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Tu quoque, Saccomanne.

Tu quoque, Saccomanne.

saccomanni-2Come un Vincenzo Boccia di Piccola Industria di Confindustria qualsiasi, il Ministro Fabrizio Saccomanni ha detto la sua sulla situazione di difficoltà in cui versano le imprese, ritirando fuori dal cassetto i mini-bond di montiana memoria. Strumenti inservibili, di nessun vantaggio fiscale e di nessuna utilità pratica, poiché vincolati a tassi di emissione fuori mercato, e pertanto non appetibili per gli investitori. Stupisce che un ministro della preparazione di Saccomanni, già in Banca d’Italia, abbia parlato di qualcosa di cui conosce bene la sostanziale inutilità; tanto più che, perlomeno, non era mancata, con buona pace del PdL e del saccente Renato Brunetta, la chiarezza e la sincerità nell’affermare che non si intravvedono spazi per i tagli. Andrebbe aggiunta un’altra cosa, ma comprendo che nessuno voglia o possa dirlo. I prossimi tagli (p.e. i forestali calabresi?) colpirebbero il bacino elettorale di qualcuno. Un’ottima ragione per non farli: molto meglio, appunto, parlare di mini-bond.

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Fare a meno delle banche?

Fare a meno delle banche?

La giornata di ieri, cominciata alle 9 con una riunione e, lavorativamente parlando, terminata alle 19, ha avuto un seguito di circa 6 ore di viaggio, dalla Brianza a Riminibirsk, come ormai andrebbe ribattezzata la città dove vivo. In 6 ore hai molto tempo per pensare, per ascoltare la radio (Isoradio e le sue comunicazioni tardive sulla chiusura di tratti autostradali nonché sul divieto di transito ai Tir superiori a 7,5 tonn., che invece circolavano impuniti), pensare alle infrastrutture ed al deficit italiano delle medesime, maledire camionari, NO TAV, Nimby vari ed assortiti. Però durante il viaggio, come una sorta di sottofondo mentale, ho continuato a pensare sia a quanto avevo discusso presenziando al CdA di una banca locale, sia a quanto ero riuscito a leggere, di contrabbando, su internet e su twitter. Ovvero, del rapporto banca-impresa e, addirittura, se si possa fare a meno delle banche. Comincio dalla fine, ovvero da un mondo senza banche: credo sia nei sogni di quel campione di liberismo che è Giulio Tremonti, che qualche sere fa in televisione ha ripetuto il noto slogan della banca rapinatrice e non rapinata. Le banche nascono per raccogliere il denaro delle persone, che non saprebbero come impiegarlo e come custodirlo, come farlo rendere e come essere sicure di ritrovarlo: possono farlo perché su base fiduciaria e regolamentata raccolgono i risparmi dei cittadini, facendo da tramite per questi verso gli investimenti. Il punto di partenza è, appunto, il risparmio, ci piaccia o no; rifletterci servirebbe a capire che l’unica vera alternativa alle banche è il materasso. O cialtroni truffaldini, di cui nessuno ha memoria, che negli anni ’80 proponevano forme di risparmio alternative e ladronesche, come i vari Cultrera dell’IFL ed altri storie simili. Possiamo discutere che lo facciano bene, possiamo esigere che lo facciano meglio: e proprio per questo dovremmo sceglierle, molto più di quanto non facciamo ora, in una sorta di pretesa che tutte si comportino allo stesso modo in automatico. Sarebbe come pretendere che tutti i whisky fossero come il Bowmore, per spiegare poi perché costano così tanto.

