina o in biscotti, che siano cereali o qualunque altra spezia – origine di guerre anche nel futuribile Dune di David Lynch – le commodity, merci “fungibili”, muovono politica, salotti, affari, cinismo e prezzi: nel mondo ci sono ormai quasi sette miliardi di bocche, non tutte fortunate, ma questo abominio per chi investe non conta. Per il controllo delle commodity si lotta: se non foste stati ipnotizzati dal matrimonio di William e Kate, in quelle stesse ore avreste potuto ottenere una prova di quanto si combatta, perché una scalata francese si è portata via la Parmalat, cioè il latte d’Italia. Una mattina di queste, andate sul sito
http://www.borsaitaliana.it, digitate “Etfs” nel campo di ricerca e vi apparirà una lista di materie prime alimentari trattabili. Ci sono corn (mais), wheat (frumento),
soybean (soia), ma anche lean hogs: carne di maiale magra. Ci credereste che in Cina, prima consumatrice mondiale dai tempi dei Ming, la considerano strategica come l’oro e il petrolio, e ne hanno una riserva nazionale di milioni di tonnellate? I cinesi la sanno lunga, ma la nostra idea del mese è più semplice: un fondo comune specializzato in 19 materie prime, il Lyxor Etf Commodities, su cui investire il cinque per cento dei nostri diecimila euro di capitale. Non serve andare a Chicago, basta la banca. Speriamo di fare comunque la nostra porca figura.
Marco Fratini, GQ

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Borsa IPO Regno Unito

Ma davvero?

Ma davvero?

L’annuncio dell’offerta pubblica di vendita di Glencore sembra aver ottenuto effetti di trasparenza informativa, sia pure a posteriori, davvero notevoli, se, come nota un articolo di Luca Davi sul Sole 24 Ore del 26 aprile “(..) mentre in Russia e Ucraina la siccità e gli incendi mandavano in fumo gran parte dei raccolti, sui mercati c’era chi siglava una serie di scommesse speculative sull’ulteriore rincaro dei prezzi. E a farle non era un operatore qualsiasi bensì Glencore, la prima società al mondo di commercio di commodity. A rivelare ciò che accadeva sui mercati agricoli nel corso dell’estate 2010, quando i prezzi di grano e mais schizzarono ai livelli record del 2008, è stata la stessa società elvetica, le cui operazioni di trading – da sempre coperte da una stretta riservatezza – stanno ora venendo allo scoperto grazie all’avvio della procedura di Ipo, prevista per maggio. Glencore avrebbe infatti comunicato i suoi movimenti di “proprietary trading” a Ubs, una delle banche coinvolte nello sbarco in borsa del gruppo: operazioni di per sè lecite, che però possono procurare forte imbarazzo soprattutto se lette alla luce degli eventi di allora. Secondo il Financial Times, infatti, se da una parte la società svizzera assumeva posizioni speculative sull’aumento dei prezzi, dall’altra parte i manager elvetici chiedevano a gran voce a Mosca di bloccare temporaneamente l’export di grano.

Le notizie vanno date e commentate, ed è ciò che fanno i giornalisti. Ciò che qui viene messo in discussione, tuttavia, non riguarda il mestiere altrui, né tantomeno il rilievo dell’operazione, di ammontare davvero inusitato, too big to ignore, ma la solerzia di commentatori che rivelano che un big mondiale delle materie prime ha effettuato movimenti di proprietary trading. Non deve sembrare cinismo ma, in tutta franchezza, la notizia sembra l’equivalente di certi servizi dei Tg estivi, quando gli ascoltatori scoprono, guardando la televisione, ciò che avvertono quotidianamente sulla loro pelle: c’è l’afa.

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Energia, trasporti e infrastrutture Giulio Tremonti Silvio Berlusconi

Tre piccioni con una fava.

Tre piccioni con una fava.

Jacopo Giliberto, con buona pace di Assosolare, in un post apparso sul sito dell’Istituto Bruno Leoni afferma che “l’incentivo dato al settore fotovoltaico era generoso. Troppo generoso. Potrebbe arrivare (nella soluzione più pesante) fino a un cumulato di 41 miliardi di euro nel 2032, oppure (in uno scenario di sforbiciature pesanti) di 35,8 miliardi. E oggi ne subiamo le conseguenze. Non solamente in termini di peso sulla bolletta della corrente, ma soprattutto in chiave di obiettivi economici e ambientali da conseguire attraverso le fonti rinnovabili di energia. Conseguenza: il rischio di penalizzazioni per tutto il settore dell’elettricità ecologica, compresi segmenti economicamente più solidi come la produzione eolica oppure con biomasse, e al tempo stesso tariffe alte e nemiche della competitività.”

E ancora: “Carlo Stagnaro, che ha coordinato i ricercatori dell’istituto, spiega quali sono i punti salienti che gli fanno contestare la tipologia di incentivo. «Con una cifra così consistente, sono stati indotti investimenti frettolosi per costruire centrali fotovoltaiche sulla base della tecnologia di oggi. In questo modo non sono state aiutate ricerca e innovazione, bensì l’inseguimento del profitto veloce. Inoltre – osserva Stagnaro – un incentivo consistente impone sulle bollette dei consumatori un onere che limita la competitività senza raggiungere i due obiettivi, cioè quello ambientale, che può essere conseguito anche con strumenti diversi dal fotovoltaico, né quello di politica industriale. Infine, un sussidio generoso crea un rischio politico, una reazione contro l’incentivo che si traduce in un taglio troppo netto che suscita negli investitori il senso di instabilità delle regole e di scarsa credibilità». E a parere di Stagnaro questi tre effetti negativi sono stati raggiunti.”

Ministri Scajola, Berlusconi, Tremonti, Romani, any suggestion?

E, infine, la questione del “profitto veloce” forse dovrebbe far riflettere: perché se non si è riusciti a creare una filiera industriale ce ne faremo una ragione, ma i danni provocati alle imprese che, anziché concentrarsi sul proprio business principale si sono messi a fare gli “elettrici”, aggiungendo debiti fatti per speculazione a quelli fatti per incapacità o mancanza di competitività, quelli chi li calcola?