Se il mercato del credito non dipende solo dai tassi bassi (best practices e costi operativi).
Un bell’articolo di Vito Lops e Isabella Bufacchi sul Sole24Ore di oggi esamina con attenzione e spirito critico la questione dei target di inflazione della BCE (ma anche della stessa Federal Reserve americana), ponendo l’accento, tra le altre cose, sul fatto che i tassi così bassi lasciano sul mercato le imprese marginali, quelle che dovrebbero essere espulse in quanto più rischiose e che, se pagassero il debito con il pricing corretto uscirebbero dal mercato. Ora, a parte che l’esempio dei lemons del buon vecchio Akerlof rimane valido, oltre che per il mercato delle auto usate, anche per quello del credito, il ragionamento che essi fanno presuppone un legame un po’ troppo automatico tra selezione del merito di credito e tassi di interesse. Ovvero, i tassi sono bassi, non ci sono barriere all’entrata per i cattivi prenditori e, al massimo, ci sarà un po’ di sussidio incrociato tra buoni e cattivi prenditori, con un tasso mediamente un po’ più alto per i primi e mediamente un po’ più basso per i secondi. Si tratterà comunque di tassi bassissimi, come gli attuali. Può essere che sia così ma questo presupporrebbe, nonostante dieci anni di crisi finanziaria alle spalle, che le banche valutino ancora il merito di credito sulla base delle garanzie e dei modelli anziché sui flussi di cassa, sull’Ebitda e sul DSCR: e forse è proprio su questo punto che si dovrebbe dare meno per scontato che il comportamento delle banche sia improntato a canoni di best practices, per un semplice motivo: le cose fatte bene sono costose.