La seconda questione è legata alla prima, perché con altrettanta insofferenza in questo periodo di crisi ci si lamenta dei comportamenti delle banche nei confronti delle imprese (qualcuno ieri, scherzando ma non troppo, parlava sul web di banche che potrebbero de-localizzare, per guadagnare di più), razionate, tartassate, richieste di rientri cui non possono adempiere, prive dei denari per andare avanti. Sul punto è facile essere manichei e seguire il mainstream, che agevola chiunque strizzi l’occhio alle Pmi, tanto le banche sono indifendibili. Un bel post di Fabio Bolognini ci ricorda invece che se le banche talvolta non sono capaci di esaminare un piano di risanamento, è altrettanto vero che le imprese, specie le Pmi, non sono capaci di presentare un piano decente, quando lo presentano. Ovvero, si limitano a fare presente un problema, quello della mancanza di liquidità, ipotizzando che di tutto il resto, compresi gli stipendi, le ritenute etc..debbano farsi carico, appunto, le banche. Che se non lo fanno, diventano subito colpevoli. Cercare colpe, in questo momento non è molto produttivo; può essere tranquillizzante, ma non costruisce nulla. Non aiuta le imprese a guardare dentro di sé, a capire errori e problemi, lavorando sulla formula competitiva e cercando di capire dove non funziona; dare dell’untore alla banca, d’altra parte, serve per continuare ad eludere la grande questione che la crisi, da almeno 5 anni, sta ponendo, ovvero la necessità di ricapitalizzare le imprese. Con soldi veri, buoni, degli imprenditori, non di qualcun altro, come piace dire a Vincenzo Boccia. Su questo punto, con buona pace di tanti, le Pmi non ci sentono, né per amore, né per forza; auspicano piuttosto un rinnovo della moratoria, che non serve a nulla, perché sposterebbe, di nuovo, in avanti il problema. E’ giusto pretendere che le banche ti stiano almeno a sentire, magari anche che ti spieghino perché ti hanno detto no. Ma con altrettanta chiarezza andrebbe detto che non puoi pretendere che qualcuno capisca quello che nemmeno tu sai o conosci: sarebbe come se mi mettessi a spiegare reazioni chimiche o fenomeni fisici. Non è appena questione di avere un buon commercialista (altrimenti, mutatis mutandis, mi basterebbe avere delle buone slides per spiegare ciò che non conosco), si tratta proprio di un’altra cosa: si tratta di cominciare a capire le coordinate principali del lavoro imprenditoriale, si tratta di cominciare ad usare l’informazione, ad analizzare i dati, a sapere, per esempio, perché si ha bisogno di soldi. E’ un altro modo, è una cultura diversa del fare impresa, diversa dal semplice, e talvolta vano, sforzo titanico del “tirare avanti”. E proprio perché è un’altra cosa, ci vuole la pazienza, quella che solo un’educazione consente. Su questo punto ci vuole il lavoro di tutti, perché solo questo costruisce. Continuare a lamentarsi e pretendere sarebbe sterile come la protesta degli indignados. Per costruire non ci si può solo lamentare, si deve avere uno sguardo positivo sulla realtà.

Con chi ci vuole stare, siamo pronti per questo lavoro. Vaste programme.

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Banche Banche di credito cooperativo Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Continuare a non avere nulla da dire (bocce vuote).

Continuare a non avere nulla da dire (bocce vuote).

Vincenzo Boccia, Confindustria

Boccia. Il Presidente della Piccola Industria di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha ragionato sul futuro delle PMI italiane, dovendo – ha detto – fare i conti con una situazione del tutto nuova rispetto al passato. “Ora – ha detto – le nostre imprese devono diventare “imprese istituzione” dopo un percorso storico che, partendo dalle imprese patriarcali è passato per quelle familiari, ma che ora deve essere capace di ragionare su basi innovative”.
Questo impone anche una crescita culturale per uscire da troppo individualismo e ragionare su nuove forme di alleanze in una logica di integrazione. “I mercati globali paradossalmente sono mercati di nicchia, ed i mercati di nicchia sono ideali per le imprese italiane” ha detto Boccia. In questo, un ruolo cardine continuerà a giocarlo il sistema bancario, facendo “rete” tra sistemi, una strada ormai obbligata. Per stimolare innovazione, ricerca, investimenti. Boccia ha infine ricordato la firma sottoscritta con Alleanza delle Cooperative e R.ete.Imprese Italia del “Manifesto per le Imprese”, esempio dello spirito che deve vedere oggi tutti i soggetti istituzionali ed economici lavorare insieme per il bene comune.

Dal sito ufficiale del Credito Cooperativo.

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Moncler, mon cher!

Moncler, mon cher!

Moncler rinuncia alla quotazione

Il fondo Eurazeo rileva il 45% per 418 milioni – I francesi pagano 12 volte il Mol –  Carlyle ha venduto circa il 30% ed è uscito dal capitale, mentre gli altri azionisti hanno limato le partecipazioni

Salta la quotazione in Borsa di Moncler. A Piazza Affari non va in porto nemmeno l’attesa terza matricola: dopo i dietrofont di Philogen e di Rhiag, la griffe dei piumini sportivi avrebbe dovuto essere la prima società del 2011 a sbarcare sul listino. Ma ieri la doccia fredda: Moncler rinuncia allo sbarco in Borsa e la maggioranza, attualmente in mano al fondo Carlyle di Marco De Benedetti e all’imprenditore stilista Remo Ruffini, passa al fondo francese Eurazeo (che avrà il mentre l’imprenditore rimane col 32% e Carlyle con una quota di minoranza). I francesi, azionisti di Banca Leonardo in Italia, hanno pagato 418 milioni per diventare i primi azionisti col 45%.

A differenza di Rhiag, che ha detto addio il giorno prima del debutto, Moncler non ha nemmeno fatto partire il road show. Già nel fine settimana sono comparsi i primi dubbi: lo slittamento del road show, che sarebbe dovuto partire ieri, non è un segnale che lasciava ben sperare. Fin dai primi giorni di pre-marketing, il nodo è stato il prezzo: per i venditori Moncler non valeva meno di un miliardo; dal mercato, invece, sarebbe arrivata un’indicazione di forchetta tra i 700 e gli 800 milioni. Le borse sono ricettive, come dimostrano le stratosferiche Ipo negli Stati Uniti, ma almeno a Piazza Affari gli investitori non sono disposti a strapagare le aziende. I fondi, invece, riescono a offrire prezzi molto più generosi: nel caso di Moncler addirittura 12 volte il Mol che equivale 1,2 miliardi di euro di valorizzazione, ossia il massimo della forchetta stimata da Banca Imi (global sponsor della fallita quotazione). Ovvio che i venditori, specie se, come nel caso di Carlyle in Moncler, sono dei finanzieri puri, di fronte a valutazioni così alte hanno scelto la strada del secondary buy-out, lasciando l’amaro in bocca a Borsa Italiana.

Piazza Affari troppo avara o fondi bulimici? Di certo sul mercato c’è un eccesso di liquidità che crea distorsioni: la presenza di un private equity, poi, ha fatto prevalere la natura più finanziaria. Ceduta a Eurazeo, assistita da Lazard, Moncler riprende la via della Francia, dopo quasi venti anni: la storica casa è nata Oltralpe, a Grenoble, nel 1952. Dopo il periodo d’oro a metà degli anni ’80, sulla scia del fenomeno, tutto italiano, dei Paninari, il marchio era finito in declino. L’accoppiata Ruffini-De Benedetti l’ha riportata ai fasti di un tempo, ma dietro l’ennesima retromarcia di un’azienda da Piazza Affari, secondo indiscrezioni, ci sarebbe stato anche un animato scontro tra i due soci, proprio nel fine settimana: nonostante le valutazioni più basse del previsto Ruffini sarebbe stato intenzionato ad andare avanti lo stesso con la quotazione. La Borsa rappresentava infatti l’approdo di un cammino industriale e aveva anche finalità commerciali (l’Ipo sarebbe stata usata per coinvolgere partner, clienti e fornitori). Secondo quanto si apprende, avrebbe anche accettato un prezzo nella parte bassa della forchetta, anche per garantire al titolo un rialzo post-quotazione (andando incontro anche ai desiderata del mercato). In più giocava anche la constatazione che Ruffini, dopo l’Ipo, sarebbe rimasto il principale azionista, visto che a vendere era soprattutto il fondo.

A Carlyle, un private equity di dimensioni mondiali mosso da logiche di ritorno sugli investimenti e di rendimenti da garantire ai propri sottoscrittori, lo sconto chiesto dal mercato era inaccettabile. Soprattutto se c’era già pronto un compratore privato disposto a riconoscere quel prezzo che il mercato azionario rifiutava. Chiaro che, nonostante tutto si sia deciso nel giro del fine settimana, Eurazeo non è comparso all’improvviso e che Moncler ha giocato su due tavoli contemporaneamente. La politica del doppio binario sta ormai diventando una prassi: Rhiag sta facendo lo stesso col fondo Pamplona. Dopo due quotazioni saltate, a Piazza Affari l’umore verso i private equity non è dei migliori: Salvatore Ferragamo, la prossima aspirante matricola, è un’azienda familiare. Si spera che sarà per davvero la prima matricola del 2011.

Così Il Sole 24 Ore sulla mancata e cara quotazione di Moncler. Ma vivaddio, perché dobbiamo fremere per ogni nuova o mancata quotazione? Le vecchie società quotate annoiano? Bisogna trovare nuovi temi di interesse? Il capitalismo è diventato un parco giochi, dove si cerca di ammazzare il tempo: a quanto pare, senza matricole, il tempo passa più lentamente. Fino al punto di far dire che “l’eccesso di liquidità crea distorsioni“. Va bene, ne abbiamo ascoltate tante, ascoltiamo anche questa. Chiedere, soprattutto ai giornalisti (ma anche a Vincenzo Boccia, ad Emma Marcegaglia, a Giuseppe Vegas etc…) la decenza di piantarla con le lamentazioni sulla mancanza di liquidità e sulla limitatezza della Borsa, è troppo?

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Borsa Consob Imprese Indebitamento delle imprese IPO

Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Morya Longo, Il Sole 24 Ore

Potremmo chiamarla la «crisi del quinto anno», come nei matrimoni (ma con due anni d’anticipo). Oppure potremmo puntare il dito sull’eccesso di liquidità, pompata dalle banche centrali, che alimenta le bolle. Sta di fatto che i fondi di private equity sono tornati a comprare e vendere aziende agli stessi valori del 2007. Quell’anno, passato alla storia per essere l’apice della «bolla» del private equity, i fondi in Italia acquisivano società valutandole mediamente 11,7 volte il margine operativo lordo. Oggi quei prezzi sono tornati. Proprio ieri i fondi Eurazeo hanno rilevato il 45% di Moncler valorizzando la società 12 volte il Mol: più della media del 2007. Pochi giorni fa Rhiag, di proprietà del fondo Alpha, non ha convinto gli investitori in Borsa, ma ha trovato un altro fondo disposto ad acquistarla ai prezzi che per Piazza Affari erano troppo elevati. Di recente i grandi magazzini Coin sono stati venduti dal fondo Pai a Bc Partners. Aziende che passano da un fondo all’altro, a valutazioni sempre più elevate, come fossero figurine. Sembra di rivedere il film del 2007.

Un deja vù che alcuni operatori spiegano con «la crisi del quinto anno». I fondi di private equity hanno una “vita” decennale: prima raccolgono soldi dagli investitori, poi hanno cinque anni di tempo per investirli, rilevando aziende, e infine hanno altri cinque anni per disinvestirli rivendendo le società a prezzi più elevati. Tra il 2006 e il 2007 sono state racimolate enormi quantità di denaro, ma poi i fondi non sono riusciti a usarle a causa della crisi. Dentro i fondi di tutto il mondo, stima di Morgan Stanley, c’è la bellezza di 434 miliardi di dollari non utilizzati.

Ecco, dunque, il problema: per chi ha raccolto denari tra il 2006 e il 2007, i cinque anni per l’investimento stanno per scadere. Questi fondi dunque devono, a qualunque costo, comprare qualcosa: anche perché, allo scadere dei cinque anni, perderebbero una buona fetta di commissioni pagate loro dagli investitori se non hanno investito i soldi loro affidati. Il bisogno di alcuni di comprare s’incontra poi con quello di altri di vendere: cioè i fondi che hanno acquisito società negli anni della bolla (2006 e 2007) e che ora devono rivenderle partendo da una base di prezzo già alta. È l’eterna legge del mercato.

Se la Borsa, dove pure c’è tanta liquidità, non è disposta a strapagare le aziende, come dimostrano i casi di Rhiag e Moncler, l’unica via d’uscita è di vendere le aziende ad altri fondi: quelli disposti a pagare qualsiasi cifra pur di fare operazioni. Il fenomeno è globale. E, probabilmente, anche italiano. Nella Penisola – calcola Morgan Stanley – tra gennaio e maggio 2011 sono state effettuate acquisizioni per 3,3 miliardi: poco sotto i 3,9 dell’intero 2010. Sta aumentano anche la leva: le banche stanno tornando a finanziare con crediti sempre più elevati le acquisizioni.

Siamo dunque di fronte a una nuova bolla? Molti ne sono convinti. Che succederà quando i fondi, che oggi comprano, dovranno rivendere tra qualche anno e dovranno farlo a prezzi ancor più alti? Non tutti però cedono agli allarmismi: il multiplo di 12 volte il Mol pagato per Moncler, per esempio, è in linea col mondo della moda (dove si vedono multipli anche più alti). C’è una logica dei numeri, si dice. Può darsi. Il problema è che queste giustificazioni si sono già sentite. Nel 2007.

L’ottimo articolo di Morya Longo dimentica di dire ciò che con cadenza martellante ripete Confindustria, Consob e chiunque pensi di avere qualcosa da dire sul capitalismo italiano, compresi i redattori di molti manuali e gli autori di molti libri sui mercati mobiliari: in effetti, abbiamo anche sentito, e non nel 2007, ma molto tempo prima, senza interruzione, che ci vuole più finanza mobiliare, più capitale di rischio, più strumenti innovativi di capitale. Adesso che scopriamo che c’è troppa liquidità, qualcuno vuole dirci dov’è l’errore?

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Banche Liquidità Strumenti finanziari

Strumenti innovativi di capitale.

Strumenti innovativi di capitale.

Conoscevamo la disinvoltura imprenditoriale, quella per intenderci di Vincenzo Boccia e della lobby confindustriale, quella che vuole ricapitalizzare le imprese ma senza metterci neppure un centesimo. Ma non pensavamo fosse possibile che anche una Fondazione, con una banca nel proprio attivo, ragionasse allo stesso modo. Il Sole 24 Ore rende noto, infatti, che “la Fondazione Monte dei Paschi sta per affrontare uno dei passaggi più difficili della sua giovane esistenza da quando, nel 1995, ha scorporato e conferito l’attività creditizia in Banca Mps. Accompagnerà l’azione di rafforzamento patrimoniale del gruppo di Rocca Salimbeni senza diluire in modo significativo il pacchetto di azioni in suo possesso (45,7% del capitale ordinario e 55% di quello complessivo). E lo farà anche a costo d’indebitarsi.

Quindi Monte Paschi si indebiterà (con il Tesoro, verosimilmente) per sottoscrivere un aumento di capitale che non potrebbe sottoscrivere, al solo scopo di non diluire il controllo: finalità più che comprensibile, ma che inevitabilmente dovrà farei conti con le esigenze di politica per il territorio che la Fondazione ha, o dovrebbe avere, scritta a caratteri cubitali nella sua missione. Lorenzo Bini Smaghi ha affermato che le banche dovranno rinunciare a distribuire dividendi e dovranno rafforzare il capitale. Se poi il capitale è stato preso a prestito, il bilancio sociale del Monte dei Paschi di Siena sarà fatto con i cantuccini.

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Banche Energia, trasporti e infrastrutture Fabbisogno finanziario d'impresa

La comune mancanza del pudore.

La comune mancanza del pudore.

Albrecht Durer, Adamo ed Eva

(..) il settore imprenditoriale è variegato, soprattutto nelle articolazioni locali: Confindustria Padova e Unindustria Bologna temono che il decreto Romani blocchi gli investimenti in energia pulita.

Il ministro rilancia. «Le banche italiane hanno sempre espresso condivisione sulla necessità di calmierare il fenomeno. Caso strano – sorride Romani – a lamentarsi sono invece le banche estere». Entro due settimane saranno noti gli incentivi in vigore dal 1° giugno. Per delineare i nuovi incentivi è stato fissato martedì un incontro con aziende, banche e associazioni.

Secondo Boccia «è indispensabile un processo di razionalizzazione». A suo parere, il sistema italiano «è stato troppo generoso: con l’installazione degli impianti già autorizzati per il solo fotovoltaico, ad esempio, si determinerà un aumento del prezzo dell’energia pari al 20% rispetto a quello della borsa elettrica». Secondo i conti di Boccia, la spesa potrebbe arrivare a 3,7 miliardi. «È impensabile che tale aumento possa gravare principalmente sulle Pmi, che già pagano l’energia elettrica circa il 37% in più dei principali competitor europei». L’obiettivo è arrivare a parametri di sostegno analoghi a quelli di Germania e Francia. Anche se il malcontento delle aziende del settore verde è per Boccia comprensibile e «cambiare le regole in corso d’opera non facilita la programmazione degli investimenti», per le Pmi confindustriali il riequilibro va fatto anche per contenere le speculazioni. Conferma Conte che «lo sviluppo della filiera delle rinnovabili è un’opportunità importante», tuttavia occorre interrogarsi «sulla reale efficienza del sistema attuale e soprattutto su quanto questa incida sul costo dell’energia».

Più cauta Confindustria Padova. «L’incognita incentivi sta avendo pesanti ripercussioni sull’intera filiera delle energie rinnovabili e, in assenza di correttivi da parte del governo, rischia di ridimensionare un settore che a Padova e in Veneto ha dimostrato grande vitalità», osserva il presidente Massimo Pavin. «La reazione dei produttori va ascoltata e recepita in un percorso meno drastico verso il nuovo sistema di incentivi e, soprattutto, non retroattivo. È quanto dirò personalmente al ministro Maurizio Sacconi che incontrerò lunedì». Le regole – dice – non possono essere cambiate in corsa. «I patti vanno onorati, specie da parte dello stato».

E contro il decreto si mobilita anche l’Unindustria Bologna, che ha mandato ai parlamentari una lettera aperta. Il presidente Maurizio Marchesini dice che «centinaia di piccole e medie imprese industriali e di altri settori hanno subito effetti immediati e devastanti, con danni incalcolabili in soli pochi giorni».

Il Sole 24 Ore, sabato 12 marzo 2011

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Uno, eterno, immutabile.

Era l’Essere di Parmenide, l’unico filosofo di cui rammenti qualcosa. A quanto pare è anche la descrizione, ormai stanca e ripetitiva, perlomeno nelle parole dei protagonisti, del dibattito su banche, Pmi, vincolo finanziario allo sviluppo, nuovi strumenti per etc…

Promosso da Piccola Industria di Confindustria, guidata da Vincenzo Boccia, noto per le sue idee innovative, si è tenuto a Prato in questi giorni il Forum della Piccola Industria. Senza voler banalizzare l’evidente importanza della presenza delle Pmi nel tessuto imprenditoriale italiano, riesce tuttavia difficile non rimanere delusi dal livello del dibattito in materia di finanza per le Pmi, rapporto banca-impresa e strumenti finanziari, fermo alle consuete e stantie parole d’ordine.

Solo qualche esempio, tratto dall’articolo dell’inviato del Sole 24 Ore, Cesare Peruzzi, riportate nel servizio di sabato 16 ottobre.

Antonio Vigni, Direttore Generale del gruppo MontePaschi, ha affermato che “c’è bisogno di capitalizzare le aziende. In vista dei nuovi parametri di Basilea, che ancora non conosciamo, è chiaro che il tema di fondo riguarda proprio la capitalizzazione: banche e imprese sono sulla stessa barca, nella speranza che il regolatore tenga conto della diversità del modello creditizio italiano, rispetto a quello delle banche d’affari.”

A parte che il regolatore italiano può tenere conto di tante cose, ma difficilmente riuscirà a controllare la sprovvedutezza di coloro che si comprano banche a prezzi d’affezione per poi doverne rivendere pezzi nummo uno, pressati dall’Antitrust; a parte questo, la stessa barca non sembra proprio quella che descrive Vigni, con le Fondazioni riottose ad investire capitali e gli imprenditori che, pur avendo scudato, di ricapitalizzare con soldi buoni non vogliono sentire parlare.

Così, anche al netto di 1,2 miliardi portati in dote dal Fondo Italiano d’investimento, il richiamo alla politica economica sembra sostanziarsi nell’esortazione allo Stato a fornire capitali per un capitalismo mai così tanto straccione, al punto da non nascondere neppure più (almeno la decenza!), la propria intenzione di chiedere denari pubblici. Così, dopo aver ottenuto la moratoria, un periodo che per i più si è risolto nella semplice attesa di “tempi migliori”, ora si finge di ignorare che la crisi ha colpito soprattutto i conti economici e si è manifestata nel blocco del capitale circolante netto operativo: e che quando il fabbisogno deriva da questo, non servono altro che i denari dell’imprenditore, non quelli pubblici.

Denari, peraltro, pochi e scarsi per la destinazione invocata da Confindustria. Così saltano fuori i ben noti strumenti, il private equity e, nemmeno tanto sullo sfondo, la Borsa, come exit way miracolosa. Da ormai molti anni, precisamente da quando lo scoppio della bolla internet ha raso al suolo ogni sorta di velleità di finanziamento all’innovazione, giusta o sbagliata che fosse, mediante capitale di rischio, i fondi italiani di private equity e di venture capital si occupano solo di finanziare operazioni che con la crescita hanno poco a che fare, evitando i rischi delle start-up e stando alla larga da ogni operazione che non abbia una sorta di solidità garantita dal ciclo vitale dell’impresa target. Davvero qualcuno pensa che la soluzione sia nell’investimento in capitale di rischio? Né Boccia né Vigni, che pure non dovrebbero ignorarlo, sottolineano che il problema, per le imprese, è sempre quello dei modelli proprietari chiusi. Modelli che neppure l’investitore istituzionale in capitale di rischio può scardinare, perché poi, oltre a voler mettere il naso nella gestione aziendale, vuole pure essere liquidato. E se non lo fa l’imprenditore (cui qualcuno dovrebbe spiegare che l’investimento in venture capital si chiude così), lo farà la Borsa: naturalmente costosa, naturalmente piena di obblighi, di problemi e di quanto altro, invece, è meglio fuggire.

Invece da Vigni arriva il messaggio che se le imprese si capitalizzassero -preferibilmente con denari altrui, of course– “le banche miglioreranno la loro capacità di valutazione e rafforzeranno il legame con il tessuto economico locale.” Ma proprio a nessuno è venuto in mente di chiedere ai capitalisti di fare il loro mestiere? All’imprenditore di rischiare del suo? Mentre le parole d’ordine si depositano sulla carta, lasciando lo stato dei rapporti banca-impresa così com’è, forse vale la pena ricordare, a conclusione di questa riflessione,  che se i capitali “scudati” fossero stati impiegati per ridurre l’esposizione bancaria delle imprese, si sarebbero evitati non solo dibattiti inutili, ma soprattutto i tempi, sempre troppo lunghi, di fuoriuscita dalla crisi.

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Banche Borsa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

Fra “partenariato” e “solitudine”: come banalizzare il dibattito sul rapporto banca-impresa.

Viene definito “appello” quello lanciato il 29 settembre, nel corso di un dibattito presso la sede del Sole 24 Ore, dal presidente di Piccola Industria di Confindustria, Vincenzo Boccia. L’appello è ad avere banche forti ed imprese forti, il convegno “La finanza per le imprese” incentrato sugli strumenti per rafforzare il patrimonio. Nel servizio, a firma di Cristina Casadei sono riportate affermazioni e proposizioni talmente vecchie e banali da far sorgere il dubbio che il dibattito risalisse a 10-15 anni fa. Mauro Costa di Banca Arner -banca svizzzera, peraltro- si premura di farci sapere che “come banca Arner noi siamo i primi a voler alleviare la solitudine (sic) del piccolo imprenditore che va aiutato nella relazione sempre più impersonale con il sistema bancario prodotta dalle nuove regole“. Paolo Casiraghi, consigliere di Banca Arner osserva, per esempio, che deve esserci un nuovo (nuovo?) approccio al patrimonio: «Ci sono dei patrimoni privati che non sono correlati con quello dell’azienda e che possono essere costituiti sia da immobili che da liquidità – osserva il manager –. È anche su questi che devono essere costruiti i piani per l’accesso al credito». I piani industriali «spesso peccano e devono essere rimessi in linea perché gli aspetti tecnici introdotti da Basilea 3 sono molto più demanding (demanding?)e le imprese non sembrano essere organizzate», aggiunge Costa. Il punto fondamentale è capire «come le banche leggono le imprese – dice Casiraghi –. In genere prendono in considerazione un dato sopra tutti gli altri e cioè l’indice di fallimento. Ma non si può tradurre l’imprenditore e la sua azienda solo in questo numero. Noi cerchiamo di costruire un piano considerando tutto il patrimonio, in modo tale che emerga un fattore di rischio chiaro».

Dunque la novità sarebbe quella di “considerare tutto il patrimonio“: la cara vecchia confusione del patrimonio personale dell’imprenditore e l’azienda, le garanzie come presidio non di seconda, ma di prima linea del credito. Non l’indice di fallimento (si presume che con ciò si intenda la PD o probability of default) ma, probabilmente, la PD e le garanzie. Una novità davvero sconvolgente.

L’articolo continua affermando, incredibile auditu, che “a poter concorrere al rafforzamento patrimoniale delle imprese però non ci sono solo le banche. C’è la Borsa per esempio, che però in Italia non sembra aver riscosso il successo di altri paesi. «I motivi per cui non aumentano le imprese quotate sono tanti – spiega Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana–, per esempio il fatto che gli imprenditori non vogliono perdere il controllo dell’azienda». Jerusalmi ci rivela verità inaspettate, non avevamo mai letto nulla di simile, niente che assomigli alla “propensione ai modelli proprietari chiusi“.

La conclusione, evitando di parlare di “internazionalizzazione” e della necessità di “fare sistema”, una volta constatato che “il salto numerico tentato attraverso la segmentazione che avrebbe dovuto rispondere alla frammentazione del tessuto industriale italiano non ha dato grandi risultati e forse questo è il segno che la Borsa non necessariamente è la risposta per le Pmi (ben arrivati!) va oltre ogni attesa. Infatti, “oltre alla Borsa ci sono anche molti altri strumenti come per esempio i fondi, i fondi specializzati, il private equity, il venture capital.” Se fosse una tesi, sarebbe una compilativa, nessun punto. Il guaio è che non è una tesi, sono le idee di Confindustria ed il frutto del dibattito presso il primo quotidiano economico italiano. Auguri.

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Banche Indebitamento delle imprese Moratoria dei debiti Mutui e tassi di interesse PMI

Frozen credit and expired ideas.

Groenlandia

Secondo le stime di fine maggio del Ministero per l’Economia, le domande per la sospensione delle rate, in base al cosiddetto Avviso comune o moratoria, sono salite a quota 197mila, con circa 10,5 miliardi di debiti “congelati”, a fronte di un debito residuo pari ad oltre 4 volte (46 miliardi di euro).

Se il sistema bancario ha accolto il 77% delle richieste, dai Confidi sono arrivate garanzie per oltre 5 miliardi.

Francesco Bellotti, presidente di Federconfidi, in occasione dell’assemblea annuale ha evidenziato che, nonostante questi numeri, la situazione resta critica e che servono “interventi straordinari della politica per un rafforzamento patrimoniale.” Forse sarebbe il caso di dirlo a voce alta e non nascondersi più dietro ad un dito –in altri Paesi, la Francia per esempio, lo fanno già- evidenziando che i Confidi, originariamente nati con finalità mutualistica fra imprenditori, associati fra loro per ottenere una maggiore capacità contrattuale e di garanzia, sono diventati un ente pubblico, che svolge una funzione di interesse pubblico, con denari prevalentemente pubblici. Il che significa certamente chiedere allo Stato che faccia la sua parte, ma anche usare quei denari più responsabilmente di quanto numerose esperienze, al Sud come al Nord, documentino.

Quanto a Vincenzo Boccia, presidente della Piccola Industria di Confindustria, ha affermato che obiettivo del sistema imprenditoriale è rafforzarsi, ovvero (sic) “avere strumenti di finanziamento a medio termine, non più a breve, come è il private equity.”

Ma chi scrive i discorsi del Presidente Boccia? Ma davvero è convinto che il credito a medio-lungo termine ed il private equity risolvano i problemi delle Pmi, il cui fabbisogno è spesso tutto da verificare, legato ad iniziative avventate, sbagliate alla radice, frutto di speculazione immobiliare? Perché il private equity possa svolgere il compito di sostenere il capitale di rischio delle imprese occorrono certamente gli operatori: ma se c’è l’offerta e manca la domanda? Se la questione è, di nuovo e drammaticamente, quella del modello del capitalismo italiano, familiare e perciò chiuso, a cosa serve il private equity? Se Myers (non proprio uno qualunque) documenta l’esistenza del famoso ordine di preferenze delle Pmi, nel quale al primo posto, dopo l’ovvio autofinanziamento c’è il debito bancario e solo all’ultimo c’è il capitale di rischio di provenienza esterna, il private equity è destinato a fare la fine di un concerto di musica classica programmato la sera della Notte Rosa.

Infine, l’ignoto, ma certamente poco innovativo ghost writer del Presidente Boccia gli fa dire che le aziende chiedono di essere valutate non solo sulla base dei numeri di bilancio, ma sulla base dell’analisi qualitativa. Se l’analisi qualitativa è quella che mi è capitato di esaminare in tante pratiche di fido, dove si chiedeva alla banca di fidarsi ciecamente di numeri non documentati, di percentuali in crescita prive di riscontro, forse sarebbe meglio lasciar perdere. E rimettere al centro la questione, dai più dimenticata, che il problema delle Pmi è anzitutto di gap di cultura gestionale e finanziaria. Nessun Confidi, private equity investor o banca specializzata del credito a medio-lungo termine può cavare il sangue dalle rape. Se poi le rape sono immobili, meglio, molto meglio lasciar perdere.